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Valentino Mazzola, l’eroe romantico del Grande Torino

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«Ancora adesso, se debbo pensare al calciatore più utile ad una squadra, a quello da ingaggiare assolutamente, non penso a Pelé, a Di Stefano, a Cruijff, a Platini, a Maradona: o meglio, penso anche a loro, ma dopo avere pensato a Mazzola»

Giampiero Boniperti

Quando il Grande Torino morì, nel rogo di Superga, non sparì solo una meravigliosa squadra di calcio. Morì l’Italia, per la seconda volta in pochi anni. Perché senza la nazionale e senza le competizioni internazionali, il Toro era diventato il surrogato degli azzurri. E soprattutto, al pari di Coppi&Bartali, del discobolo Adolfo Consolini oro a Londra 1948, lo squadrone granata costruito da Ferruccio Novo e plasmato dal genio ebraico-mitteleuropeo di Ernő Egri Erbstein, era diventato il simbolo della rinascita, la luce della speranza dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale.

In quella squadra leggendaria, che fu capace di sbriciolare 22 primati di squadra del campionato italiano (alcuni dei quali imbattuti ancora oggi), il faro assoluto era rappresentato dal capitano, Valentino Mazzola. Forse il più completo calciatore italiano di sempre: mediano, regista, incursore, goleador e condottiero. Una sorta di “Di Stéfano italiano” in anticipo sui tempi. Un vero peccato che a causa della Seconda guerra mondiale il grande Valentino poté disputare pochissime partite internazionali: in nazionale ad esempio è sceso in campo appena 12 volte in gare amichevoli segnando 4 reti. E un vero peccato che di un fuoriclasse simile oggi restino visibili pochi highlights e nessuna gara intera.

L’alone che lo circonda tuttavia sconfina nel mito. In quegli anni, quelli del secondo dopoguerra fino alla tragedia di Superga, Valentino era la stella assoluta del nostro calcio e concorreva per l’ideale titolo di miglior giocatore del pianeta con pochi eletti: i giovanissimi ma già fenomenali Di Stéfano e Puskás, il brasiliano Zizinho, l’austriaco naturalizzato cecoslovacco Bican, l’inglese Matthews, l’argentino Pedernera più che il “gemello” Moreno, che probabilmente disputò le sue stagioni più performanti nella prima metà degli anni ’40.

Per quanto il Grande Torino fosse composto da giocatori eccezionali e molti di loro estremamente “moderni” per fondo atletico e capacità di saper assolvere a più ruoli e compiti, le testimonianze lasciano spazio a pochi dubbi sul fatto che l’uomo veramente in più fosse Mazzola. Non a caso i compagni di squadra accettavano di buon grado che percepisse uno stipendio doppio, forse consapevoli che se Valentino avesse accettato le lusinghe di Inter e Milan (che più volte tentarono di acquistarlo con ingaggi faraonici) il tricolore avrebbe preso la via di Milano.

«La forza della nostra squadra» disse il centromediano Mario Rigamonti «per metà è da attribuire a Valentino Mazzola; l’altra metà è costituita da noi altri dieci giocatori messi insieme». E non molto diversa l’opinione dell’ala mancina Pietro Ferraris II, campione del mondo da riserva di Colaussi nel Mondiale 1938: «Mazzola, nei momenti cruciali, si erge su tutti noi di ben tutta la spalla e risolve da solo le partite. Quante ne ha risolte! È un lottatore nato, onnipresente in attacco e in difesa e per tutta la partita è in continuo movimento. Nell’area avversaria, poi, si destreggia con rara abilità evitando parecchi avversari per poi tirare senza che il portiere se ne accorga».

Valentino Mazzola era di una classe superiore. Scatto, elevazione, velocità… in un derby ha fermato un mio tiro sulla linea di porta salvando un gol praticamente fatto: ha rilanciato su Menti, Menti gli ha ridato la palla e in 25 secondi ha concluso battendo Sentimenti IV e segnando il gol del 2-1. Questo era Mazzola. Il capitano granata si considerava un grande giocatore e lo era davvero. La differenza tra lui e gli altri, tutti gli altri, era semplice ed evidentissima: tentava un dribbling e gli riusciva; aveva la palla sul destro e faceva gol; aveva la palla sul sinistro e faceva gol; non era alto eppure saltava almeno 30 centimetri più degli altri; atleticamente era straordinario: le gambe erano stantuffi, la corsa per lui era un divertimento. E commetteva pochissimi falli. Valentino giocava in punta di piedi.

Giampiero Boniperti

Re Mida del campionato

Valentino era nato a Cassano d’Adda nel 1919, anno che diede i natali anche al grande Fausto Coppi. Da piccolo prendeva a calci i barattoli per strada e fu soprannominato Tulen, lattoniere. Di famiglia umilissima, rimasto orfano di padre a 10 anni, da piccolo parlava poco ed era particolarmente introverso. Un paradosso visto lo straripante carisma che lo avrebbe accompagnato da adulto.

Le difficoltà famigliari, il fatto che fu costretto a lasciare la scuola e andare a lavorare per mantenere la madre e i quattro fratelli, l’esperienza in Marina contribuirono sicuramente a forgiarne il carattere. E in pochi anni il calcio entrò nella sua vita per non uscirne più. Dalla locale squadra Tresoldi passò all’Alfa Romeo in serie C e da lì, a 20 anni, al Venezia in serie A. In Laguna Valentino conobbe Ezio Loik, suo coetaneo e compagno inseparabile, nei trionfi e nella morte.

I due divennero in breve i motori della squadra e la trascinarono a traguardi impensabili e mai più nemmeno sfiorati nella storia societaria: vittoria nella Coppa Italia 1941 in finale contro la Roma, terzo posto clamoroso in serie A nel 1942, alle spalle sempre della Roma e del Torino.

E proprio la terzultima giornata del campionato contro il Toro fu quella decisiva per il passaggio, suo e di Loik, in granata. La squadra torinese era ancora in corsa per il titolo e andò in vantaggio dopo 5 minuti con Petron. Il Venezia, guidato da Mazzola e Loik, ribaltò la contesa e si impose 3-1. Fu la pietra tombale sulle speranze di scudetto della formazione piemontese. Ma fu anche l’occasione che permise al presidente Ferruccio Novo di mettere nero su bianco per l’acquisto dei due gioielli, soffiandoli alla concorrenza della Juventus.

L’arrivo di Mazzola sconvolse gli equilibri del campionato: il Toro vinse subito lo scudetto e aggiunse anche la Coppa Italia, prima volta che una squadra conquistava il “doblete” in serie A. E probabilmente se dopo la fine della guerra la Coppa Italia fosse ripresa normalmente, il Toro chissà quante altre ne avrebbe vinte… (per la cronaca la competizione ripartì solo nel 1958 con l’affermazione della Lazio).

Al Torino Valentino divenne subito la mente e il braccio armato, vinse una classifica marcatori con 29 reti, ne sfiorò un’altra inerpicandosi a quota 25, totalizzò 123 reti in 200 partite: numeri da cannoniere di razza e non da mezzala a tutto campo.

Inevitabilmente Valentino divenne il punto di riferimento anche della nazionale, con il ct Vittorio Pozzo che trovò in lui e Loik gli eredi dei grandi Meazza e Ferrara, le superbe mezzali degli anni ’30 che avevano permesso all’Italia di vincere 2 Mondiali. Nel dopoguerra l’allenatore torinese di origini ponderanesi ricostruì la nazionale facendo leva sul blocco del Torino e in una partita, nel 1947 contro l’Ungheria, arrivò a schierare ben 10 granata su 11. Non fu un’esperienza sempre felice quella del Toro in azzurro, come prova il pesante 0-4 subito dall’Inghilterra in casa, anche se su quella sconfitta forse pesarono anche errori tattici di un Pozzo fedele al vecchio Metodo e che male aveva interpretato il Sistema, modulo tattico con cui giocavano i piemontesi.

Leggendo le cronache, anche le prestazioni offerte da Valentino in azzurro furono alterne e non sempre eccezionali, ma diventa impossibile oggi (ripeto: senza prove video) capire quanto effettivamente fosse vero, se Valentino palesasse dei limiti in certi frangenti oppure se fosse il contesto intorno a lui a non essere adeguatamente performante.

Calciatore totale

Ciò che non si discute è però lo straordinario impatto avuto sulla serie A e sul nostro calcio. Come tutti i grandi fuoriclasse, la sua presenza elevava il contesto e faceva lievitare il rendimento dei compagni: non può essere un caso che con lui il Venezia vinse, come detto, la Coppa Italia e chiuse al terzo posto il campionato e che dopo di lui sia tornato nell’oblio, come non può essere un caso che il suo acquisto fu quello decisivo per innalzare il livello del Torino.

Le straordinarie doti caratteriali si accompagnavano a qualità atletiche e tecniche decisamente sopra la media, soprattutto in relazione ai tempi. Il capitano granata è stato l’archetipo della mezzala universale e il Sistema, schieramento che esaltava il dinamismo e le capacità individuali, gli consentì di rifulgere al massimo. Valentino rappresentò il prolungamento e il completamento di Alex James, l’interno mancino scozzese dell’Arsenal di Chapman.

Centravanti dalle spiccate doti realizzative in età giovanile, James nel Sistema si trasformò nell’architetto della squadra. Sovente recuperava palla sulla linea dei difensori e dirigeva il traffico a centrocampo con abile maestria, alternando passaggi corti per vie orizzontali a lanci in verticale che azionavano i dirompenti scatti in fascia delle ali Hulme e Bastin nonché il torrenziale fiuto del gol del centravanti Drake. James possedeva un senso euclideo della manovra e i critici del suo tempo asserivano che vedesse il gioco con due mosse di anticipo sugli altri. Era però quasi pari allo zero il suo contributo in zona gol.

Valentino seppe andare oltre. Come detto era al contempo difensore, mediano, fantasista e realizzatore. E sembrò davvero anticipare il modo di giocare di Alfredo Di Stéfano, non uno qualunque, ma per un’accreditata corrente di pensiero il più grande fuoriclasse mai veduto.

Carisma sopra la media

Il carisma era un’altra straordinaria dote del capitano granata. Quando la squadra era in difficoltà, la leggenda racconta che bastava si sollevasse le maniche della maglia per suonare la carica: a quel punto, cavalcando le note del trombettiere Bolmida sugli spalti, partiva il famigerato “quarto d’ora granata”, dieci minuti di fuoco in cui il Toro annichiliva gli avversari sul piano del ritmo. Così i granata rimontarono la Lazio in una partita da 0-3 a 4-3 o ne fecero 10 all’Alessandria in un’altra occasione.

Giampiero Boniperti, uno dei più grandi estimatori di Valentino, ricordò nelle sue memorie: «Valentino Mazzola era un capo per il Torino e un ottimo uomo di pubbliche relazioni per la squadra. Tra il primo e il secondo tempo li metteva tutti in riga. Mi dicevano Rigamonti e Martelli: “Noi lo lasciamo parlare e non apriamo bocca perché lui da solo vince le partite”. Una volta sono passato vicino allo spogliatoio del Torino durante l’intervallo di un incontro: si sentiva una voce sola. C’era anche il conte Rognoni, allora commissario di campo, che disse: “Andiamo via perché Mazzola sta facendo la tattica”. Altro che tattica: stava urlando come un ossesso, li stava sollevando di peso, tremavano anche i muri. Valentino Mazzola era temuto e rispettato da compagni e avversari».

La capacità di giocare in più ruoli è evidenziata anche dai commentatori del tempo. Luigi Cavallero, giornalista della Stampa, scrisse in un Livorno-Torino: «…ecco che Maroso accusa un forte mal di capo, lascia il suo posto e si trasferisce all’estrema sinistra. Ferraris va interno e Mazzola retrocede terzino. Uno spettacolo! Valentino in difesa! Insuperabile e imbattibile».

Impossibile citare anche le opinioni di due delle più grandi penne del giornalismo italiano, Gianni Brera e Antonio Ghirelli.

Valentino Mazzola è fra i più notevoli prodotti del calcio italiano. Secondo Bernardini, non ha mai avuto eguali nel nostro Paese: non lo valeva neppure il divino Meazza, la cui carriera è stata illustrata da due campionati del Mondo. L’opinione di Bernardini non mi sembra astrusa per nulla. In effetti, un interno come Valentino Mazzola non si trova nel calcio degli anni Trenta e non si trova ancora neppure oggi. Era un traccagno di piccola statura e tuttavia così dotato atleticamente da strabiliare. Scattava da velocista, correva da fondista, tirava con i due piedi come uno specialista del gol; staccava e incornava con mosse da grande acrobata, recuperava a difesa, impostava l’attacco e vi rientrava per concludere: era insieme il regista e il match winner d’una squadra che aveva pochissimi eguali al mondo.

Gianni Brera

Valentino Mazzola si andava a collocare tra i più grandi giocatori di tutto il mondo, nel ruolo che aveva reso celebre Cevenini III, Baloncieri, Meazza, Ferrari, i nostri maggiori. Mazzola riuniva in sé medesimo le caratteristiche di potenza e arte che erano diffuse nei reparti della sua squadra. Era il capitano, un ragazzo biondo e poderoso, disposto a ripiegare sin sulla linea della porta di Bacigalupo, pronto a scattare fin dentro l’area dell’altro portiere, specialista nei tiri piazzati; allegro, malinconico, furente in campo; fuori, idolo e divo, viziato e incorruttibile.

Antonio Ghirelli

Fu proprio Valentino, il 27 febbraio 1949, al termine di Italia-Portogallo 4-1 giocata a Genova, a concordare con il capitano avversario Francisco Ferreira un’amichevole da disputare il 3 maggio a Lisbona tra Benfica e Torino per celebrare l’addio al calcio del giocatore lusitano. Il giorno dopo l’incontro (finito 4-3 per il Benfica) l’aereo che riportava a casa i campioni granata si schiantò contro la Basilica di Superga. Non ci furono sopravvissuti. Toccò a Vittorio Pozzo identificare i cadaveri. Fu una tragedia sportiva perché l’intero calcio italiano impiegò un decennio a riprendersi. Fu una tragedia umana perché con il Torino morì il fiore della rinascita. Chiusero scuole, fabbriche, uffici pubblici, venne proclamata giornata di lutto nazionale, ai funerali parteciparono decine di migliaia di persone. Valentino aveva 30 anni. Se ne andò giovane e forte, come un eroe romantico, e divenne subito leggenda.

CHI È VALENTINO MAZZOLA

Nato a Cassano d’Adda il 26 gennaio 1919
Morto a Superga il 4 maggio 1949
CARRIERA NEI CLUB

Squadre di appartenenza Tresoldi (1936-1938), Alfa Romeo (1938-1939), Venezia (1939-1941), Torino (1942-1949)
Presenze e reti Tresoldi -, Alfa Romeo 14 presenze, 3 gol; Venezia 72 presenze, 16 gol; Torino 200 presenze, 123 gol
CARRIERA IN NAZIONALE

Presenze e reti 12 presenze, 4 gol

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