Era difficile prevederne le mosse. A volte sembrava assente, altre volte ti faceva una cortesia a scendere in campo. Ma poi in partita il valore diventava palese, anche quando non dava il massimo. Sinistro implacabile, mezzi tecnici fuori scala ma anche personalità fragile e complessa: elementi che assemblati componevano un vero e proprio “Codice Recoba” tutto da decifrare.
Álvaro Alexander Recoba Rivero, il campione venuto dall’Uruguay poco più che ventenne e destinato a entrare nel cuore dei tifosi dell’Inter. Più del fenomeno Ronaldo, molto più di Zamorano. Quasi quanto Zanetti, ma per motivi del tutto opposti: macchina da guerra l’argentino, estro indolente “el Chino”. Esempio di giocatore che ti cambia la vita in meglio, ma anche in peggio se non è giornata.
Del resto, chi ha amato Beccalossi non può restare indifferente a uno come lui. Un caleidoscopio di sensazioni e di stati d’animo contrapposti che viene al mondo il 17 marzo 1976. La sua figura fuori dagli schemi trova un modo per essere sempre attuale. In un calcio fatto sempre più di “parti di ricambio” rimane importante la presenza del “pezzo unico”. Anche quando non si adatta perfettamente al resto della macchina. Ne va del concetto stesso di unicità.

Esordio da fenomeno
31 agosto 1997, domenica pomeriggio particolare. Il mondo piange la morte improvvisa di Lady Diana Spencer, in Italia si gioca la prima di campionato, edizione 1997/98. Durante l’estate il calciomercato ha segnato colpi importanti: Inzaghi alla Juventus, Mancini alla Lazio, Cafu alla Roma, Kluivert al Milan e soprattutto Ronaldo all’Inter. Un ragazzo uruguaiano che siede sulla panchina nerazzurra spera in cuor suo di fare la prima apparizione. Non è semplice, la concorrenza è spietata.
Pensare di soffiare il posto al Fenomeno, a Djorkaeff, a Zamorano o allo stesso Maurizio Ganz significa avere una certa consapevolezza dei propri mezzi, una certa grinta e a occhio lui non sembra un giocatore al veleno. Si gioca Inter-Brescia. Sul piano tecnico non dovrebbe esserci partita ma di fatto l’Inter non riesce a passare. Sarà il caldo di fine agosto, sarà la preparazione atletica ancora da rifinire. Cervone para tutto, a centrocampo un giovanissimo Andrea Pirlo detta i tempi del gioco bresciano.
Davanti c’è un ariete che crea non pochi grattacapi: si chiama Dario Hubner. Un nome e un cognome che assemblati rappresentano un delitto eccellente del calcio italiano. Se uno come lui conosce la serie A all’età di 30 anni, qualcosa nel sistema non va. Secondo tempo inoltrato, il risultato è ancora 0-0. A 18’ dalla fine l’allenatore Simoni decide di provarci: dentro Recoba, fuori Ganz.
Nemmeno a farlo apposta, passa un minuto e segna Hubner. Esultano i tifosi bresciani sugli spalti, si profila l’impresa storica. Ronaldo non sembra in giornata, il gioco interista vive di singole giocate. Per il tifo di casa, Recoba è ancora un oggetto misterioso. Del ragazzo si dice bene, ma ne ha uccisi più i “si dice” che la bomba atomica. Tuttavia, qualcuno deve credere in lui, se è vero che hanno pagato sette miliardi di lire un perfetto sconosciuto.
Diamanti purissimi
Come tocca palla, il numero 20 incanta. È mancino, ma con il sinistro può essere fioretto e spada. Fluido nella giocata, naturale palla al piede, e sono cose che in una scuola calcio non si insegnano. Dieci minuti alla fine e il Brescia è ancora in vantaggio. Gli spazi di manovra sono strettissimi, l’Inter la può rimettere in piedi solo con un tiro dalla distanza. Recoba lo capisce e quando gli arriva palla, ci prova. Altezza dei 25 metri, leggermente defilati a sinistra per chi attacca. “El Chino” riceve da Cauet e scarica in porta.
Potenza, effetto, precisione. Esplode il Meazza, ma ancora nessuno si aspetta il resto. Passano cinque minuti e l’Inter continua ad attaccare. All’altezza dei trenta metri Doni stende Moriero. Sul pallone c’è Recoba e Cervone ne piazza cinque in barriera. La parabola a giro è perfetta e si spegne sotto l’incrocio dei pali alla sinistra del portiere. Sull’ovazione generale Pagliuca parte dalla sua porta per andare a festeggiare la prodezza, Moriero fa il gesto di lustrare le scarpe al cecchino che ha appena segnato. Hai visto mai che il vero Fenomeno è quel tizio sconosciuto con occhi da asiatico? Inter batte Brescia 2-1. Gioco pessimo ma tre punti molto importanti per iniziare bene la stagione.
Talento, indolenza, estemporaneità
Da sole le doti non disegnano il profilo di un campione, il consenso è un mistero. I tifosi si innamorano spesso di tipi del genere, perché in fondo sanno d’istinto che gente come “el Chino” fa parte di una categoria da proteggere. E in cambio di giocate belle e inattese come le sue, perdonano tutto o quasi. Il problema è che Recoba si mostra troppo discontinuo e diventa difficile anche trovargli esatta collocazione in campo. Non è una prima punta, né una seconda. Potrebbe essere un trequartista ma a ridosso delle punte non è funzionale al gioco dell’Inter. Simoni lo prova da esterno, ma una volta defilato tende a sparire. Otto presenze, tre gol. Bellissimi, ma tre.
Eppure, le caratteristiche tecniche fanno pensare a un anatroccolo che studia da cigno. Forse in laguna i cigni vivono meglio, tant’è che nel gennaio del 1999 va in prestito al Venezia. Sei mesi da campione vero. Diciannove presenze, dieci reti e la squadra veneta si salva senza patemi. Al Venezia l’ultimo arrivato è padrone di esprimersi senza essere imbrigliato in schemi, libero di inventare quando vuole, di scendere in campo senza ansie da prestazione. In un calcio ideale dovrebbe essere sempre così ma un campione è tale quando sa sconfiggere due avversari che non sentono ragioni: la pigrizia e la pressione. Sono i principali dèmoni che attendono “el Chino” al ritorno a Milano per la stagione successiva.
Sarà anche vero che l’Inter non è solita brillare per pazienza, ma perseverare in flemma e intermittenza da parte del diretto interessato è quasi diabolico. Neanche in passato gli istintivi e gli atipici erano “comodi”, in un calcio tutto posizioni da tenere, diagonali, tagli e sovrapposizioni lo diventano anche meno. E non è questione d’impegno settimanale, anche se una certa indolenza di fondo è spesso in agguato.
«Non è che non mi piaccia allenarmi – confesserà una volta Recoba – La realtà è che è come a scuola, ci sono materie che ti piacciono di più e materie che ti piacciono di meno. Bene: a me del calcio non piace la parte dell’allenamento, però devo farlo e lo faccio».
Uno come Cristiano Ronaldo non concepirebbe un discorso del genere, Maradona forse sì. Ma Maradona è un caso a parte e quando si parla di stakanovisti del pallone lui non fa testo.
Irregolare a tempo pieno
La realtà è anche un’altra. Álvaro Recoba funziona quando non ci si aspetta nulla da lui. La minima pressione lo uccide, portandolo a dissipare una dote di partenza tanto cristallina quanto delicata. Non tollera le aspettative altrui, spesso si perde dietro i riflettori puntati. E non perché non sia egocentrico, a suo modo. Un problema di personalità, forse. Di sicuro, un limite caratteriale. Sta di fatto che per essere un giocatore che passa più tempo in panchina che in campo, è davvero il più pagato in assoluto.
Finché un giorno anche lui si rende conto che quella del bordocampo è una prigione. D’oro ma pur sempre prigione. Nel 2007 ottiene il trasferimento al Torino. Ma anche in maglia granata “el Chino” è sempre irregolarità allo stato puro. Luci e ombre, presenze e assenze. Splendori e latitanze. Proprio in una piazza che ha bisogno di concretezza e continuità per restare a galla. Ventidue presenze, un solo gol. Dopo due stagioni nella squadra greca nel Panionios, si fa largo la nostalgia delle origini.
L’ Álvaro prodigio

Nel 2010, alla metà degli “enta”, Álvaro Recoba detto “el Chino” per un’aria poco sudamericana torna a giocare in patria. Istinto? Ragione? Calcolo, magari un po’ furbesco? La soluzione sembra la più rassicurante per un campione già pigro da giovane, figuriamoci in piena parabola discendente. Una stagione e mezza al Danubio e quattro al Nacional, le due squadre di Montevideo con le quali si era fatto conoscere a livello internazionale. La classe ancora c’è, Recoba contribuisce alla vittoria del Nacional nell’Apertura 2014 con due giornate d’anticipo. Il 14 giugno 2015, dopo essersi laureato campione nazionale per la seconda volta in tre anni, decide di ritirarsi. Decisione irrevocabile.
El nuevo Álvaro
Quando vuole, la gente cambia. Oggi Álvaro è il serio e metodico allenatore del Nacional e ha un occhio severo anche verso suo figlio Jeremía, classe 2003. Un’altra persona, forse il ruolo in campo ora lo ha trovato. Le persone maturano, bisogna saper aspettare, anche se non esistono garanzie assolute. Quando decidi di avere in squadra un giocatore come Álvaro Recoba, sai che ti stai prendendo il pacchetto completo. Chi vuole il massimo deve poter sopportare anche il minimo. Specie quando il minimo è, il più delle volte, ciò che il convento passa.
Ma anche il minimo di Álvaro ha fatto battere il cuore a tanta gente. Del resto, non sempre ci si innamora del primo della classe, del compagno di studi che porta a casa pagelle robotiche. I mostri di efficienza fanno breccia nella testa, forse. Ma il cuore è spesso abitato da spiriti incostanti, da quelli che amano sedersi all’ultimo banco. Da quelli “intelligenti ma non si applicano”. Salvo poi creare dalle retrovie il capolavoro dell’anno. Del resto, le vie dell’anima sono infinite e d’immenso ci si può illuminare anche così. Ma oggi per gli “irregolari” come “el Chino” sarebbe ancor più dura che in passato, e nulla dice che sia un bene.