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José Manuel Moreno, il Pablo Picasso della Máquina

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Quando mi chiedono chi sia il migliore tra Pelé e Maradona, io rispondo sempre: Moreno

Mario Boyé, attaccante argentino degli anni ’40 e ’50

Il primo a credere in lui era stato un misterioso allenatore ungherese di origine ebraica: si chiamava Imre Hirschl e nei primi anni ’30 aveva deciso di lasciare la madrepatria per l’Argentina in cerca di fortuna. Dopo un’ottima esperienza al Gimnasia La Plata, Antonio Liberti – che del River Plate era più di un presidente, era un autentico sovrano – decise di dargli fiducia, ammaliato dal suo stile di gioco offensivo e dallo straordinario fiuto nel saper scovare i giovani di talento. Hirschl non lo deluse. E nel 1935 durante una tournée in Brasile si portò dietro un 18enne di belle speranze, frutto del vivaio: José Manuel Moreno. Poche settimane più tardi lo fece debuttare in campionato contro il Platense: il River vinse 2-1 e Moreno andò subito in gol. Il primo di un assoluto genio del gioco, non valorizzato e ricordato come meriterebbe solo perché la TV ancora non era ancora arrivata e partite complete su di lui non sono oggi disponibili. Eppure chi lo ha visto giocare giura che con un pallone tra i piedi abbia avuto pochissimi eguali. La IFFHS, federazione internazionale di storia e statistica del calcio, lo ha inserito al 5° posto tra i giocatori sudamericani del XX secolo alle spalle di Pelé, Maradona, Di Stéfano e Garrincha. Posizione forse persino riduttiva alla luce delle tante testimonianze del tempo e della considerazione che molti addetti ai lavori – giornalisti, allenatori ed ex giocatori – hanno di lui in Argentina.

Era nato il 3 agosto 1916 a Buenos Aires, nel quartiere di La Boca, affinando le proprie doti sulle strade polverose intorno allo stadio della Bombonera. Tifoso xeneize, sognava naturalmente di poter indossare un domani la divisa gialloblu. Ma al provino venne respinto. Moreno non si scompose. «Ve ne pentirete» sentenziò ai dirigenti e mai parole furono più profetiche. Firmò per i grandi rivali del River Plate e divenne una leggenda. Hirschl lo trasformò subito in un perno fisso dell’attacco e al suo fianco ebbe il coraggio di lanciare un altro prospetto, di due anni più giovane: Adolfo Pedernera. I due divennero lo zenit e il nadir del calcio argentino, gli alfieri di una formazione che da lì a pochi anni avrebbe rivoluzionato le coordinate tecniche del gioco. Moreno e Pedernera, insieme al veterano Carlos Peucelle, al fromboliere Bernabé Ferreyra detto La Fiera (centravanti dalle spaventose medie realizzative) e a Eladio Vaschetto formarono la prima linea del sontuoso River che conquistò i titoli del 1936 e del 1937, quest’ultimo da ricordare in particolare per le cifre da record: 106 gol realizzati in 34 giornate, 27 vittorie, 4 pareggi e appena 3 sconfitte.

Imre Hirschl, colui che intuì per primo le qualità di Moreno

Il lavoro di Hirschl, che aveva partorito un modulo singolare, l’MW (la squadra era metodista in difesa, con 2 uomini davanti al portiere e 3 mediani; e sistemista in attacco, con 2 mezzali e 3 attaccanti) fu proseguito da due suoi allievi, l’italo-argentino Renato Cesarini e José María Minella. Sotto la loro guida, tra il 1941 e il 1947, la squadra vinse quattro campionati nazionali, regalò spettacolo ed ebbe un impatto sul gioco unico. Non era solo questione di qualità tecniche e di talento. Era anche la capacità di saper giocare d’insieme e in modo particolarmente organizzato e moderno: movimenti senza palla, flessibilità tattica, giocatori polivalenti e che erano capaci di scambiarsi la posizione in modo armonico senza che la manovra corale ne risentisse. Anzi: ne usciva ulteriormente rinvigorita, ulteriormente rafforzata. Era qualcosa di assolutamente sconvolgente per i canoni individualistici e di puro estro del calcio sudamericano. Le lezioni del mitteleuropeo Hirschl si erano fuse con il pragmatismo di Cesarini, allievo di Vittorio Pozzo ai tempi dell’Italia bi-mondiale, e con la tradizione creola di Minella.

Quel ciclo passò alla storia come Máquina. Espressione coniata dal giornalista Ricardo Lorenzo Rodriguez in un articolo su El Gráfico del 1942, per indicare i meccanismi perfetti dei movimenti, il funzionamento come un orologio di una formazione che sapeva unire le note sinuose del tango con la strategia tipicamente europea, anticipando per certi versi il calcio totale degli ungheresi e degli olandesi. Il River si muoveva come un’orchestra, non a compartimenti stagni. E se i difensori erano giocatori buoni ma non eccezionali – gente come Ricardo Vaghi, Luis Ferreira, José Ramos, Norberto Yacono, Eduardo Rodriguez – la qualità assoluta emergeva dal centrocampo in su. Fulcro del gioco era Bruno Rodolfi, centromediano di alto magistero, poi sostituito negli ultimi anni dall’emergente e dinamico Néstor Pipo Rossi. La prima linea era qualcosa di devastante, una cantilena da mandare giù a memoria: nominalmente le ali erano Juan Carlos Muñoz, raffinato e cerebrale, e Felix Chaplin Loustau, secondo Alfredo Di Stéfano «un Gento più forte e più veloce». Al centro, la Diagonal, schema tipicamente sudamericano con la mezzala destra Moreno arretrata, Pedernera perno centrale e la mezzala sinistra Ángel Amadeo Labruna El Feo uomo più avanzato. Ma in realtà tutti sapevano fare tutto ed era il movimento incessante e continuo l’architrave del gioco. L’aspetto singolare è che questi 5 meravigliosi interpreti scesero in campo assieme appena 18 volte. Il fatto che siano diventati leggendari nonostante il ridotto numero di incontri che hanno disputato contemporaneamente depone a favore della loro grandezza.

Il nostro modulo è l’1-10. Tutti attaccano e tutti difendono. La squadra si è formata quasi magicamente, un pezzo che si unisce a un altro pezzo perfettamente congruente. Nascono quasi spontanei movimenti con e senza palla: occupare una zona, lasciarla libera per un inserimento a sorpresa. Siamo un gruppo di grandi interpreti, degli illuminati del gioco, tutti con una comprensione totale di quello che avviene in campo. Tutti sembriamo avere un copione in mano

Adolfo Pedernera

Di quel meraviglioso River, Labruna era il cannoniere, Pedernera la mente euclidea e Moreno il genio creativo che fuori dal campo si concedeva vizi e bagordi di ogni tipo. «Il tango è il miglior allenamento» diceva. «Tieni il ritmo, lo cambi in corsa, meni la danza di traverso, lavori di bacino e di gambe». Aveva il vizio, prima della partita, di scolarsi una bottiglia di vino rosso. Ma nessuno se ne doleva perché poi in campo regalava assist al bacio e segnava reti spettacolari. Anche perché quando i dirigenti del River avevano provato a metterlo a dieta, sottoponendolo a regole ferree, Moreno aveva giocato malissimo. Tornato alle vecchie abitudini, la società lo multò, ma i compagni come segno di ribellione scioperarono costringendo i vertici del club a tornare sui propri passi.

La Máquina. Da sinistra Muñoz, Moreno, Pedernera, Labruna e Loustau

Giocatore capace con un pallone ai piedi di qualsiasi prodezza tecnica ed estetica, era il vero antesignano di Maradona in termini di capacità balistiche, creatività e soluzioni impensabili da trovare per i comuni mortali. Veroniche, dribbling, doppi passi, il gusto beffardo per la finta, carezze d’esterno, assist e gol impossibili da replicare per coefficiente di difficoltà e qualità di tocco. Un campionario tecnico pressoché infinito, fantasista e realizzatore al tempo stesso.

Per questo era anche il più amato dai tifosi. Dopo essersi trasferito nel 1944 in Messico, al Real Club España e aver vinto il campionato in coppia con il poderoso centravanti spagnolo Isidro Lángara – lì si guadagnò il soprannome di El Charro che lo accompagnerà per tutta la carriera – decise un paio di anni più tardi di rientrare al River. Era il 28 luglio 1946 e quando si sparse la notizia del suo ritorno la gente prese letteralmente d’assalto lo stadio del Ferro Carril Oeste dove era in programma la partita tra l’Atlanta e il River. Le tribune non riuscirono a contenere la folla, molti sfondarono le reti di recinzione e si accomodarono ai bordi del campo: il ritorno di Moreno era un evento di livello nazionale e nessuno voleva perderselo. Il fuoriclasse ripagò le attese, segnando due gol nel 5-1 finale e venne portato in trionfo.

José Manuel Moreno e Alfredo Di Stéfano: compagni di squadre al River, ma anche nella nazionale argentina

Moreno! Un calciatore divino. Se si fosse preso cura di sé… Era più bravo di Maradona. Che giocatore! Aveva qualcosa di bohémien. Sapeva fare tutto. Era forte di testa, bravo con le gambe, era guapo… era un fenomeno… e che ragazzo: tutti gli volevano bene. Perché era molto buono. Certo, era piuttosto pazzo. Non si tirava indietro. Se gli veniva voglia di bere, beveva. E questa cosa lo ammazzò. In campo comandava. Era molto solidale con gli altri e non si faceva mettere i piedi in testa. Per questo mi piaceva

Francisco Varallo, attaccante argentino degli anni ’20 e ’30

Dopo lo sciopero del 1948 dei calciatori argentini che chiedevano salari migliori, Moreno emigrò nuovamente, in Cile, all’Universidad Católica dove conquistò l’ennesimo titolo nazionale. Coronò quindi il suo sogno di bambino e si trasferì al Boca Juniors, chiudendo il campionato al secondo posto. Aveva oramai passato la trentina e molti prefiguravano per lui un rapido declino, anche alla luce della vita sregolata che continuava a condurre. Ma fisicamente non pareva risentirne e proseguì così a deliziare le platee sudamericane: in Colombia, nell’Independiente Medellín, si portò a casa altri due campionati, l’ottavo e il nono della carriera, diventando il primo calciatore della storia a laurearsi campione nazionale in quattro Paesi diversi.

Copertina celebrativa di El Gráfico

Dopo aver smesso di giocare a 41 anni, nel 1957, divenne dirigente proprio del Medellín. Ma aveva in serbo un’ultima perla: nel 1961 la squadra colombiana stava giocando un’amichevole contro il Boca Juniors, una delle formazioni più forti del continente, che due anni dopo avrebbe conteso al Santos di Pelé la vittoria nella Coppa Libertadores. A fine primo tempo gli argentini erano avanti 2-0. I tifosi colombiani iniziarono a intonare il nome di Moreno e lui decise di accontentarli: indossò maglietta e pantaloncini e si presentò in campo per la ripresa. Non è dato sapere esattamente cosa successe: ma resta il fatto che con Moreno in campo, il Medellín rimontò, vinse 5-2 e il vecchio fuoriclasse mise a referto persino una doppietta.

Si riciclò poi nelle vesti di allenatore, girando il Sudamerica, e divenne persino attore, recitando nel film “El Crack” con Jorge Salodo e Ayda Luz. Una malattia al fegato lo portò via ancora giovane, a 62 anni, il 26 agosto 1978. Aveva fatto in tempo a vedere, il 25 giugno, la sua Argentina conquistare quel Mondiale che lui non ebbe mai l’opportunità di giocare, con le due edizioni del 1942 e del 1946 annullate a causa della Seconda guerra mondiale. Edizioni in cui l’Argentina, autentica culla del calcio negli anni ’40 – un po’ come l’Uruguay negli anni ’20, l’Italia negli anni ’30, l’Ungheria negli anni ’50 e il Brasile negli anni ’60 – sarebbe partita largamente favorita, potendo contare su una lista infinita di campioni. Non a caso in quel decennio, tra il 1941 e il 1949, la nazionale albiceleste conquistò quattro edizioni su sei di Coppa América. Competizione che Moreno vinse tre volte, portandosi a casa in una occasione la classifica dei marcatori e in un’altra il premio di miglior giocatore.

Se Héctor Scarone era stato il dominatore degli anni ’20 e il nostro Giuseppe Meazza lo fu degli anni ’30, José Manuel Moreno lo divenne degli anni ’40, nonostante una fitta concorrenza in patria e all’estero – da Pedernera a Zizinho, da Varela a Matthews, da Valentino Mazzola a Bican. Come per tutti i fenomeni pre-televisivi il grande rimpianto è non poterlo visionare, se non in qualche rara clip di una manciata di minuti: possiamo così solo volare con le ali della fantasia, sfruttando i racconti dei vecchi argentini, e immaginare le magie di un autentico genio della pelota che ha avuto pochi eguali al mondo.

José Manuel Moreno: nessuno è mai stato forte come lui. Né prima né dopo

Carlos Juvenal, giornalista sportivo

CHI È JOSÉ MANUEL MORENO

Nato il 3 agosto 1916 a Buenos Aires
Morto il 26 agosto 1978 a Buenos Aires
CARRIERA NEI CLUB

Squadre di appartenenza
River Plate (1935-1944), Real Club España (1944-1946), River Plate (1946-1948), Universidad Católica (1949), Boca Juniors (1950), Universidad Católica (1951), Defensor (1952), Ferrocaril Oeste (1953), Independiente Medellín (1954-1957)
Presenze e reti 489 presenze, 224 gol
Trofei vinti 5 campionati argentini, 1 campionato messicano, 1 campionato cileno, 2 campionati colombiani
CARRIERA IN NAZIONALE

Presenze e reti 34 presenze, 19 gol
Trofei vinti 3 Coppe América

Video celebrativo di Moreno

Nato il 3 agosto 1916 a Buenos Aires nel quartiere di La Boca affinò le proprie doti sulle strade intorno allo stadio della Bombonera. Come tutti i bambini del quartiere sognava di indossare la maglia del Boca Juniors, ma quando si presentò per un provino venne respinto. Il suo sogno di diventare un calciatore pareva destinato a interrompersi prima ancora di cominciare. Fu il grande rivale del Boca, il River Plate, a dargli fiducia e a inserirlo nelle formazioni giovanili. Quando Hirschl lo vide non esitò a lanciarlo tra i grandi facendone da subito un perno fisso. Poteva giocare sia da centravanti sia da mezzala sinistra in coppia con l’ala sinistra Pedernera, di due anni più giovane. Vinse gli scudetti del 1936 e 1937, divenne un idolo dei tifosi e si prese anche la nazionale. Il suo campionario non aveva limiti: cambi di ritmo, dribbling, assist e reti di una raffinatezza unica; soluzioni balistiche e risorse tecniche infinite; un gusto estremo e a volte beffardo, irridente, per la giocata spettacolare; un genio calcistico clamoroso che raggiungeva vette sublimi degne di fuoriclasse assoluti e campioni del mondo come Scarone e Meazza, probabilmente i due massimi calciatori visti fino a quel momento. A poco più di 20 anni Moreno pareva già destinato a riscrivere le coordinate tecniche del calcio. La Fifa, basandosi su diverse testimonianze e articoli di giornali degli anni ’30 e ’40, ha scritto: «Moreno ha rivoluzionato il gioco e chi lo ha visto con i propri occhi giura fosse sul livello di Di Stefano, Pelé e Maradona». L’assenza dei Mondiali, come detto, lo ha indubbiamente penalizzato, insieme a un carattere non sempre facile da gestire. Oltre che sul campo, infatti, Moreno era anche il re delle notti di Buenos Aires, tra donne, locali e alcol a volontà. Durante la settimana si allenava quando voleva e prima delle partite era solito mangiare un tegame di gallina lessa e scolarsi una bottiglia di vino rosso. «Il tango è il miglior allenamento» diceva. «Tieni il ritmo, lo cambi in corsa, meni la danza di traverso, lavori di bacino e di gambe». Nel 1939 i dirigenti del River gli vietarono di proseguire con quella vita sregolata e lui per una settimana andò a letto presto bevendo solo latte. Giocò la peggior partita della sua carriera e tornò allora alle vecchie abitudini. La società lo multò e tutta la rosa scioperò per protesta. Per nove partite il River si vide costretto a schierare le riserve, favorendo l’esordio in prima squadra di molti giovani, tra cui Miguel Angel Labruna. Quando Moreno riprese il posto il tecnico Cesarini cercò una soluzione per far coesistere entrambi: mantenne Labruna sul centro-sinistra e spostò Moreno a mezzala destra, con Pedernera centravanti. Nacque la Maquina .​Anche nel nuovo ruolo Moreno continuò a incantare le platee conquistando altri due campionati nel 1941 e 1942 e la Coppa America 1941 in Cile, dove fu uno dei protagonisti indiscussi con tre gol segnati, una quantità industriale di assist e giocate di altissima cifra tecnica. Nel 1944 si trasferì in Messico al Real Club Espana che trascinò immediatamente al titolo formando una coppia offensiva straordinaria con il favoloso centravanti spagnolo Isidro Langara. Deliziò spettatori e addetti ai lavori a tal punto da guadagnarsi il soprannome di “El Charro”, il sombrero, che lo avrebbe accompagnato per tutta la carriera. Quando tornò al River il 28 luglio del 1946 i tifosi presero d’assalto lo stadio del Ferro Carril Oeste dove era in programma la partita tra l’Atlanta e i Millonarios , sfondarono le reti di recinzione, occuparono le tribune e ogni lembo di prato accessibile: nessuno voleva perdersi le sue magie. Moreno li ripagò come meglio non poteva: segnò tre gol nel 5-1 finale e fu portato in trionfo. Il suo rientro portò nella bacheca del River lo scudetto del 1947, cui fece seguito il secondo successo in Coppa America con tanto di premio di miglior giocatore. Nel 1948, a causa dello sciopero dei calciatori che protestavano per ottenere guadagni migliori, emigrò in Cile all’Universidad Catolica collezionando l’ennesimo titolo nazionale. Riuscì quindi a coronare il suo sogno di bambino e passò al Boca Juniors, ma la squadra finì seconda alle spalle del Racing. Molti lo ritenevano oramai in parabola discendente anche perché fuori dal campo non pareva intenzionato a porre un freno alle libagioni e ai bagordi. Il fisico continuava in maniera del tutto inaspettata però ad assecondarne il disumano talento. Dopo una breve parentesi ancora all ’ Universidad Catolica , rifiutò sorprendentemente una ricca offerta del grande Nacional Montevideo e si accasò sempre in Uruguay nel piccolo club del Defensor, che contribuì a salvare dalla retrocessione. Tornato in Argentina nel Ferro Carril Oeste, accettò quindi una nuova sfida all’ Independiente Medellin. Nonostante la veneranda età, anche in Colombia Moreno regalò spettacolo, entusiasmando le folle e mettendo in mostra una condizione fisica oltre ogni aspettativa. Si portò a casa, tanto per gradire, altri due campionati, l’ottavo e il nono della sua carriera, e divenne il primo calciatore nella storia a laurearsi campione nazionale in quattro Paesi diversi. Si trovò talmente bene al Medellin che dopo aver appeso le scarpe al chiodo nella stagione dell’ultimo scudetto – conquistato 21 anni dopo il primo – fu nominato direttore tecnico del club. Ma nel 1961, 45enne, scese di nuovo in campo per l’ultima volta e scrisse l’ennesimo capolavoro: i colombiani stavano giocando un’amichevole contro il Boca Juniors, squadra ai tempi tra le più quotate del continente che​

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