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Apologia dei brasiliani d’Europa: mito e caduta della grande Jugoslavia

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L’estate del 1992, per gli appassionati di football, significa soprattutto il miracolo danese, un miracolo che sarà replicato, in forma ancora più implausibile, dalla Grecia, dodici anni più tardi, e che ha le movenze felpate del Ladurup minore e meno dotato, la mole di Peter Schmeichel, il cuore di Kim Vilfort, che non rinuncia a scendere in campo contro gli arci-rivali tedeschi, in finale, nonostante una figlia malata di leucemia e attesa da un atroce, prematuro destino.

Per chi scrive, tuttavia, l’estate del 1992 è il grande buco nero della storia moderna del fooball, perché nell’ucronia della sua mente, nel 1992, la Jugoslavia (leggi qui i dieci migliori giocatori jugoslavi di tutti i tempi) ha cancellato decenni di delusioni, trionfi sfiorati, follie, etichette di comodo abusate (“genio e sregolatezza“) ed è salita in Svezia per trionfare, superando tutti gli avversari più accreditati, a partire dai tedeschi, facendo leva solo sulla propria abilità tecnica, sull’idea anacronistica (aggettivo che può diventare un complimento) per cui è sufficiente far convivere i campioni più dotati per superare gli avversari, anche se questi sono più alti e grossi, corrono di più e meglio, e non perdono mai la concentrazione, e sanno trascinarti fino ai supplementari e ai rigori per poi, di riffa o di raffa, prevalere praticamente sempre.

Stojković e Savićević

Sappiamo tutti perché nel 1992 la Jugoslavia non ha potuto partecipare al campionato europeo e chiaramente il dramma sportivo, così evanescente e minuscolo, scompare davanti alle tragedie della storia, a una convivenza tra popoli che nell’arco di pochi mesi si trasforma in uno spargimento di sangue brutale, che costringe i media occidentali a rispolverare concetti che sembravano archiviati dalla storia (genocidio). A due passi da casa, un paese meraviglioso, il selvaggio crocevia tra la cultura latina, quella slava e quella mediorientale/araba (non è un caso se Joyce scelse Trieste, il cancello tra i mondi, come seconda dimora) sprofonda nell’orrore, e chi scrive, anche se al tempo era poco più di un bambino, ricorda ancora le immagini trasmesse h 24 dai telegiornali, i titoli roboanti dei maggiori quotidiani, la sensazione che un’epoca, quella della pace e della prosperità (le Grandi Illusioni raccontate così bene dal genio di Renoir all’alba del secondo conflitto mondiale, illusioni riproposte e alimentate dal Sessantotto e dalle sue utopie), stesse tramontando nel modo più triste e violento.

Un Paese si sgretolava e anche il calcio, nel suo piccolo, era una vittima della grande tragedia di un popolo.

Lo so, lo so: è probabile che la Jugoslavia avrebbe trovato il modo di perdere anche a Euro 1992, perché i luoghi comuni, in molti casi, sintetizzano e codificano delle Verità, e che gli jugoslavi non fossero mai riusciti a trasformarsi in un collettivo vincente e solido, nel 1992, ce lo raccontava la storia, anche se il vento aveva mutato direzione proprio un attimo prima che la guerra fagocitasse tutto.

Un titolo olimpico, conquistato a Roma nel 1960, non era sufficiente a riscattare decenni di frustrazioni, di trionfi che sembrano a portata di mano e che finiscono nelle ortiche perché quello che può girare storto, alla fine, gira sempre storto, che si tratti del confronto fratricida con i sovietici, il derby della Cortina di Ferro che ovviamente viene perso dagli slavi nel 1960, o del duello ancora più fratricida con gli azzurri, datato 1968: anche in quel caso, la sfortuna vede meglio di un falco e consente ai nostri di rimediare alla pessima, prima finale con una seconda finale trionfale, e verrebbe da chiedersi quando mai si sono disputate due partite per assegnare un trofeo, quando mai una monetina ha deciso una semifinale etc..

Se ci muoviamo a ritroso, viene naturale pensare all’Olimpiade (all’epoca, la medaglia d’oro aveva davvero un enorme prestigio) che consente al mondo di dimenticare le mostruosità della guerra, nel 1948: Londra, reduce dalle bombe dei tedeschi, in poco tempo si trasforma nel parco giochi dei migliori atleti del mondo e per la Jugoslavia, nel football, sembra la volta buona, visto che la sua rosa trabocca di talento; ecco però che gli svedesi, il cui calcio ancora galleggia sopra un diffuso dilettantismo, decidono che i loro fenomeni Gren, Nordhal e Carlsson devono scendere in campo e avere la meglio sugli eccentrici jugoslavi, guidati da un mediano che ha quasi il nome di un genio della musica (Čajkovski) e da altri campionissimi destinati però, come sempre, a uscire sconfitti dal campo. Anche quattro anni più tardi sembra la volta buona: la nazionale jugoslava assomiglia a un all star team della NBA, i campioni non si contano (a partire da Boškov, proprio lui, per finire con sua maestà genio e sregolatezza Bernard Vukas), ma ecco che a sbarrargli la strada verso il trionfo scende da Marte la Grande Ungheria, la squadra del secolo, la nazionale destinata a rivoluzionare il modo in cui il gioco viene pensato e a farlo in grande stile, rifilando 13 reti ai malcapitati e presuntuosi inglesi, giusto un anno più tardi.

Nel 1992, però, la storia sembra davvero poter svoltare, e per spiegare come il successo non sia più un miraggio dobbiamo tornare indietro di qualche anno, all’epoca in cui la Stella Rossa, o meglio la Fudbalski klub Crvena zvezda sta ricodificando la sintassi del calcio jugoslavo, naturalmente trovando il modo di scivolare sempre sul più bello; o meglio, scivola sempre, è vero, ma fino al 1991, perché proprio nel 1991 qualcosa cambia, pare che la storia volti pagina.

Negli anni antecedenti al 1991, il copione sembra sempre scritto in anticipo e vanifica l’ascesa degli slavi: ai quarti di finale della Coppa dei Campioni del 1987, la squadra di Belgrado si impone sul Real Madrid con un sonoro 4-2 che probabilmente le sta pure stretto, incanta gli esteti di tutto il mondo e sembra in procinto di approdare finalmente alle semifinali, dopo tanti anni di anonimato, ma si fa rimontare al Bernabeu con un 2-0 che ancora oggi suona beffardo e ingeneroso, e che però fotografa con precisione spietata la distanza che separa la mentalità dei vincenti da quella di chi si incarta da solo.

Il nebbione omerico che cala su Belgrado un anno più tardi lo ricordiamo tutti e impedisce alla Stella Rossa di eliminare il più quotato Milan: anche in quel caso, la malasorte si accanisce sui figli dei Balcani e lo fa quasi con perfido sarcasmo (a Belgrado la nebbia si vede una volta ogni dieci anni), e al resto pensano loro, i balcanici, non riuscendo a ripetere nella “bella” la prestazione del giorno della nebbia e venendo eliminati ai rigori, ma con pieno merito, dallo squadrone di Arrigo Sacchi.

Persino in Coppa UEFA, nel 1989, la vocazione al disastro degli jugoslavi tende una trappola: il 2-0 rifilato a un combattivo Colonia (grazie a un ispiratissimo Genio) viene ribaltato, ancora una volta, in Germania, quando per tutti la Stella Rossa è una delle favoritissime della competizione.

Le Notti Magiche di Italia ’90 sono l’ennesima, crudele beffa: dopo la lezione subita nel girone dai tedeschi, figlia della più classica serata storta dei balcanici, la nazionale guidata dal veterano Osim decolla e regala al pubblico forse il miglior calcio di tutta la rassegna iridata, inglesi permettendo. E così elimina la quotata Spagna della Quinta grazie a due gesti tecnici da antologia di Piksi Stojković, che in quel momento contende all’acciaccato Diego la palma di numero uno tra i numeri dieci, prima di farsi fregare ancora una volta dai calci di rigore, e prima dal calcio indecifrabile, brutto, spigoloso ed efficace di Bilardo e della sua Argentina.

Come noto, il vento cambia, forse per la prima volta, proprio un anno dopo le Notti Magiche, in quel di Bari: dalla vicina Antivari (letteralmente, di fronte a Bari) arrivano navi cariche di speranze biancorosse per un’inattesa finale che sorriderà agli slavi, dopo, a dire il vero, 120 minuti di quasi nulla, in cui la squadra di Belgrado ha rinunciato ai suoi svolazzi e ha giocato a muso duro contro il Marsiglia di Goethals, squadra in grado di soffocare nel pressing anche il quotatissimo Milan di Sacchi: un successo brutto, antiestetico, poco memorabile per quanto si è visto in campo, ma vivaddio un successo vero, con il nome dello squadrone di Belgrado che troneggia sua tutta Europa e che lo farà sul mondo intero, pochi mesi più tardi, dopo un sonoro 3-0 ai cileni del Colo-Colo.

La Stella Rossa in Coppa dei Campioni, prima della finale, ha superato gli ostici tedeschi orientali della Dinamo Dresda ed è poi riuscita, per una volta, a portare la buona sorte sui Balcani, superando il Bayern di Monaco grazie alle sublimi, barocche invenzioni di quello che si appresta a diventare il regista più ispirato della Terra (Robert Prosinečki) e ai soliloqui con il pallone del Genio Savićević, che costringe al silenzio Monaco di Baviera dopo aver lasciato sul posto nientepopodimeno che Jürgen Kohler. Più di ogni altra cosa, tuttavia, ed è questa la novità, la Stella Rossa ha giocato e vinto come si conviene a una squadra: il carattere bizzoso di alcuni dei suoi leder (penso proprio a Robert o al povero Sinisa Mihajlovic) viene mitigato dall’autorevolezza serena di Belodedici e dalla capacità del gruppo di soffrire, capacità di cui era storicamente privo e che era una delle cause dei suoi cronici scivoloni.

Eccoci al punto: nel 1991, la Stella Rossa vince non solo perché il suo undici titolare trabocca di talento e di estro, come le è quasi sempre accaduto, ma perché ha imparato anche a vincere “male”, a sgomitare, a portare gli episodi dalla propria parte, e questo senza rinunciare a quelli che sono i principi non negoziabili su cui si fonda la sua visione del calcio (la tecnica e la pura qualità prima di tutto, ed ecco spiegato perché gli jugoslavi erano i brasiliani d’Europa). Sarà anche vero, come diceva Sinisa, che gli jugoslavi possono superare Italia e Germania e il giorno dopo perdere contro la rappresentativa dei camerieri del loro albergo, ma è altrettanto innegabile che vincere aiuta a vincere e che, se possiedi qualità in sovrabbondanza, quando completi il puzzle acquisendo anche una mentalità vincente, diventa difficile per gli altri arginare il tuo calcio imprevedibile, fatto di un palleggio cadenzato cui si alternano lampi di genio, assoli lambiccati, dribbling senza logica e filtranti geniali (il marchio di fabbrica di Piksi) che una logica la acquisiscono solo quando sono giunti a destinazione.

Il 1992 poteva essere davvero l’anno buono, ma ovviamente non si può riscrivere la storia e non lo sapremo mai. Poteva esserlo anche per il modo convincente in cui la Jugoslavia aveva dominato il girone di qualificazione, mettendo un freno alle ambizioni della Danimarca (si veda sotto il 2-0 pulito con cui i balcanici espugnano Copenaghen) conquistandosi un primo posto mai in discussione, tutti segnali di maturità, di sicurezza, di una convinzione che forse dalle parti di Belgrado non era mai esistita prima.

Come detto, si parla di ucronia, di qualcosa che esiste solo nelle menti di chi al tempo c’era e aveva/ha una spiccata vocazione romantica.

Mi piace però pensare che la crescita della Croazia, che si affaccia sul mondo delle grandi quando supera l’Italia vicecampione del mondo a Palermo, grazie al genio velenoso di Davor Šuker, sia la testimonianza più concreta del salto di qualità riuscito ai balcanici nel corso degli anni ’90, a dispetto di tutto e anche della guerra. Del resto, la Croazia che ha raggiunto una finale e una semifinale mondiale negli ultimi anni è pur sempre una costola della fu Jugoslavia, e non vanta la metà del talento che si poteva ammirare a Belgrado allora, ma ha saputo trasformarsi in un gruppo, arroccandosi intorno al suo sublime fuoriclasse Luka Modrić, e ha imparato a vincere in ogni modo, quasi sempre male, dopo partite sofferte, difficili e in cui gli episodi hanno fatto la differenza (i rigori contro Russia e Brasile, i supplementari contro gli inglesi). La Croazia ha quasi rovesciato i luoghi comuni sul calcio jugoslavo che fu e ha ottenuto risultati impensabili, e a me piace pensare che, regalandoci sempre quel calcio folle e bizzarro, anche la Jugoslavia sarebbe riuscita a maturare, forse anche a vincere, magari, appunto, già nel 1992.

Nel mio piccolo, a prescindere da ogni ucronia, conservo con affetto il ricordo della squadra bizzarra ed eccentrica ammirata in campo tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, quella nazionale che poteva far convivere anche più di due numeri dieci, con la loro allure da eroi romantici, le loro pause, i loro fisici normali, la loro maglietta meravigliosa, la loro arte dell’uno contro uno – un segno dei tempi e anche dei gusti.

Concludo il pezzo rievocando quella che è forse la prestazione più bella degli jugoslavi che furono, una prestazione che risale al novembre del 1988: la Jugoslavia, nel cammino verso Italia 1990, deve affrontare la Francia del post-Platini, guidata proprio da Michel in panchina, una Francia in fase di transizione ma comunque ricca di grandi giocatori. La partita, davvero bellissima, si gioca nello stadio del Partizan, vede gli slavi andare in svantaggio e poi rimontare grazie alle invenzioni del Genio e ai colpi risolutivi di Piksi. Quella nazionale, quasi rievocando la gioiosa anarchia del Brasile messicano, non esita a schierare in campo Dejan Savićević, Dragan Stojković, un giocatore di culto come il bosniaco Safet Sušić, un centrocampista elegantissimo e tecnicamente superbo come Mehmed Baždarević, altro bosniaco, e un attaccante di qualità come Borislav Cvetković, e vince proprio grazie alla convivenza sulla carta impossibile eppure funzionale ed efficace tra tutti i suoi maghi: inutile dire che, per chi scrive, ancora oggi vederla in campo è una delle ragioni per cui vale la pena seguire il calcio.

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