Ho amato e anche detestato, come lo fa un amante tradito, la Brujita, al secolo Juan Sebastián Verón. L’ho fatto perché, da giovane simpatizzante parmense, il suo desiderio, sbandierato ai quattro venti nell’estate del lontano 1999 (chi scrive frequentava le superiori e il football era più o meno il centro del suo mondo), di giocare in uno stadio con 80.000 spettatori, fu per me l’equivalente di una coltellata.
Come dicevo, ero giovane, ed ero anche un innamorato tradito e incredulo: per un anno avevo avuto la fortuna di ammirare le gesta del campione argentino, l’avevo visto disegnare un calcio tutto suo, profondamente idiosincratico, fatto di pause, di anacronismi che dilatano i tempi, di palloni che volano per decine di metri e quasi sempre arrivano là dove la bacchetta magica della Streghetta voleva che arrivassero, e mi ero innamorato del suo stile tutto sudamericano ma capace di imporsi, con la forza e con la qualità, anche nel Vecchio Continente.
Non erano mancati scivoloni, delusioni, l’amaro retrogusto della dilapidazione del talento, perché niente mi toglie dalla testa, anche nell’anno di grazia 2025, che il Parma del 1999 dovesse vincere lo scudetto, o quantomeno arrivare a un soffio dal riuscirci. Ma il trionfale cammino verso la Coppa UEFA e la Coppa Italia strappata d’imperio a una Fiorentina fortissima erano stati qualcosa di più di una consolazione: il quarto e ultimo trionfo europeo del Parma era stato imperioso, e il campione argentino, con la sua ampia falcata, la regia a tutto campo e il vezzo della giocata pesante era stato l’uomo più importante della corazzata gialloblu, il cervello che sapeva innescare anche gli altri cervelli.
A novembre del 1999, sulla Gazzetta, quando Juan Sebastián Verón si è preso la Roma biancoceleste e con lei gli sguardi di tutto il mondo, la Gazzetta azzarda il paragone impossibile, e scrive che l’impatto dell’argentino, che era riduttivo definire un centrocampista, in quei primi mesi di campionato non aveva precedenti se non nel Maradona di Napoli e nel Platini di Torino. Possiamo perdonare la leggera iperbole, perché chi c’era ricorderà che Verón, durante quella stagione e soprattutto nei suoi primi mesi, stava veramente passeggiando sulla Luna, giocando un calcio tutto suo, in grado di rallentare o accelerare i battiti della partita a seconda delle necessità del momento, e spostare gli equilibri di un campionato, con la punizione-capolavoro confezionata nel derby a scolpire per sempre il suo nome nel cuore dei laziali di tutto il mondo.
Ombroso come molti grandi dieci argentini, Juan Sebastián Verón è stato un giocatore meraviglioso, uno di quei pochi centrocampisti in grado di trasfigurare il senso di un reparto e quindi della squadra, letteralmente da solo. Ha avuto i suoi limiti, certo, i suoi passaggi a vuoto, ma questo poco toglie all’estetica unica ed efficace del suo gioco.
Parlavo di limiti: Seba non sempre ha fatto della continuità il suo punto di forza, e così, se il suo impatto sul nostro calcio è degno dei grandissimi, in quel di Genova, già la seconda stagione lo vede più balbettante, meno incisivo, meno incline alla giocata che fa stropicciare gli occhi. Anche la stagione di Parma sarà vissuta sulle montagne russe, mentre la prima stagione di Roma è probabilmente l’apogeo della sua carriera europea, perché vincere uno scudetto con la Lazio, e riuscirci in quel modo, da vero e proprio Deus ex machina dello squadrone biancoceleste, è impresa che ti consegna ai posteri.
Le sue stagioni nerazzurre sono rimaste nel cuore dei tifosi: pur meno mobile e “dominante” rispetto alla versione romana, Juan Sebastián Verón a Milano ha invece il pregio di essere continuo, tanto da dominare le graduatorie di rendimento riservate ai centrocampisti, e di illuminare il gioco con le sue sventagliate, rimaste il suo marchio di fabbrica e quasi ineguagliate (chi sventaglia come lui? Forse Pirlo, forse, e aggiungo un altro forse, Scholes e magari De Bruyne e Xabi Alonso), oltre che di farsi valere, da buon argentino, quando è necessario metterci la gamba.
Ombroso, dicevo. E le ombre prendono il sopravvento sulla luce sprigionata dalla sua capacità di prevedere il gioco e da una facilità di calcio quasi senza epigoni nel corso delle dolorose parentesi inglesi. L’esperienza londinese merita l’appellativo di fiasco, pur con tutte le attenuanti del caso, e si parla di ombre perché, un po’ come Riquelme, un po’ come molti altri grandi argentini (Di Maria e per certi versi, persino sua Maestà Lionel Messi), quando non sente la fiducia dell’ambiente, quando non si percepisce al centro del progetto, la Brujita si rabbuia, diventa un’isola, sprofonda in una sorta di autismo che mette le ganasce al suo superiore talento L’esperienza di Manchester è più complessa e sicuramente più felice: Sir Alex Ferguson, negli anni successi, non ha perso occasione per elogiare Seba come uno dei giocatori più dotati che abbia allenato.
I suoi problemi a Manchester sono invero stati di ordine tattico e legati agli infortuni: non bisogna dimenticare che l’argentino riceve il premio di player of the month, al debutto in Inghilterra, lasciando presagire che i tifosi dell’Old Trafford assisteranno alle stesse acrobazie e al medesimo spettacolo di balistica che ha deliziato gli italiani. Non sarà così, come sappiamo, ma il rendimento non pienamente soddisfacente dipenderà soprattutto dai reiterati guai fisici e dalle difficoltà di inserimento nel 4-4-2 classico di Ferguson, un 4-4-2 in cui l’argentino finiva inevitabilmente per pestarsi i piedi con Scholes. Come ha osservato qualche acuto commentatore tecnico di recente, durante un dibattito sulla Tv inglese, Seba è planato sul calcio dei sudditi di Sua Maestà con qualche anno in anticipo, perché la sua proverbiale capacità di giocare a tutto campo l’avrebbe reso una pedina essenziale nell’odierno 4-3-3.
Il capitolo nazionale meriterebbe un’analisi accurata, ma non sto scrivendo questo elogio per ricostruire nel dettaglio una carriera già nota: posso dire di aver provato un certo dispiacere quando, nel 2002, l’Argentina ha puntato tutto sul genio di Seba e non è stata ripagata dal campione come si aspettava accadesse.

A quasi 23 anni di distanza, credo ancora che per gli argentini il mondiale del 2002 sia arrivato troppo tardi: al netto della discutibilissima decisione di Bielsa di escludere Riquelme dalla rosa, nel 2002 Batistuta era già un ex giocatore, Crespo aveva perso il mordente delle stagioni parmensi e romane, Ortega aveva visto l’umore farsi uggioso nella complicata stagione di Parma, e, più di ogni altra cosa, appunto, Juan Sebastián Verón era reduce dalla prima, controversa stagione inglese, e proprio contro gli inglesi nel corso del mondiale sprofonderà nei propri abissi borgesiani, incapace di reagire alla complessiva superiorità britannica e di giocare come quel faro illuminante che aveva dimostrato di poter essere in altre, innumerevoli occasioni.
Quel Mondiale, disputato nel 2000 o anche solo nel 2001, a mio parere avrebbe visto la nazionale argentina giocarsi il successo, o comunque arrivare in fondo, perché le carte erano tutte in regola: nel 1998 era troppo presto e la squadra, pur fortissima, non valeva probabilmente le primissime del lotto (per inciso, la Brujita è forse il migliore della spedizione, in quel caso, subito dopo Batigol), nel 2002 era troppo tardi; nel 2007, con Seba reinventatosi geniale uomo ombra della stella Riquelme, le stelle sembrano allinearsi, ma la finale diventa una maledizione, le cui cicatrici diventeranno invisibili solo molti anni dopo.
Anche il 2010, con un Seba in là con gli anni ma ancora fulgido protagonista del calcio argentino, qualcosa non gira per il verso giusto, soprattutto nei rapporti con Maradona, e così la spedizione sudafricana per la Streghetta assomiglia a un calvario.
A proposito di parentesi argentine: quando saluta la Milano nerazzurra, Verón è ancora in splendida forma, tanto che nel suo paese diventa subito uno dei giocatori chiave, e porta l’Estudiantes a vincere una storica Libertadores nonché a far sudare le proverbiali sette camicie, nella finale di Coppa Intercontinentale, a quella che per molti appassionati è la miglior squadra di sempre (il Barcellona del 2009). La maestosa esperienza matura nel calcio argentino gli regala due palloni d’oro sudamericani (nel 2008 e nel 2009, e scusate se è poco), cui fa seguito il secondo posto nel 2010. Pur meno mobile rispetto agli anni d’oro, il Seba delle ultime stagioni è un giocatore che, in un calcio un po’ più compassato rispetto a quello europeo, può ancora fare la differenza con la sua bacchetta magica da Streghetta (come noto, il soprannome fu un’eredità del padre, a sua volta grande campione, soprannominato la Bruja).
Amore e odio, dicevo all’inizio del pezzo, ma gli anni stemperano le delusioni dei tifosi nel pieno della loro adolescenza, e gli lasciano solo ricordi piacevoli: il ricordo di una corsa dall’andamento particolare, quasi “scalena”, di una facilità di calcio impareggiabile (i suoi gol dalla distanza sono davvero dei gesti balistici quasi innaturali), di un carisma oscuro e introverso ma in grado di travolgere tutto, quando esplodeva, e di una bacchetta magica che gli regala un posto sul proscenio del calcio argentino.