Immagine di copertina: Erbstein con Valentino Mazzola
Aveva cambiato il suo cognome in Egri. Erbstein gli sembrava troppo tedesco e lui voleva in tutti i modi evitare qualsiasi assonanza con la Germania. Ma in Italia nessuno ci aveva fatto caso. Lui era ancora per tutti “mister Erbstein”. Ed è così che passò alla storia. Sotto la sua guida il Torino divenne il Grande Torino, la squadra più amata nell’immediato dopoguerra, la luce che consentì a un’intera nazione di tornare a vivere dopo gli orrori del conflitto. In mancanza di competizioni internazionali, il Grande Torino divenne la squadra di tutti. Un’autentica impresa sportiva e sociale in un Paese come l’Italia, molto legato alle rivalità dettate dal tifo.
Furono tanti gli autori che firmarono l’epopea granata. In primis, Ferruccio Novo, imprenditore nel ramo del cuoio con una passione per il calcio, uomo di visione che seppe coniugare abilità manageriali e gestionali di prim’ordine e strutturare la società secondo criteri moderni, circondandosi di persone fidate e dirigenti capaci. E in ultimo i giocatori, un insieme di elementi eccellenti ma il cui valore complessivo si rivelò superiore alla somma delle individualità. In mezzo a questi due poli, società e squadra, c’era lui. Ernő Egri Erbstein.
Era nato nel 1898 a Nagyvárad, in Transilvania, oggi Oralea in Romania, a quei tempi avamposto orientale dell’Impero asburgico. Di origine ebraica, si diplomò in educazione fisica e nel frattempo cominciò a giocare a pallone. Nel 1924 si vide costretto a lasciare l’Ungheria, a causa della politica antisemita di Miklós Horthy, ex ammiraglio dell’Impero asburgico durante la Prima guerra mondiale che aveva preso il potere nel Paese magiaro nel 1920.
Dopo un paio di stagioni non brillanti all’Olympia, club di Fiume, città all’epoca in Italia, fu convinto dall’amico Nathan Agar a tentare l’avventura in America. Trovò un posto nella squadra dei Brooklyn Wanderers, strinse amicizia con Béla Guttmann (anche lui futuro grandissimo allenatore) e nel frattempo tentò la fortuna come agente di borsa a Wall Street.
Ma i guadagni si dimostrarono inferiori alle attese e decise di tornare a casa, dalla moglie Jolán e dalla figlia Susanna. Iniziò a interessarsi alle tattiche di gioco, studiando non solo il calcio mitteleuropeo ma anche quello inglese, grazie a una rete di conoscenze sviluppate negli anni. Abbandonata l’idea di voler sfondare come calciatore, tentò così di riciclarsi nelle vesti di allenatore.
Nel 1927 ebbe il suo primo incarico. Fu l’Italia, il secondo Paese della sua vita, a ricordarsi di lui: Erbstein e la sua famiglia partirono per la Puglia, dove il tecnico ebreo-magiaro guidò prima il De Pinedo (antenato della Fidelis Andria) e poi il Bari nella Divisione Nazionale (equivalente della serie C). Passato alla Nocerina e poi al Cagliari, iniziò a farsi un nome trascinando i sardi alla promozione in B. Dopo un breve assaggio della serie A di nuovo a Bari, Erbstein accettò nel 1933 l’offerta della Lucchese.
La Lucchese, il primo capolavoro
In Toscana, complice la presenza di una società solida e un presidente ambizioso come Giuseppe Della Santina, Erbstein costruì una squadra formidabile, che nel 1934 ottenne la promozione in serie B e due anni dopo addirittura in serie A. Ma il capolavoro non era ancora completo: nel 1936-37 Erbstein guidò la Lucchese a una straordinario 7° posto nel massimo campionato, ancora oggi il miglior risultato nella storia del club.
La squadra aveva valori tecnici e umani profondissimi. C’era Aldo Olivieri, il gatto magico, portiere che da lì a un anno avrebbe difeso la porta dell’Italia nel vittorioso campionato del mondo del 1938 in Francia. C’era il mediano Bruno Neri, che rifiutò di fare il saluto romano ai tempi della Fiorentina e durante la Seconda guerra mondiale aderì alle forze partigiane trovando la morte nell’eremo di Gamogna, nell’appennino tosco-emiliano. C’era Bruno Scher, istriano e comunista, che si oppose all’italianizzazione del suo cognome in epoca fascista e per questo finì presto ai margini del grande calcio. C’era Libero Marchini, altro oppositore del regime, che nel 1936 si fece fotografare con Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino.
Erbstein aveva saputo plasmare un gruppo eccezionale e chissà a quali altri traguardi sarebbe giunta la Lucchese sotto la sua mano. Ma il 18 settembre 1938 le leggi razziali promulgate da Mussolini misero fine a questa possibilità. Erbstein era ebreo. La moglie Jolán e le figlie Susanna e Martha erano cattoliche. Ma poco contava: le leggi razziali consideravano ebrei anche coniugi, discendenti e i cosiddetti “portatori di sangue misto“ come erano appunto Susanna e Martha. Alle due ragazze fu impedito di frequentare la scuola e qualsiasi attività sportiva e ricreativa.
Uno shock. Erbstein decise di cambiare aria e accettò l’offerta del Torino del presidente Giovan Battista Cuniberti (ma a volerlo era stato in realtà il 41enne dirigente Ferruccio Novo, che sarebbe diventato presidente da lì a pochi mesi). Sperava probabilmente che in una città più grande e meno provinciale la situazione potesse essere differente.
Non fu così e nel 1939 Erbstein e la sua famiglia furono costretti a lasciare l’Italia, promettendo a Novo di fare però ritorno a Torino una volta che la tormenta fosse passata. Erbstein studiò un escamotage per non dare nell’occhio e poter scappare dall’Italia senza destare sospetti: contattò un suo amico allenatore, Ignác Molnár, che guidava l’Rfc Rotterdam. I due convinsero le rispettive società a uno scambio di incarichi: Molnár si sarebbe
trasferito al Torino, Erbstein all’Rfc Rotterdam.
La guerra e la prigionia
Ma Erbstein e la sua famiglia in Olanda – Paese che in quel momento pareva al sicuro dalla furia nazifascista – non arrivarono mai. Quando espose i suoi documenti falsificati, al confine con la Germania, i gendarmi del Reich notarono qualcosa di anomalo e annullarono il visto. Il Toro inviò nuovi documenti, ma anche questa volta furono respinti. Erbstein invece che aspettarsi il corso degli eventi, giocò d’anticipo, prese la famiglia e fuggì a Budapest.
In Ungheria c’era Horthy, che non aveva mai nascosto la sua avversione agli ebrei. Anzi: nei decenni precedenti aveva promulgato diverse leggi restrittive, limitando alle persone di origine semitica l’accesso alle università e ad altre attività lavorative. L’alleanza con Hitler aveva permesso all’ex ammiraglio di ampliare i suoi territori, annettendo parte della Romania e della Jugoslavia. Ma nonostante l’antipatia per gli ebrei, Horthy si era sempre opposto all’idea delle deportazioni. Paradossalmente, dunque, per Erbstein e i suoi famigliari era più sicuro vivere in Ungheria che altrove.
La situazione però precipitò nel marzo 1944. Horthy si era oramai accorto che la Germania di Hitler stava andando incontro al disastro e aveva così nominato a capo del governo Miklós Kállay, che aveva cercato di trattare una pace separata sia con gli Alleati sia con i sovietici. Quando il führer seppe del cambio di direzione, ordinò l’invasione militare dell’Ungheria con l’operazione lampo “Margarethe I”.
Hitler dapprima obbligò Horthy a deporre Kállay, poi a ottobre favorì un colpo di Stato che portò alla capitolazione di Horthy e all’insediamento al suo posto del famigerato Ferenc Szálasi, comandante delle Croci Frecciate, un’organizzazione che si macchiava dei peggiori crimini massacrando gli ebrei nelle piazze, nelle strade, nelle case.
Si racconta che persino Heinrich Himmler, colui che aveva organizzato con Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann la “soluzione finale” degli ebrei, era arrivato a indignarsi dell’indiscriminata ferocia delle Croci Frecciate.
L’Ungheria piombò nel terrore e iniziarono le deportazioni di massa degli ebrei nei lager: dopo l’annessione di alcuni territori della Jugoslavia e della Romania, la comunità ebraica nel Paese era quasi raddoppiata, passando dalle 445mila persone del 1933 alle 725mila dei primi anni ‘40. Di questi, secondo lo storico americano Randolph Louis Braham, ne furono uccisi in pochi mesi quasi 550mila.
Un destino tragico da cui Ernő Erbstein si salvò per miracolo. Catturato e condotto in un campo di prigionia, fu sottoposto ad angherie e sevizie di ogni tipo. Ma poco prima di essere caricato sul treno diretto al campo di sterminio, riuscì ad architettare una fuga con altri cinque compagni: tra di loro c’era anche Béla Guttmann.
Ernő si rifugiò a Pest, nascosto dalla cognata in una cantina. Ma le sue disavventure non erano ancora terminate. E toccò alla 18enne figlia maggiore Susanna salvarlo. Dopo aver nascosto la mamma e la sorella in un pensionato cattolico femminile sotto la protezione di Padre Pàl Klinda, dello Stato Pontificio e del nunzio vaticano a Budapest, monsignor Angelo Rotta (nel dopoguerra riconosciuto Giusto tra le Nazioni allo Yad Vashem), Susanna venne a sapere che le Croci Frecciate stavano per organizzare delle retate a Pest, proprio nelle vie dove era nascosto il padre.
Dopo aver preso contatti con Raoul Gustav Wallenberg, un diplomatico svedese incaricato dal War Refugee Board del presidente americano Franklin Delano Roosvelt di mettere in salvo il maggior numero di ebrei ungheresi, Susanna si armò di grande coraggio: avendo seguito un corso di primo soccorso e conseguito il brevetto di crocerossina, indossò la divisa della Croce Rossa e si mise in cerca del papà.
Quando lo trovò, gli disse di fingersi ferito e lo prese sottobraccio. Lo stratagemma funzionò e consentì loro di attraversare la città e raggiungere Wallenberg. Susanna lasciò il padre nelle mani del diplomatico svedese e poche settimane più tardi, il 13 febbraio 1945, l’Armata Rossa liberò Budapest. Solo allora la famiglia poté riabbracciarsi e ricominciare a vivere.
Il Grande Torino: dalla gloria alla tragedia
Erbstein mantenne la promessa che aveva fatto a Novo e al termine della Seconda guerra mondiale tornò al Torino.
Qui, in pochi mesi, mise in pratica le idee che aveva già in parte sperimentato alla Lucchese e costruì una formazione destinata a cambiare la storia.
In alcune stagioni allenatore, in altre direttore tecnico, fu però sempre lui a dirigere le operazioni dietro le quinte.
Partendo dal Sistema (WM) che i granata avevano già provato nei primi anni ’40 grazie all’intuizione di Felice Placido Borel, Erbstein disegnò una squadra camaleontica, tatticamente innovativa, capace di anticipare certi principi di gioco rivoluzionari della Grande Ungheria e dell’Olanda degli anni ’70.
Il tecnico ebreo-magiaro si era munito di un’agenda in cui annotava ogni dettaglio, dal programma degli allenamenti settimanali ai carichi di lavoro. Introdusse il riscaldamento prima delle partite in modo che i giocatori entrassero in campo con i muscoli già rodati; mentre i giorni successivi agli incontri di campionato erano dedicati a massaggi, saune e bagni tonificanti. Ogni giocatore aveva poi una tabella personalizzata da seguire, fatta di esercizi specifici e diete a seconda delle esigenze del momento.
Sul piano tecnico Erbstein, da buon mitteleuropeo, puntava moltissimo sul controllo del pallone e non di rado fermava gli allenamenti per mostrare in quale modo bisognasse sviluppare l’azione. Palla a terra, sempre e comunque. A tutto questo, Erbstein univa una ferrea disciplina, comminando multe a chi si presentava in ritardo o non si allenava a dovere.
Un mix di idee modernissime in un contesto, quello italiano degli anni ’40, che viveva ancora non poco immerso nel dilettantismo dei decenni precedenti.
Uno degli effetti di una preparazione atletica e tecnica così meticolosa fu che il Toro correva più e meglio degli altri e i giocatori non di rado pressavano gli avversari in fase di non possesso per la riconquista del pallone.
Era una squadra 20 anni avanti a tutte le altre. Il famoso “quarto d’ora granata”, quei 10-15 minuti rimasti celebri in cui il Torino schiantava gli avversari sul piano del ritmo, altro non erano che il risultato della quantità e della qualità degli allenamenti voluti da Erbstein.
Favorito dalla presenza di giocatori che sapevano giostrare e muoversi in più ruoli e in più posizioni, il Torino poteva cambiare sistema di gioco in corsa a seconda dell’avversario e dalle partite.
Persino il portiere, Bacigalupo, aveva un modo di giocare moderno e non di rado usciva dall’area a respingere i palloni con i piedi.
I terzini Ballarin e Maroso – soprattutto quest’ultimo, una vera e propria ala aggiunta – erano stantuffi inesauribili.
Il mediano Grezar in fase di non possesso palla era solito arretrare e comporre una specie di moderna difesa a 4.
L’altro mediano Castigliano affiancava le mezzali Loik e Valentino Mazzola, il capitano e il condottiero, un universale del calcio tra i massimi interpreti di sempre, in un incessante lavoro a tutto campo.
L’ala destra Menti si gettava nello spazio andando di fatto ad assolvere i compiti di seconda punta in appoggio all’acrobatico centravanti Gabetto.
L’ala mancina Ferraris II era più un giocatore di raccordo e intelligenza tattica, abile ad arretrare per bilanciare le avanzate furenti di Mazzola e Loik verso la porta avversaria.
Movimento senza palla, flessibilità tattica e cariche ad alto ritmo facevano del Toro una squadra pressoché imbattibile sul suolo italiano, che solo per la contingenza del momento non poté mostrare pienamente il suo valore sul proscenio internazionale.
Cinque scudetti, di cui quattro consecutivi, una serie impressionante di primati di squadra (alcuni dei quali nella storia del campionato italiano resistono ancora oggi), una sensazione di invincibilità, una luce capace di illuminare il cammino buio degli italiani nell’immediato dopoguerra.
Ecco cos’era il Torino. Per questo quando morì nel rogo di Superga venne proclamata una giornata di lutto nazionale, chiusero le fabbriche, le scuole, gli uffici. Il Torino era come la nazionale, andava oltre le logiche del tifo, oltre la rivalità, oltre le diverse fedi calcistiche.
E a renderlo così immenso e rivoluzionario avevano contribuito le idee di un allenatore mitteleuropeo scampato al lager, ma che solo 4 anni più tardi – per una beffa atroce del destino – trovò la morte a 51 anni nel rogo di Superga. Da quel momento Erbstein e i suoi ragazzi si trasformarono in leggenda. Una leggenda che durerà fino a quando durerà il calcio.