Immagine di copertina: la presentazione in grande stile di Dybala in maglia giallorossa all’Eur di Roma
Chi scrive si è goduto Paulo Dybala per anni, vederlo giocare indossando la maglia della propria squadra del cuore (115 reti in 293 presenze) è un privilegio che ora toccherà ai tifosi romanisti. Dybala alla Roma è un indizio che qualcosa è cambiato nella sponda giallorossa della Capitale: a José Mourinho è bastato un anno, tra alti e bassi, per riportare una piazza eternamente tormentata a festeggiare un trofeo al Circo Massimo. L’acquisto della Joya fa sognare i romanisti che, anche se non lo dicono ad alta voce e cercano di mantenere un profilo basso, intravedono quella Line in the Sand (“linea nella sabbia”, citando i Motorhead) per tornare grandi e assaporare le portate di lusso dei piani alti in Italia e, perché no, persino in Europa. Nessuno si illuda, la strada sarà lunga e impervia, ma che la Roma giallorossa potesse essere il punto d’arrivo di un fantasista con cinque scudetti in bacheca da protagonista era solo un sogno di mezza estate fino a poco tempo fa.
Come è stato spesso rimarcato anche su queste pagine, in un calcio in cui corsa, muscoli, atletismo e intensità sono ormai elementi dominanti, quando non imprescindibili, Paulo Dybala rappresenta un tesoro da conservare e proteggere gelosamente, perché profuma di un calcio dal sapore antico, dove un’altezza e una corporatura non certo imponenti venivano bilanciati da una tecnica di prim’ordine, da un tocco vellutato, da un tiro secco e preciso, che non lascia scampo. È uno degli ultimi Diez in senso puro, di quella razza con cui non puoi parlare di lavagne e lavagnette, di compiti tattici, ma solo di fantasia, estro, libertà creativa.
Roberto Beccantini l’ha affettuosamente più volte chiamato Omarino, come se fosse un piccolo Sivori, un folletto mancino sgusciante e imprendibile, senza però averne la volontà irridente, beffarda, a provocatrice, del dribbling e del tunnel per umiliare l’avversario. El Cabezon ha certamente toccato apici di calcio superiore fino ad essere il non plus ultra (nel 1961 nel Vecchio Continente non era inferiore a nessuno), Dybala molto meno (senza scomodare Messi e Cristiano Ronaldo, è difficile trovare un’annata in cui abbia espresso un calcio migliore di quello di Neymar).
Come Roberto Baggio a suo tempo, la Joya ha una difficile collocazione tattica e non è un giocatore particolarmente duttile. In un calcio dove dominano gli attaccanti esterni, Dybala non ha il passo e l’intensità della corsa per giocare largo a destra o a sinistra. Non ha nemmeno il passo per fare la mezzala o il centrocampista offensivo, pur avendo grossa qualità nel passaggio e nella visione di gioco, perché l’interpretazione del ruolo richiede un apporto in fase difensiva che allontanerebbe troppo il fantasista argentino dalla porta, togliendogli il suo momento migliore, ossia quando riceve la palla negli ultimi venticinque metri e si gira. Come il genio che sfrega la lampada, qui Paulo può sprigionare la sua magia, con un tiro, un assist, una giocata tra le linee che crea superiorità numerica.
Il miglior Dybala gioca seconda punta, e giostra attorno al centravanti, sfruttandone la mole e i movimenti, come è stato con Mario Mandzukic nella prima stagione a Torino e, in parte, con il fratello argentino Gonzalo Higuain, nove con più tecnica e con caratteristiche diverse rispetto al croato. Se si fosse concretizzato il suo trasferimento all’Inter, sarebbe andato a nozze con Romelu Lukaku.
Dybala è un talento fragile, e non parlo solo degli infortuni a catena che hanno minato la continuità di rendimento degli ultimi due anni. È un talento fragile perché spesso ci si dimentica che i calciatori sono persone e non figurine, e quando i paragoni iniziano a farsi troppo ingombranti non gasano ma finiscono per affossare: il rendimento ad inizio stagione 2017/18, con doppiette e triplette in serie, ha scatenato paragoni con il Diez attuale argentino per eccellenza che sono risultati difficili da sopportare e che hanno gettato sulle spalle della Joya il fardello di dovere essere sempre come la Pulce ad ogni partita, fino a farlo sbottare “Io non voglio essere Messi, io voglio essere Dybala”.
La stagione dell’arrivo di Cristiano Ronaldo alla Juventus è coincisa con la peggiore di Dybala sia a livello di numeri (30 partite e 5 gol in campionato, 42 partite e dieci gol complessivi stagionali, molto poco) sia a livello di prestazioni. Molti hanno puntato il dito contro Massimiliano Allegri, accusato di fare giocare Dybala fuori ruolo “da mediano” (?) per non oscurare la luce del numero 7 della Vecchia Signora. Secondo me non è del tutto esatto: la posizione e il ruolo di Paulo non era cambiato più di tanto rispetto al solito: è vero che Allegri lo voleva sfruttare anche come uomo di raccordo tra i reparti per esaltarne la pulizia dei passaggi e la visione di gioco, ma è altrettanto vero che l’argentino aveva tutto sommato conservato la libertà di muoversi nella maniera migliore e a lui più gradita. Credo che una buona parte dei motivi abbiano una radice psicologica: l’arrivo del fenomeno portoghese gli ha tolto quelle pressioni che talvolta si sono rivelate controproducenti, eppure è innegabile che l’aura di Cristiano da Madera ha ingrigito l’umore di una Joya che è passata ad essere “la seconda stella”. I geni hanno bisogno di essere riconosciuti, di essere legittimati, di essere coccolati. È successo anche a Riquelme, a Totti, forse anche a Rivera. Bisogna riconoscere a Maurizio Sarri un merito avuto nel suo anno a Torino, che è stato tutt’altro che semplice, per via di un feeling mai nato con ambiente, società e squadra: essere riuscito a recuperare mentalmente il giocatore, che tornò a giocare sui livelli abituali, nonostante le statistiche non fossero le migliori (17 reti in 46 partite stagionali).
Quando sfoglieremo l’album dei ricordi di Paulo Dybala con la Vecchia Signora, alcune fotografie faranno più male di altre – la finale di Cardiff naufragata in un immenso psicodramma bianconero, il cartellino rosso contro il Real Madrid nell’andata dei quarti di finale del 2018 – ma ce ne saranno altre che sprigioneranno Joya pura. Tre su tutte: la doppietta al Barcellona nella Champions 2016/17, il guizzo a tempo scaduto contro la Lazio nel 2018 che porta un pezzettino di Tricolore a Torino, il dribbling che ghiaccia Young e fulmina Handanovic nel silenzio di uno stadio deserto, quando il mondo aveva appena cominciato ad affrontare una pandemia sino ad allora sconosciuta.