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Diamo i numeri: il significato delle statistiche nello sport

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La pallacanestro è uno sport dove i numeri rappresentano una fetta significativa del discorso. Michael Jordan è “per acclamazione” il più grande cestita di ogni epoca (a dire il vero, il duumvirato con LeBron è in vigore da tempo, ma si potrà tirare le somme solo dopo il ritiro del fuoriclasse di Akron, che resta in ogni caso per i più in seconda fila) anche perché è stato per dieci volte il miglior realizzatore NBA, e perché la sua media punti è sempre cresciuta, a volte in modo esponenenziale, durante i playoff; aggiungiamo che Mr. Air si è guadagnato anche il premio di difensore dell’anno e che ha vinto sei titoli di squadra sempre da giocatore chiave della stagione e pure delle finali, e possiamo farci un’idea delle dimensioni del suo mito e del significato che assume per lui la parola “acclamazione”.

In qualche modo, la grandezza nella pallacanestro è pertanto e in sintesi “misurabile”, pur con tutti i distinguo del caso: anche la palla a spicchi circola tra le mani di giocatori diversi e anzi, come insegna il nostro Giuseppe Raspanti, giornalista navigato in materia, le partite di basket assomigliano a partite di scacchi, ovvero a sfide in cui la premeditazione e la strategia possono fare la differenza, anche per esaltare le doti dei singoli, e quindi l’idea della squadra resta qualcosa di diverso e di più grande del talento del singolo, ma quando si parla di individualità i numeri hanno un peso specifico notevole.

epa10437313 Los Angeles Lakers forward LeBron James reacts to a play during the Boston Celtics overtime win at the TD Garden in Boston, Massachusetts, USA, 28 January 2023. EPA/CJ GUNTHER SHUTTERSTOCK OUT

Capita che esistano giocatori dai numeri straordinari che vincono poco a livello di squadra (A.I., sovrano del suo Paradiso Gangster, o magari la fulgida e fragilissima stella di T-Mac) e anche cestiti dai numeri individuali ordinari che però sanno fare la differenza come uomini squadra/franchigia (la lingua velenosa di Rasheed Wallace, per talento forse una delle prime tre ali grandi di sempre, ma relegato nelle posizioni di rincalzo nelle graduatorie all time per i “bassi volumi” della sua produzione in termini di punti, assist etc..). Di regola, però, il più bravo ha anche numeri da star. Aggiungo una precisazione a mio avviso importante: nella pallacanestro, almeno in quella americana, non esiste il concetto di categoria. Ogni squadra può teoricamente ambire al titolo, ogni squadra l’ha fatto più volte nel corso della propria storia, e non esistono gerarchie consolidate. Nel 2019 i Toronto Raptors portano per la prima volta l’anello in Canada, poi di fatto si eclissano. Nel 2018 i Golden State Warriors della Small Ball vincono il terzo titolo in quattro anni, l’anno successivo perdono inaspettatamente le finali proprio contro i canadesi, quindi nel 2020 si classificano ultimi (!) nella Conference dell’Ovest. In NBA il vento della storia cambia direzione con una velocità incomprensibile per noi calciofili.

Ancora, nella pallacanestro tutti i giocatori sono chiamati a contribuire a tutte le fasi del gioco, e questo valorizza ulteriormente il dato statistico: un giocatore può essere straordinario perché segna molti punti, ma è chiamato anche a difendere, quale che sia il suo ruolo, e se è del tutto inadatto alla difesa questa lacuna un po’ lo ridimensiona. Un grande difensore che però segna molto poco o inventa pochi assist resta un giocatore monodimensionale, per quanto bravo e utilissimo nel contesto di una squadra. Nel calcio, naturalmente, questo non esiste: nessuno si sogna di togliere punti a geni come Messi o Maradona perché poco abili in fase difensiva, la distribuzione dei compiti nel campo da undici è decisamente più votata alla specializzazione.

Veniamo al dunque: se il basket è anche uno sport statistico, possiamo dire lo stesso del calcio? Secondo me sì, ma i distinguo e le precisazioni nel football diventano innumerevoli e indeboliscono di molto la solidità dell’assunto.

In primo luogo, esistono a mio avviso aspetti del gioco dove la quantità cede necessariamente il passo alla qualità. Non misuriamo la bravura di un portiere o di un difensore sulla base del numero delle parate o dei contrasti. Cannavaro è un giocatore superiore a un Acerbi non perché abbia messo a referto più tackle (credo nessuno si sia mai preso la briga di contarli), ma perché è un giocatore complessivamente più dotato e ha fatto la differenza in un contesto più selettivo e impegnativo. Perché ha cancellato dal campo star di caratura mondiale e ha disputato il Messico 1986 dei mondiali difensivi. Il discorso è eminentemente qualitativo e relega le statistiche in secondo, se non in terzo, piano.

Anche il numero dei trofei di squadra ha minore rilevanza, a mio parere, di quanta non ne abbia nel basket (dove pure ha un peso tutto sommato relativo). Roberto Baggio e Stanley Matthews hanno vinto molto meno di atleti molto meno dotati di loro, e proprio la natura qualitativa delle loro giocate ci consente di riconoscere e affermare con una certa disinvoltura la loro superiorità su giocatori che hanno militato in squadre più vincenti. Havertz ha deciso una finale di Champions League e Origi l’ha “chiusa”, mentre Francesco Totti, Zlatan Ibrahimović ed Eric Cantona non l’hanno mai neppure giocata (Totti, a dire il vero, non è mai andato oltre i quarti di finale), eppure non nutriamo alcun dubbio sulla loro netta superiorità rispetto al pur valido giocatore tedesco.

Aggiungo che se nella NBA il concetto di categoria è di fatto pressoché irrilevante, nel calcio vale l’esatto contrario: i numeri vanno sempre in qualche modo filtrati e “tarati” anche in base alla categoria cui appartiene il giocatore, perché esistono piani diversi e i numeri messi a referto a un piano inferiore non valgono i numeri che si collezionano ai piani alti.

Cerco di essere più specifico: Ciro Immobile ha segnato più di George Weah e ha una media gol superiore anche a quella di Ronaldo il Fenomeno, in serie A, ma credo che nessuno possa azzardare paragoni, neppure con King George. Perché il repertorio dei due palloni d’oro è molto più vasto, perché i loro gol hanno pesato di più, perché George e Ronaldo sono stati chiamati a fare la differenza in squadre che partivano con l’obbligo di competere per la vittoria, in mezzo ad altri campioni più o meno affermati; perché i loro gol hanno contribuito a superare avversarie blasonate.

Ciò premesso, resta da vedere se e come i numeri devono essere presi in considerazione quando si parla di football. Io credo che la loro funzione resti significativa soprattutto sotto diversi aspetti.

In primo luogo, i numeri non mentono: vanno bene tutte le categorizzazioni e i distinguo del caso, ma i numeri restano numeri. Se ho realizzato trenta reti, questo dato di fatto non può essere ignorato. Se ho messo a referto dieci assist non si può fingere che non sia accaduto, anche perché si tratta di giocate che definiscono i risultati di una partita e quindi, a lungo termine, anche di una squadra. La contestualizzazione dei numeri richiede un passaggio ulteriore, un lavoro di interpretazione fondamentale che tuttavia non può negare i fatti nudi e crudi.

Quindi, se è vero che Ciro Immobile non vale George Weah pur avendo segnato più di lui, è altrettanto vero che Ciro Immobile resta un signor attaccante, che i suoi titoli di capocannoniere non possono essere disconociuti o trattati in modo sprezzante perché lui “non è un fuoriclasse”, che Ciro si è guadagnato un posto di rilievo nella storia del campionato italiano, e che se non l’ha fatto a Siviglia, in Europa e in nazionale è anche perché in quei contesti i suoi numeri sono molto diversi da quelli collezionati tra Torino e Lazio.

I numeri assolvono quindi anche a una funzione qualitativa: KIng George è stato un fuoriclasse, ma inferiore a un Ronaldo (e probabilmente anche a un Batistuta) soprattutto per ragioni numeriche, per il mero dato quantitativo. Weah segnava relativamente poco, per essere un centravanti, e se il peso delle sue giocate e delle sue reti in squadre come PSG e Milan lo colloca comunque in una categoria diversa rispetto a quella riservata ai “bomber minori”, è altrettanto vero che i volumi più estesi di giocatori più o meno di pari caratura non possono essere trascurati e consentono di preferirli al giocatore liberiano. Messi e Cristiano Ronaldo sono stati due fenomeni anche per le loro cifre, che assumono un ruolo significativo soprattutto per i giocatori votati alla costruzione e alla finalizzazione (meno in altri reparti): se Messi avesse segnato dieci gol a stagione, la sue squadre avrebbero vinto molto meno e anzi direi giocato in maniera diversa, e nessuno lo inserirebbe in un discorso sui più grandi di ogni epoca; se Cristiano fosse rimasto l’ala funambolica, tutta doppi passi e controfinte, ammirata nei primi anni di carriera, sarebbe un grande giocatore ma nessuno lo annovererebbe tra i titani. Le centinaia di reti messe in saccoccia trasformano anche la caratura del giocatore.

Platini viene giustamente celebrato come una leggenda anche perché ha saputo aggirare le trappole difensive tese dal calcio italiano degli anni ’80 per conquistare tre titoli di capocannoniere, senza essere una punta peraltro: avesse segnato 5 gol a stagione, lo reputeremmo ugualmente un fuoriclasse, ma non lo inseriremmo nella stessa frase degli Eletti. Iniesta è uno dei massimi esempi di giocatore non-statistico, perché la bellezza e l’importanza del suo gioco e delle sue invenzioni non si possono misurare: è anche vero, d’altra parte, che se avesse segnato 15 reti a stagione, anziché 4 o 5, lo collocheremmo probabilmente al fianco di Roi Michel, e non un piccolo gradino sotto.

In estrema sintesi, io credo che i numeri siano sempre un dato di fatto da cui partire e che contribuiscano a definire quel concetto vago e non sempre univoco che risponde al nome di qualità di un giocatore: la qualità di un singolo, in sostanza, è anche qualcosa di misurabile, entro certi limiti e con tutte e precisazioni del caso, legate soprattutto a ruolo, categoria di riferimento e squadra in cui si milita, oltre che al peso delle singole giocate.

Aggiungo che i numeri possono servire anche per rivelarci ciò che non vediamo: spesso le nostre valutazioni sono ritagliate sui pochi dati a nostra disposizione, sulla singola partita cui abbiamo potuto assistere, sulla specifica giocata (questo, mettendo da parte per un momento i filtri personali di cui spesso siamo inconsapevoli). Decretiamo con disinvoltura che il tale giocatore è sopravvalutato o un campione quando conosciamo forse un decimo della sua carriera, fiduciosi nelle nostre capacità percettive e non sufficientemente umili o accorti da coglierne tutti i limiti (capacità percetttive che spesso sono peraltro forgiate o fortemente influenzate da un immaginario condiviso). I numeri, in questa prospettiva, possono pertanto aiutarci a renderci conto dei nostri limiti e assolvono quindi anche a una funzione descrittiva: prima di Real Madrid-Manchester City, ad esempio, ho letto che Luka Modrić recupera il doppio dei palloni di Kevin De Bruyne, ma che il belga crea il doppio delle occasioni e calcia molto di più verso la porta avversaria. Il mero dato statistico, in questo caso, ci aiuta a comprendere come due giocatori di altissimo livello contribuiscono allo sviluppo del gioco della propria squadra, e aiuta quindi anche a definirne le caratteristiche e le qualità.

Non esiste forse una chiave di lettura universale, ma a mio parere resta valida la tesi per cui i numeri sono un dato da cui non si può prescindere, da mettere poi in relazione ad altri dati e valutazioni più strettamente qualitativi, e che abbiano quindi un valore che esorbita dai limiti della pura statistica.

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