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Corri, Jair, corri!

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Qualche giorno fa, all’età di 84 anni, è morto Jair, la freccia imprendibile della Grande Inter di Helenio Herrera e così, con la sua scomparsa, di quella squadra meravigliosa, di quell’undici che per molti di noi è diventata una poesia del Calcio, rimangono in vita solo Sandro Mazzola e Aristide Guarneri.

Jair Da Costa approdò in nerazzurro nel novembre del 1962 in una Inter condotta già da qualche stagione dal Mago, ma che stentava a centrare, pure sfiorandolo più volte, l’obiettivo dello scudetto e anche quella stagione era iniziata in un modo non del tutto convincente.

Già da alcune stagioni, il vulcanico tecnico dalle molteplici lingue, mogli e nazionalità aveva convinto il presidente Angelo Moratti, petroliere senza limiti di fondi nell’Italia del boom, a spendere per rendere la squadra all’altezza delle ambizioni. Ma, evidentemente, mancava ancora qualche tassello.

Una foto della Grande Inter

E tra gli ultimi a essere inseriti, nel mercato di riparazione che si svolgeva nella prima decade di novembre, furono il centravanti Beniamino Di Giacomo e l’ala Jair Da Costa.

Il primo fu scambiato tra Inter e Torino con Jerry Hitchens, molto amato dai tifosi nonostante non fosse certo un fenomeno e sacrificato per esubero di stranieri, e l’altro, arrivato direttamente dalla squadra brasiliana del Portoguesa, sostituì un’altra icona di quel periodo come Mauro Bicicliel bicicleta’.

Allora io ero un piccolo tifoso, troppo giovane per poter testimoniare di entusiasmo o di aspettative, ma ricordo perfettamente la figura di questo sottilissimo uomo di colore scendere dalla scaletta dell’aereo e procedere dinoccolato e con la faccia occupata interamente da occhi enormi e smarriti che facevano da contrappeso triste a un sorriso larghissimo e invadente, felice.

Assomigliava a un comico francese di colore, Harry Salvador, che imperversava in quegli anni nei varietà televisivi del sabato sera. O, tutt’al più, dava l’impressione di un ballerino contorsionista.
E, in realtà, quella prima impressione non si sarebbe discostata dal vero.

La sua capacità funambolica infatti molto si basava sull’incredibile controllo del corpo che gli consentiva le posture più assurde sia da fermo che in corsa. Anche la fama, scarna comunque di fatti certi e che precedette il suo arrivo, parlava di dribbling ubriacanti e di velocità folle.

Ma nessuno, nemmeno Omar Sìvori, il re del dribbling e dei tunnel di quei tempi, osava immaginare ciò di cui era capace questo carioca. Parlo di Sìvori perché in una foto emblematica della Gazzetta dello Sport viene ritratto lo juventino che guarda ammirato, letteralmente a bocca aperta, una finta di corpo di Jair che sbilancia un difensore bianconero.

Sìvori contro l’Inter

Il significato premonitore di quell’immagine andrà ben oltre le intenzioni del reporter. Essa, infatti, fu scattata durante uno Juventus-Inter del dicembre 1962, quando Sìvori e compagni erano in testa al Campionato, l’ennesimo che si apprestavano a vincere, ma forse proprio l’avvento di Jair aveva appena regalato ai nerazzurri quel pizzico di brio, fantasia e imprevedibilità che mancava per completare una squadra leggendaria e fortissima.

Non a caso quella gara terminò con la vittoria esterna dell’Inter per 1-0 che decretò il primo sorpasso nerazzurro nella classifica di quel torneo. Torneo che fu il primo dell’aureo ciclo della Grande Inter e il primo di una lunga astinenza bianconera, mentre il suo principale mentore, proprio Omar Sìvori che da lì a poco sarebbe passato al Napoli, non ne avrebbe incredibilmente vinto più nemmeno uno.

Possiamo quindi dire che quella foto dell’argentino impietrito di fronte al brasiliano imprendibile sia stata testimone di un passaggio di consegne? Forse. Sta di fatto che, anche se forse è stato il meno celebrato di quei campioni, io ritengo ancora oggi che fu proprio l’innesto di quel fenomenale atleta, che giocava con una visibile fascia elastica intorno alla vita, a trasformare l’Inter in Grande Inter, appunto.

Molto più di quel Di Giacomo, pur produttivo e arrivato assieme a lui, e più di Giuliano Sarti e Aurelio Milani, giunti da Firenze un anno dopo a sostituire il vecchio Buffon e lo stesso Di Giacomo e a completare quel prezioso indimenticabile puzzle.

Jair in azione

Jair, nel primo dei suoi due lustri nerazzurri, separati da una anno a Roma in giallorosso, ha vinto tutto, in Italia, in Europa e nel Mondo. Lo ha fatto in sordina pur essendo spesso decisivo, lo ha fatto in umiltà anche quando segnò con il Benfica il gol della seconda Coppa dei Campioni, lo ha fatto soprattutto correndo e dribblando inarrestabile e solitario sulla sua fascia di competenza, spesso destra ma a volte pure sinistra.

Specialmente nelle trasferte notturne di Coppa, con la squadra arroccata nel più classico dei catenacci duri, magari sotto la pioggia britannica o il nevischio danubiano, eccolo ricevere il pallone da un ennesimo rinvio di Picchi o da un lancio di Suárez, eccolo caracollare nero e notturno anche lui, e poi scattare e poi rallentare in mezzo ai difensori che non lo prendono mai, che difendono l’area.

Ma a lui, a Jair, dell’area non gliene frega nulla: «Milani e poi Peirò o Sandrino sono là in difesa. Qui davanti non c’è nessuno, ma io sono qua, con il pallone attaccato allo scarpino e questi marcantoni non me lo tolgono mai. Devono tagliarmi gli stinchi e farmi fallo. Ecco, bene! L’arbitro fischia e i miei, laggiù, per un po’ respirano…».

Al di là dell’epica e delle esagerazioni, spero perdonabili, la funzionalità di un giocatore come Jair nel più classico, ma più redditizio, gioco all’italiana che si potesse immaginare persino nell’epoca del suo massimo splendore e dei suoi migliori risultati, mi sembra del tutto evidente.

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