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Diego Milito, il principe che divenne re

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Faccio subito outing: sono sempre stato innamorato di Diego Alberto Milito. Per una sorta di “Sindrome di Stoccolma”, lo stato psicologico che porta le vittime a provare sentimenti positivi verso i loro aggressori, lo ero anche quando assistevo alla cavalcata della mia rivale sportiva numero uno verso il Triplete, marchiata con il fuoco dalle reti dell’attaccante argentino.

I miei livelli di rosicamento, complice anche il momento diametralmente opposto vissuto dalla mia squadra del cuore, raggiungevano vette inesplorate, ma al contempo erano stemperati dall’ammirazione verso quel centravanti dallo sguardo triste, chiamato El Principe per la sua incredibile somiglianza fisica con Enzo Francescoli, anche se a me ricordava di più un giovane Sylvester Stallone, ai tempi di Rambo.

Di Milito amavo innanzitutto la leggerezza che trasmetteva: dimenticatevi del prototipo del centravanti di sfondamento, tutto muscoli e strattonamenti, o dello spilungone d’area che di testa le prendeva tutte. Milito era “straordinariamente normale”: era agile nei movimenti, intelligente nella lettura dell’azione di gioco, sgusciante nel dribbling.

Spesso paragonato a Crespo, era simile a lui nelle movenze e nel primo controllo ma più rotondo nel dribbling e nel tiro – il suo pallonetto all’Atalanta nel 2010 ha la stessa morbidezza del famoso cucchiaio di Totti nello stadio qualche anno prima. Assomigliava ad Higuain, ma con un pelo in più di agilità. Come tutti gli attaccanti di classe, dava l’idea che ogni mossa, ogni movenza, ogni tocco fosse perfettamente funzionale allo scopo. Né uno di più, né uno di meno.

Vedeva la porta, e sapeva raggiungerla in ogni modo: calciando di prima, calciando di destro o di sinistro, calciando in diagonale – citofonare per informazioni a Ignazio Abate, che prese due gol identici da Milito in due derby differenti – di prima oppure in progressione. Come ricordato prima, il suo nome è legato in maniera indissolubile al Triplete di Mourinho nella stagione 2009-2010.

Le reti si contano, ma soprattutto si pesano ed è difficile trovare una stagione in cui le reti di un attaccante abbiano pesato così tanto, ai fini della vittoria – mi viene in mente la Champions di Cristiano Ronaldo nel 2017, ma le reti di Milito hanno deciso ogni trofeo – sua è la rete decisiva della finale di Coppa Italia all’Olimpico contro la Roma, suo è il gol a Siena che vale lo scudetto all’ultima giornata, quando i nerazzurri stavano cominciando a vedere i fantasmi del 5 maggio; suo è il gol decisivo nella famosissima gara di Milano contro il Barcellona di Guardiola, prestazione condita anche da due assist decisivi per Sneijder e Maicon; sua è la rete che tiene in vita i nerazzurri nel pantano di Kiev e avvia la rimonta per la qualificazione agli ottavi; sua è la rete contro il Chelsea a San Siro, in una gara che dà all’Inter la consapevolezza di essere forti anche in campo europeo, e ovviamente sue sono le due reti contro il Bayern Monaco nella finale di Madrid del 22 maggio che consegnano all’Inter la terza coppa dei campioni, dopo quarantacinque lunghi anni di digiuno.

Sarebbe tuttavia miope soffermarci solo su quest’annata, che è stata senza dubbio il coronamento di una carriera dove ogni scalino è stato un guadagno sudato: una lunga gavetta, tra il Racing in Argentina, la serie B italiana, la Spagna alla corte del Saragozza, la Serie A in maglia rossoblu e la prima grande opportunità a 31 anni, mentre i riflettori erano puntati sul rovente scambio dell’estate, sull’asse Barcellona-Milano, che coinvolgeva Samuel Eto’o e Zlatan Ibrahimovic. Milito era arrivato a fari spenti, insieme al compagno di squadra genoano Thiago Motta. C’era scetticismo su di lui, nonostante venisse da una stagione da vicecapocannoniere con 24 reti.

Diego Milito al Genoa

“È bravo, per carità, ma l’Inter non è il Genoa. Riuscirà a gestire la pressione?”. La risposta la sappiamo tutti. Diego Milito è stato vice capocannoniere anche in terra iberica, con la maglia del Real Saragozza, nel 2007: era approdato lì, dopo lo scandalo sportivo che coinvolse il Genoa, in prestito biennale con diritto di riscatto. Segnò anche in quell’occasione 24 gol, meglio di lui solo Ruud Van Nistelrooij con un gol in più. Ebbe l’anno prima il privilegio – insieme a pochissimi – di segnare ben 4 gol al Real in una partita: era la semifinale di Coppa del Re. Perse, però, la finale contro l’Espanyol.

Come è vero che raggiunto il cielo si può soltanto scendere, anche per Milito la stagione successiva alla sbornia del Triplete fu malinconica: iniziò con il piede sbagliato già con il rigore fallito nella Supercoppa Europea contro l’Atletico ed in generale fu funestata da diversi infortuni e fastidi, che lo tolsero dell’incredibile rimonta sfiorata sotto la guida di Leonardo ai danni del Milan di Massimiliano Allegri. È rimasto un gol allo Schalke, prima del tracollo e della funesta eliminazione, e poco altro. La malinconia rischiò di trasformarsi in depressione l’anno seguente, dove fino a gennaio Milito entrò in crisi cronica con l’amore della sua vita: il gol.

Tanti errori, anche banali, portarono un quasi spazientito Claudio Ranieri, allenatore della Beneamata, a dichiarare di volerlo accompagnare al Santuario del Divino Amore in pellegrinaggio, per riaccendere in lui la scintilla perduta. A gennaio riprese a segnare con continuità e non si fermò più: in totale furono 26 stagionali. Ricordo in particolare una quaterna, sotto la neve di San Siro, contro il Palermo in un improbabile e gelido turno infrasettimanale. L’ultima, funesta, delusione me la diede nel novembre 2012 in un Juventus-Inter: dopo un primo tempo dominato dai bianconeri e conclusosi con solo un gol di vantaggio, Milito siglò la doppietta che rovesciò la partita e simboleggiò la prima sconfitta della Juventus di Conte, tra le mura dello Stadium.

L’Inter si portò a -1 dai campioni in carica ma non poteva durare: la squadra di Stramaccioni era trainata dal tridente CassanoMilitoPalacio, che aveva assoluta libertà di movimento, staccato dal secondo troncone dove c’erano tutti gli altri. L’idea di poter competere con una potenza di fuoco come la Juve contiana era data solamente dalla straordinaria intesa di quei tre, che giravano a pieno regime. L’idillio durò poco: Cassano ebbe notoriamente problemi con Stramaccioni e Milito, in un’anonima sera di Europa League a febbraio contro il Cluj, si ruppe il crociato. Stette fuori molto, poi tornò, ma più per gratitudine del club che aveva contribuito a rendere grande che per brillantezza effettiva. Quella sera, con l’infortunio del Principe, un po’ mi feci male anch’io. Quanto lo avrei voluto in bianconero.

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