A Lignano Sabbiadoro, dove mi reco regolarmente da molti anni, c’è un ristorante brasiliano sulle cui pareti campeggia una fotografia, con tanto di autografo e di dedica al titolare del locale, di Arthur Antunes Coimbra, meglio noto come Zico, e non serve sprecare fiato virtuale per spiegare l’amore di Udine e della sua provincia per il fuoriclasse brasiliano.
La sua breve e leggendaria parentesi udinese, infatti, l’ha incoronato tra i miti degli appassionati italiani, da sempre molto severi quando si tratta di giudicare chi non ha incrociato i tacchetti con i nostri famigerati trucchi difensivi, ma rappresenta solo una fetta della sua carriera, e non certo la più significativa.
Quando sbarca in Italia, nel 1983, i giornalisti sono infatti entusiasti ma non nascondono un certo scetticismo: ha trent’anni (all’epoca, parecchi), è abituato al calore di Rio e alle difese allegre del Sudamerica (pregiudizio radicato all’epoca come oggi), e poi anche Platini ha pagato dazio e per diversi mesi alle esigenze tattiche e alla durezza fisica del calcio italiano, e Platini è cresciuto nella vicina Francia, non sulle spiagge brasiliane. Come sappiamo, lo scetticismo della stampa viene seppellito dalle sue reti e dalle giocate funamboliche che il Galinho regala agli appassionati italiani sin dal debutto, il prologo a una stagione su cui ancora oggi circolano leggende e miti, e non solo a Udine, o Lignano Sabbiadoro e nel suo ristorante brasiliano.
Ma oggi non vogliamo raccontare lo Zico di Udine, analizzato al microscopio da decine di articoli virtuali e non, da decenni di racconti gloriosi, dagli occhi luccicanti di chi c’era.
Zico è uno dei due-tre giocatori che amo di più, se parliamo di calciatori che appartengono a un passato a me precluso per ragioni anagrafiche, e lo è proprio sul piano della bellezza, e voglio quindi partire proprio da qui, dall’estetica del suo gioco, che per me è una delle ragioni per cui il calcio merita di essere seguito.
Sono convinto che, con il passare dei decenni, i riflettori degli amanti del football si spostino in parallasse e osservino gli avvenimenti del passato in maniera diversa, deprezzando il risultato e rivalutando la pura gioia e bellezza di una partita, di una giocata, di un momento. Come disse il suo illustre compagno Socrates, Zico è stato pura gioia, e giocare al suo fianco – sempre per il Dottore – è stata una delle cose più belle che la vita gli abbia da sportivo regalato.
Non fatico a comprendere le ragioni del leggendario Dottore: se ami il calcio e vedi Zico in campo, è naturale il colpo di fulmine.
Zico era ed è il figlio di un Sudamerica ancora devastato dalla piaga della malnutrizione, un po’ come Garrincha (l’atleta più improbabile del secolo) e come Messi, che ha sofferto la mancanza dell’ormone della crescita, una carenza che ha rischiato di stroncarne la carriera sul nascere. Ci sono molti altri casi di freak of nature che diventano giocatori remando contro le forze della natura, in quella parte del mondo che è la madre dei giocatori improbabili, e quello di Arthurino/Arthurzico è uno dei più eclatanti: magrissimo, quasi privo di massa muscolare, piccolo, come pochi altri fenomeni ha saputo sollevare il mondo facendo leva solo sulla sua qualità, su un talento che sgorgava naturale dai suoi piedi e dal suo muscolo più importante (quello che separa le orecchie), e che lo rendeva quasi immarcabile.
Il gioco di Zico era di una leggerezza (da intendersi anche nel senso calviniano del termine) quasi preternaturale, e anzi antinaturale: con i suoi 170 cm di pelle e ossa sembrava inadeguato a reggere l’impatto con la durezza del calcio degli anni ’70, anche in Brasile, figuriamoci nel più spigoloso calcio europeo, e invece – letteralmente – volava e sconfiggeva con una disinvoltura sorprendente le leggi della fisica. Un po’ come Iniesta (quasi uno Zico messo a centrocampo), il brasiliano praticava un calcio che sembrava aver dimenticato l’agonismo per puntare tutto su un concetto vago ai limiti dell’astrazione come quello di tecnica e di qualità, e risulta quindi “dominante” in maniera illogica, quasi inspiegabile, ma sempre dominante, sia come uomo gol che come rifinitore, con i suoi geniali dribbling e con le sue punizioni arcuate, invocate e temute come fossero rigori – Zico era un numero dieci ma questa definizione va intesa in un senso molto brasiliano, Arthur era un attaccante che poteva giostrare anche come mezzala e come trequartista.
Arrivo al dunque: come altri superbi connazionali, anche Zico – cito ancora una volta una bellissima definizione che porta la firma di David Foster Wallace – era al tempo stesso più concreto e meno concreto degli altri, e il suo stile, la sua pura gioia estetica, rendevano possibile questo ossimoro.
Soprannominato Galinho per la folta capigliatura giovanile ma anche per l’eleganza civettuola del suo gioco, per il suo gusto un po’ narcisista per la giocata, per la bellezza estatica del suo rapporto con il pallone, Zico era una manna per tutti gli esteti e al tempo stesso una fucina di gol, assist, partite in cui risultava determinante con una semplice illuminazione, con un colpo di tacco, con un assolo palla al piede. La morbidezza quasi inspiegabile del suo tocco era il preludio a giocate oniriche, illuminate da una luce tutta loro e purissima, ma anche a giocate determinanti, in grado di deviare il corso di una partita.
In sintesi, Zico appariva etereo e votato alla pura bellezza, una sorta di malandro più sobrio e meno ostentatamente rococò di molti connazionali, e al tempo stesso era decisivo nei numeri e nelle singole giocate, nei successi di squadra, per uno di quei paradossi che riescono a non implodere, a esistere solo quando sono nelle mani dei grandissimi: per noi è naturale distinguere tra giocatori concreti, “pratici”, essenziali, che “badano al sodo”, e giocatori per cui la bellezza della giocata viene prima della sua funzionalità, ma credo che si tratti di una visione molto europea e che i brasiliani, almeno quelli del tempo, avrebbero trovato poco convincente, perché per loro la bellezza della giocata è, almeno in una certa misura, la sua funzionalità.
Come accennavo, la storia mette in secondo piano il risultato puro e si innamora dei momenti, e forse nessun’altra squadra ha saputo impadronirsi di un momento, almeno dopo il 1974, come il Brasile del 1982, la squadra del calcio-arte predicato e messo in pratica da Telê Santana.
Poco importa che il nostro momento più alto del dopoguerra abbia per loro un nome funesto – la tragedia del Sarriá: negli occhi di quasi tutti gli appassionati del mondo, anche oggi che sono passati 42 anni, rimangono impresse le istantanee delle invenzioni di Zico e dei suoi sodali.
Il piccolo funambolo di Rio è reduce da un mondiale del 1978 più ombre che luci, in cui la sua estrema libertà anche tattica ha fatto a pugni con il rigore militare di Coutinho, ct dalla personalità tetragona e patriarcale che non ha esitato a escludere Falcão, la bola de ouro del campionato, per preferirgli il più solido e difensivo Chicão.
Quattro anni dopo, Zico si riscatta e non solo segna, ma letteralmente declama calcio quasi in ogni partita, anche in quella del 5 luglio, in cui nonostante le difficoltà prende in mano il pennello e, dopo uno di quei movimenti del bacino che lo rendevano del tutto imprevedibile, accende la luce proprio per l’amico Dottore, che punisce Zoff. La storia si innamora di ciò che riempie i suoi occhi di meraviglia e quasi nessuno ci è riuscito come il Brasile del 1982, forse l’ultima vera espressione di un calcio dall’essenza totalmente sudamericana, lontanissima dalle nostre regole, sicuramente “ingenuo” e privo di cinismo, ma anche per questo, forse, nella società del cinismo, ancora più indimenticabile.
Vale per quel Brasile e in particolare modo per Zico ciò che un grande appassionato mi disse alcuni anni fa: se i brasiliani del tempo avessero avuto la metà della cattiveria agonistica della Germania Ovest o dell’Italia avrebbero vinto il doppio, ma non sarebbero stati i brasiliani, non avrebbero saputo guadagnarsi l’amore di stuoli di fan anche per la loro incompiutezza.
La natura aveva premiato Zico con il talento, ma in un periodo nel quale il mondo del calcio cominciava a parlare di un calcio fatto di forza, quel fisico non entusiasmava nessuno. Essendo magro, non alto, con le gambe storte e una spalla più bassa dell’altra, il suo talento aveva poche possibilità di sopravvivere, ma quel fuoriclasse aveva ancora più di un asso nella manica: la passione, la volontà, l’abnegazione.
Jorge Valdano
Concludo con una domanda: quale sarebbe la considerazione riservata a Zico, se il piccolo genio giocasse oggi e non giocasse in Italia?
Non voglio essere frainteso: se da tempo si celebra il Mondiale di Spagna di Zico come un capolavoro, al tempo la stampa fu molto meno indulgente e il fuoriclasse brasiliano fu addirittura infamato come “fallimentare”, perché, in fondo, il suo Brasile era uscito nel girone dei quarti di finale, e sulla carta era la squadra migliore, e contro gli azzurri, nonostante un assist geniale, Zico non era stato decisivo. Il presente si concentra sempre sul risultato: questa accadeva nel 1982 e accade oggi.
Ciò non toglie che, e di questo ne sono convinto, la grande ammirazione di cui il Galinho gode in Italia sia dovuta in buona misura alla straordinaria stagione friulana, e lo scetticismo che accolse il fenomeno a Udine conferma un po’ le mie impressioni: i tre palloni d’oro sudamericani, le due bole de ouro, i successi del Flamengo nei primi anni ’80, le centinaia di giocate da bocca aperta e l’amore incondizionato di una megalopoli non sarebbero sufficienti a renderlo un gigante, agli occhi del tifoso generalista, se Zico non avesse dimostrato anche a Udine di essere un giocatore straordinario.
Senza la parentesi italiana, temo che Zico sarebbe giudicato un funambolo e un fuoriclasse che però: nel Flamengo ha vinto molto ma non moltissimo (un Bochini ha un curriculum sudamericano di gran lunga superiore, un Riquelme pure); in nazionale, pur collezionando grandissimi numeri e giocate, non ha vinto neppure un trofeo minore, e in tre mondiali è quasi sempre uscito “maluccio”, senza arrivare davvero in fondo: in sostanza, il grosso rischio sarebbe quello di considerarlo un parziale incompiuto, ma sarebbe un errore tutto nostro, uno dei tanti che si sono commessi negli ultimi anni, specie da quando è in vigore il cosiddetto “metodo Messi”.
Per nostra e per sua fortuna, Zico ha saputo farsi beffe delle rigide regole del resultadismo e del cinismo spietato dei giudizi contemporanei, e ha saputo riempire il mondo di bellezza come quasi nessun altro nella storia, sin da quando, da bambino piccolo e magro, circondato dai fratelli, dominava gli avversari con la maglia della Juventude per le strade di Rio: l’ha fatto giocando un calcio superiore, dimostrandosi semplicemente più bravo di tutti per ciò che sapeva fare con il pallone, e il resto nel suo caso passa in secondo piano.