Quando mi chiedono chi sia il migliore tra Pelé e Maradona, io rispondo sempre: Moreno
Mario Boyé, attaccante argentino degli anni ’40 e ’50
Il primo a credere in lui era stato un misterioso allenatore ungherese di origine ebraica: si chiamava Imre Hirschl e nei primi anni ’30 aveva deciso di lasciare la madrepatria per l’Argentina in cerca di fortuna. Dopo un’ottima esperienza al Gimnasia La Plata, Antonio Liberti – che del River Plate era più di un presidente, era un autentico sovrano – decise di dargli fiducia, ammaliato dal suo stile di gioco offensivo e dallo straordinario fiuto nel saper scovare i giovani di talento. Hirschl non lo deluse. E nel 1935 durante una tournée in Brasile si portò dietro un 18enne di belle speranze, frutto del vivaio: José Manuel Moreno. Poche settimane più tardi lo fece debuttare in campionato contro il Platense: il River vinse 2-1 e Moreno andò subito in gol. Il primo di un assoluto genio del gioco, non valorizzato e ricordato come meriterebbe solo perché la TV ancora non era ancora arrivata e partite complete su di lui non sono oggi disponibili. Eppure chi lo ha visto giocare giura che con un pallone tra i piedi abbia avuto pochissimi eguali. La IFFHS, federazione internazionale di storia e statistica del calcio, lo ha inserito al 5° posto tra i giocatori sudamericani del XX secolo alle spalle di Pelé, Maradona, Di Stéfano e Garrincha. Posizione forse persino riduttiva alla luce delle tante testimonianze del tempo e della considerazione che molti addetti ai lavori – giornalisti, allenatori ed ex giocatori – hanno di lui in Argentina.
Era nato il 3 agosto 1916 a Buenos Aires, nel quartiere di La Boca, affinando le proprie doti sulle strade polverose intorno allo stadio della Bombonera. Tifoso xeneize, sognava naturalmente di poter indossare un domani la divisa gialloblu. Ma al provino venne respinto. Moreno non si scompose. «Ve ne pentirete» sentenziò ai dirigenti e mai parole furono più profetiche. Firmò per i grandi rivali del River Plate e divenne una leggenda. Hirschl lo trasformò subito in un perno fisso dell’attacco e al suo fianco ebbe il coraggio di lanciare un altro prospetto, di due anni più giovane: Adolfo Pedernera. I due divennero lo zenit e il nadir del calcio argentino, gli alfieri di una formazione che da lì a pochi anni avrebbe rivoluzionato le coordinate tecniche del gioco. Moreno e Pedernera, insieme al veterano Carlos Peucelle, al fromboliere Bernabé Ferreyra detto La Fiera (centravanti dalle spaventose medie realizzative) e a Eladio Vaschetto formarono la prima linea del sontuoso River che conquistò i titoli del 1936 e del 1937, quest’ultimo da ricordare in particolare per le cifre da record: 106 gol realizzati in 34 giornate, 27 vittorie, 4 pareggi e appena 3 sconfitte.
Il lavoro di Hirschl, che aveva partorito un modulo singolare, l’MW (la squadra era metodista in difesa, con 2 uomini davanti al portiere e 3 mediani; e sistemista in attacco, con 2 mezzali e 3 attaccanti) fu proseguito da due suoi allievi, l’italo-argentino Renato Cesarini e José María Minella. Sotto la loro guida, tra il 1941 e il 1947, la squadra vinse quattro campionati nazionali, regalò spettacolo ed ebbe un impatto sul gioco unico. Non era solo questione di qualità tecniche e di talento. Era anche la capacità di saper giocare d’insieme e in modo particolarmente organizzato e moderno: movimenti senza palla, flessibilità tattica, giocatori polivalenti e che erano capaci di scambiarsi la posizione in modo armonico senza che la manovra corale ne risentisse. Anzi: ne usciva ulteriormente rinvigorita, ulteriormente rafforzata. Era qualcosa di assolutamente sconvolgente per i canoni individualistici e di puro estro del calcio sudamericano. Le lezioni del mitteleuropeo Hirschl si erano fuse con il pragmatismo di Cesarini, allievo di Vittorio Pozzo ai tempi dell’Italia bi-mondiale, e con la tradizione creola di Minella.
Quel ciclo passò alla storia come Máquina. Espressione coniata dal giornalista Ricardo Lorenzo Rodriguez in un articolo su El Gráfico del 1942, per indicare i meccanismi perfetti dei movimenti, il funzionamento come un orologio di una formazione che sapeva unire le note sinuose del tango con la strategia tipicamente europea, anticipando per certi versi il calcio totale degli ungheresi e degli olandesi. Il River si muoveva come un’orchestra, non a compartimenti stagni. E se i difensori erano giocatori buoni ma non eccezionali – gente come Ricardo Vaghi, Luis Ferreira, José Ramos, Norberto Yacono, Eduardo Rodriguez – la qualità assoluta emergeva dal centrocampo in su. Fulcro del gioco era Bruno Rodolfi, centromediano di alto magistero, poi sostituito negli ultimi anni dall’emergente e dinamico Néstor Pipo Rossi. La prima linea era qualcosa di devastante, una cantilena da mandare giù a memoria: nominalmente le ali erano Juan Carlos Muñoz, raffinato e cerebrale, e Felix Chaplin Loustau, secondo Alfredo Di Stéfano «un Gento più forte e più veloce». Al centro, la Diagonal, schema tipicamente sudamericano con la mezzala destra Moreno arretrata, Pedernera perno centrale e la mezzala sinistra Ángel Amadeo Labruna El Feo uomo più avanzato. Ma in realtà tutti sapevano fare tutto ed era il movimento incessante e continuo l’architrave del gioco. L’aspetto singolare è che questi 5 meravigliosi interpreti scesero in campo assieme appena 18 volte. Il fatto che siano diventati leggendari nonostante il ridotto numero di incontri che hanno disputato contemporaneamente depone a favore della loro grandezza.
Il nostro modulo è l’1-10. Tutti attaccano e tutti difendono. La squadra si è formata quasi magicamente, un pezzo che si unisce a un altro pezzo perfettamente congruente. Nascono quasi spontanei movimenti con e senza palla: occupare una zona, lasciarla libera per un inserimento a sorpresa. Siamo un gruppo di grandi interpreti, degli illuminati del gioco, tutti con una comprensione totale di quello che avviene in campo. Tutti sembriamo avere un copione in mano
Adolfo Pedernera
Di quel meraviglioso River, Labruna era il cannoniere, Pedernera la mente euclidea e Moreno il genio creativo che fuori dal campo si concedeva vizi e bagordi di ogni tipo. «Il tango è il miglior allenamento» diceva. «Tieni il ritmo, lo cambi in corsa, meni la danza di traverso, lavori di bacino e di gambe». Aveva il vizio, prima della partita, di scolarsi una bottiglia di vino rosso. Ma nessuno se ne doleva perché poi in campo regalava assist al bacio e segnava reti spettacolari. Anche perché quando i dirigenti del River avevano provato a metterlo a dieta, sottoponendolo a regole ferree, Moreno aveva giocato malissimo. Tornato alle vecchie abitudini, la società lo multò, ma i compagni come segno di ribellione scioperarono costringendo i vertici del club a tornare sui propri passi.
Giocatore capace con un pallone ai piedi di qualsiasi prodezza tecnica ed estetica, era il vero antesignano di Maradona in termini di capacità balistiche, creatività e soluzioni impensabili da trovare per i comuni mortali. Veroniche, dribbling, doppi passi, il gusto beffardo per la finta, carezze d’esterno, assist e gol impossibili da replicare per coefficiente di difficoltà e qualità di tocco. Un campionario tecnico pressoché infinito, fantasista e realizzatore al tempo stesso.
Per questo era anche il più amato dai tifosi. Dopo essersi trasferito nel 1944 in Messico, al Real Club España e aver vinto il campionato in coppia con il poderoso centravanti spagnolo Isidro Lángara – lì si guadagnò il soprannome di El Charro che lo accompagnerà per tutta la carriera – decise un paio di anni più tardi di rientrare al River. Era il 28 luglio 1946 e quando si sparse la notizia del suo ritorno la gente prese letteralmente d’assalto lo stadio del Ferro Carril Oeste dove era in programma la partita tra l’Atlanta e il River. Le tribune non riuscirono a contenere la folla, molti sfondarono le reti di recinzione e si accomodarono ai bordi del campo: il ritorno di Moreno era un evento di livello nazionale e nessuno voleva perderselo. Il fuoriclasse ripagò le attese, segnando due gol nel 5-1 finale e venne portato in trionfo.
Moreno! Un calciatore divino. Se si fosse preso cura di sé… Era più bravo di Maradona. Che giocatore! Aveva qualcosa di bohémien. Sapeva fare tutto. Era forte di testa, bravo con le gambe, era guapo… era un fenomeno… e che ragazzo: tutti gli volevano bene. Perché era molto buono. Certo, era piuttosto pazzo. Non si tirava indietro. Se gli veniva voglia di bere, beveva. E questa cosa lo ammazzò. In campo comandava. Era molto solidale con gli altri e non si faceva mettere i piedi in testa. Per questo mi piaceva
Francisco Varallo, attaccante argentino degli anni ’20 e ’30
Dopo lo sciopero del 1948 dei calciatori argentini che chiedevano salari migliori, Moreno emigrò nuovamente, in Cile, all’Universidad Católica dove conquistò l’ennesimo titolo nazionale. Coronò quindi il suo sogno di bambino e si trasferì al Boca Juniors, chiudendo il campionato al secondo posto. Aveva oramai passato la trentina e molti prefiguravano per lui un rapido declino, anche alla luce della vita sregolata che continuava a condurre. Ma fisicamente non pareva risentirne e proseguì così a deliziare le platee sudamericane: in Colombia, nell’Independiente Medellín, si portò a casa altri due campionati, l’ottavo e il nono della carriera, diventando il primo calciatore della storia a laurearsi campione nazionale in quattro Paesi diversi.
Dopo aver smesso di giocare a 41 anni, nel 1957, divenne dirigente proprio del Medellín. Ma aveva in serbo un’ultima perla: nel 1961 la squadra colombiana stava giocando un’amichevole contro il Boca Juniors, una delle formazioni più forti del continente, che due anni dopo avrebbe conteso al Santos di Pelé la vittoria nella Coppa Libertadores. A fine primo tempo gli argentini erano avanti 2-0. I tifosi colombiani iniziarono a intonare il nome di Moreno e lui decise di accontentarli: indossò maglietta e pantaloncini e si presentò in campo per la ripresa. Non è dato sapere esattamente cosa successe: ma resta il fatto che con Moreno in campo, il Medellín rimontò, vinse 5-2 e il vecchio fuoriclasse mise a referto persino una doppietta.
Si riciclò poi nelle vesti di allenatore, girando il Sudamerica, e divenne persino attore, recitando nel film “El Crack” con Jorge Salodo e Ayda Luz. Una malattia al fegato lo portò via ancora giovane, a 62 anni, il 26 agosto 1978. Aveva fatto in tempo a vedere, il 25 giugno, la sua Argentina conquistare quel Mondiale che lui non ebbe mai l’opportunità di giocare, con le due edizioni del 1942 e del 1946 annullate a causa della Seconda guerra mondiale. Edizioni in cui l’Argentina, autentica culla del calcio negli anni ’40 – un po’ come l’Uruguay negli anni ’20, l’Italia negli anni ’30, l’Ungheria negli anni ’50 e il Brasile negli anni ’60 – sarebbe partita largamente favorita, potendo contare su una lista infinita di campioni. Non a caso in quel decennio, tra il 1941 e il 1949, la nazionale albiceleste conquistò quattro edizioni su sei di Coppa América. Competizione che Moreno vinse tre volte, portandosi a casa in una occasione la classifica dei marcatori e in un’altra il premio di miglior giocatore.
Se Héctor Scarone era stato il dominatore degli anni ’20 e il nostro Giuseppe Meazza lo fu degli anni ’30, José Manuel Moreno lo divenne degli anni ’40, nonostante una fitta concorrenza in patria e all’estero – da Pedernera a Zizinho, da Varela a Matthews, da Valentino Mazzola a Bican. Come per tutti i fenomeni pre-televisivi il grande rimpianto è non poterlo visionare, se non in qualche rara clip di una manciata di minuti: possiamo così solo volare con le ali della fantasia, sfruttando i racconti dei vecchi argentini, e immaginare le magie di un autentico genio della pelota che ha avuto pochi eguali al mondo.
José Manuel Moreno: nessuno è mai stato forte come lui. Né prima né dopo
Carlos Juvenal, giornalista sportivo
CHI È JOSÉ MANUEL MORENO Nato il 3 agosto 1916 a Buenos Aires Morto il 26 agosto 1978 a Buenos Aires |
CARRIERA NEI CLUB Squadre di appartenenza River Plate (1935-1944), Real Club España (1944-1946), River Plate (1946-1948), Universidad Católica (1949), Boca Juniors (1950), Universidad Católica (1951), Defensor (1952), Ferrocaril Oeste (1953), Independiente Medellín (1954-1957) Presenze e reti 489 presenze, 224 gol Trofei vinti 5 campionati argentini, 1 campionato messicano, 1 campionato cileno, 2 campionati colombiani |
CARRIERA IN NAZIONALE Presenze e reti 34 presenze, 19 gol Trofei vinti 3 Coppe América |