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George Best, il poeta del calcio e l’inquietudine dell’Essere

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C’era una volta un genio, un ribelle, un poeta del pallone. George Best è stato il calciatore che forse ha rappresentato più di altri l’incarnazione stessa della bellezza effimera. Nacque a Belfast nel 1946, e già da giovane la sua esistenza sembrava una sinfonia suonata in un giorno di pioggia, dove ogni goccia era un dribbling audace, ogni fulmine una sua giocata che strappava gli applausi del pubblico. Non è un caso che la sua vita si rivela, a tratti, come una riflessione sulla condizione umana, sul sogno e sulla caduta, sull’essere e sul non essere.

Best era un artista del calcio, capace di danzare sul terreno di gioco con la grazia di un ballerino e la potenza di un uragano. Con il Manchester United (qui il resoconto della sua finale di Coppa Campioni 1968, qui la partita in cui demolì il Benfica nell’edizione 1965-1966), il club che diventò la sua culla e la sua prigione, scrisse capitoli indimenticabili. Esordì nel 1963 e vi rimase fino al 1974 dove giocò 361 partite totalizzando 164 reti. La famosa frase: «Io non bevo per essere allegro. Io bevo per dimenticare», svela una dualità profonda: la gioia e il dolore, l’estasi e la rovina, il genio e la follia. Quante volte il suo calciomercato si era trasformato in una metà di quel mondo in cui l’alcol sbiadisce i colori e amplifica l’oscurità dell’anima? L.A. Aztecs per una Caipirinha e poi di corsa a Fulham per un castello di Champagne (Best a dispetto di quanto si creda non era un gran bevitore di birra).

Best, Busby e il Pallone d’oro vinto nel 1968

George Best era un amante del bello e del grande, ma spesso scivolava nelle maglie del tragico. La sua vita fuori dal campo ricalcava quella del playboy che assaporava l’eccesso, frequentando discoteche e donne affascinanti, come se ogni notte potesse essere l’ultima, un’epifania di momenti intensi e fugaci. «Ho speso un sacco di soldi in vino, donne e automobili. Il resto lo ho sperperato», raccontava con un sorriso triste, consapevole che ogni battuta nascondeva una verità inquietante sull’ineffabilità del tempo.

Best ci insegnava che il genio porta con sé un fardello. Ogni grande atleta porta nel cuore il peso della gloria e della solitudine. La sua vita si trasformava in un palcoscenico di contrasti. Amato da milioni, solitario nel cuore, il suo talento era un’arma a doppio taglio: meraviglioso da ammirare, devastante da vivere. Il mondo lo idolatrava, mentre lui cercava rifugio in un bicchiere, nella compulsione, nell’illusione di un’amore che potesse colmare i vuoti.

La sua morte, avvenuta nel 2005, è stata l’epilogo di una vita vissuta fra eccessi e genio, e la frase che ha lasciato nell’aria, come un’eco malinconica: «Non fate come me». Parole che risuonano come un campanello d’allerta, un ammonimento a coloro che cercano l’estasi nei luoghi più bui, a chi scambia la bellezza tra le righe di una vita perennemente in bilico.

Così, mentre l’ombra del talento si allunga sull’ultimo respiro, George Best rimane un simbolo, una metafora della nostra fragile esistenza. Un ricordo che danza nel cuore della poesia e della filosofia, invitandoci a riflettere sull’essenza del genio, sull’esistenza imperfetta che tutti viviamo: «Non fate come me» appunto.

Best e la sua vita fuori dal campo: decisamente sregolata…

La vita di George Best è stata una poesia scritta nel fango e nel vino; tragedia e trionfo si intrecciavano nel suo vivere errante, mentre le sue scarpe da calcio si graffiavano sull’erba di un mondo che non sarebbe mai riuscito a contenerlo. La sua esistenza divenne un canto di sirene, richiamando anime affini e perdute, un inno alla libertà e al dissenso, ma anche una discesa inesorabile in un abisso di eccessi. Giocatore di football, amante della notte, icona di stile, Best ha sfidato la società e se stesso, tra luci sfavillanti e ombre avvolgenti.

A cavallo tra la vita e la sua rappresentazione, George non era solo un atleta; era un simbolo, come il vento che passa tra i boschi delle sue origini. Un’anima che, come i poeti beatnik, abbracciava il suo diritto di esistere nel caos, di esplorare le fragilità dell’essere con il coraggio di chi sa di vivere nell’istante. La sua fama divenne un boomerang, che tornava insieme a promesse spezzate e sogni infranti.

E così come i poeti della corrente beat si susseguivano una rima dopo l’altra in un ritmo sincopato, Best scrisse la sua storia con gesti audaci, con il pallone che divenne un prolungamento della sua anima. In quel suo esistere, in quel suo respirare il calcio come un ossigeno di libertà, risuonano le parole di Allen Ginsberg, che ebbe a dire: «Non voglio politici, voglio poeti». E così, nell’eco della sua leggenda, George Best rimarrà eterno, un poeta del calcio in un campo di battaglia che ha sempre onorato l’arte del vivere intensamente.

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