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Siniša Mihajlović, la coerenza e l’integrità di un guerriero vero

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Se dovessimo qualificare Siniša Mihajlović per tante cose che ha detto e per altre che ha lasciato intendere avremmo di lui una percezione verosimile ma parziale, per certi versi equivoca. E sembra paradossale, perché in vita lui tutto è stato fuorché una persona ambigua o reticente. Anzi, anche troppo diretta, senza porre un confine fra essere sinceri e brutalità. È più che altro un problema di codici, di retaggi culturali, di categorie di pensiero. In un mondo, quello balcanico, che nell’equivoco vive fin dalla notte dei tempi, fondendo e confondendo fede religiosa, mito, mistica del martirio e retorica del guerriero al servizio della patria. E come molti popoli portati a sentirsi vittima della storia, poi pronti a tutto. Perché a quel punto si è pienamente dentro l’ingovernabile emotivo.

Al di là del muro

Nascere alla fine degli anni sessanta nel territorio che va dall’Adriatico ai Balcani significa essere jugoslavi a pieno titolo. Dal 1945 Josip Broz, meglio conosciuto come Tito, ha unito con pugno di ferro sei popoli sotto la bandiera di una Repubblica Federale Socialista. Nascere proprio a Vukovar, al confine fra le attuali Serbia e Croazia, significa trovarsi in un crogiuolo di situazioni. Situazioni ancora gestibili in quella fase storica, ma all’interno delle quali ognuno opera i propri “distinguo”. La convivenza non è un problema, i cosiddetti matrimoni misti neppure, ma già allora ci si sente prima serbi, croati ecc., poi jugoslavi. Il punto è che certe cose non si possono dire in pubblico. La distinzione etnica è reato grave ma certi concetti serpeggiano da sempre. Il sentimento jugoslavo è politicamente forte, sentimentalmente debole. La stessa famiglia Mihajlović è il risultato di un matrimonio misto: il signor Bogdan è serbo, la signora Viktorija è croata. I figli Dražen e Siniša sono, in modo un po’ sbrigativo, jugoslavi ma non è così semplice. Essere “50 e 50” è arricchimento personale, incrocio di culture, ma è anche eterno bivio. Cosa essere? Chi essere? Se anche scegli, martirizzi la metà di te stesso. Ed è inevitabile. Serbi e croati parlano una lingua simile ma anche diversa, pregano un Dio differente, vivono storie dissimili. Nemmeno le dominazioni che hanno subito nel corso dei secoli sono in sostanza le stesse. All’interno di un mondo particolare, è un eterno fare i conti con “l’altra parte di sé”. Le virtù teologali non sono fede, speranza e carità ma onore, fedeltà, rispetto e ognuno le interpreta a modo suo. Sinisa si sente serbo, è serbo e lo sarà sempre. Tuttavia non può dimenticare legami di sangue che sono veri ovunque, a Vukovar un po’ più veri che altrove. La città è secondo alcuni linguisticamente croata, geograficamente serba ma c’è anche chi nello specifico invertirebbe definizioni e avverbi. Lo sport è lo strumento più diretto per definire il campo. Il giovane Siniša sogna la maglia della Crvena Zvezda (Stella Rossa) di Belgrado e non ne fa mistero fin da ragazzino: a certe latitudini, appartenere equivale a essere ma la proprietà può essere benissimo simmetrica.

L’amico di Arkan

Negli anni in cui è un calciatore della Stella Rossa Mihajlović è il fulcro del gioco. Jugović è metronomo e intelligenza organizzativa, Siniša è forza centrifuga. I lanci accorciano il campo, le conclusioni a rete cambiano spesso il risultato della partita. Ma si dà il caso che la Zvezda non sia soltanto una squadra e che dietro le quinte non lavori soltanto uno staff che pensa al pallone in esclusiva. A fine anni ‘80 la diaspora jugoslava non è più un concetto tabù e i cori dei tifosi dicono quello che in realtà la politica pensa. Željko Ražnatović, meglio conosciuto come “Arkan” è un criminale di grande talento. All’interno della società ha un peso sempre più forte. Parla e agisce per conto del presidente serbo Slobodan Milošević. Arkan vuole una Stella Rossa forte e una Serbia ancor più forte. In nome della patria non esistono regole. Mihajlović ne ha stima, i due parlano un linguaggio poco decifrabile per una sensibilità occidentale, ma loro occidentali non sono e si capiscono al volo. Il centrocampista è amico della persona e del patriota, non del malvivente. Così dice, così ha sempre detto. Per noi è complicato distinguere, è questione di codici e prospettive. Per tentare di mettere a fuoco serve un passo indietro. Belgrado, inverno 1989. Una strana figura, con un’aria da boss della malavita, ha appena varcato per la prima volta i cancelli dello stadio della Stella Rossa. Il comunismo è all’ultimo atto. Pochi mesi e il Muro di Berlino verrà abbattuto senza intervento militare. I Paesi del Patto di Varsavia stanno tagliando i fili che li hanno tenuti legati all’Unione Sovietica. La stessa URSS ha il tempo contato e si frammenterà nella somma delle singole parti che l’avevano composta. In Jugoslavia la nuova fase politica si svilupperà in modo non pacifico.

Il comandante Arkan

Il passaggio a una forma embrionale di democrazia e di libero mercato avverrà in maniera traumatica rivelando il vero volto della classe politica che rappresenta la nazione. L’inquietante figura che entra con aria da rockstar si chiama Željko Ražnatović, ma è noto come Arkan. L’uomo sta per compiere 37 anni e nella Capitale slava è figura famigerata e temutissima. C’è un alone di leggenda intorno a lui. Quel che si dice mette spavento e da principio non si capisce cosa possa avere a che fare con il calcio un personaggio che ha acquisito fama e ricchezza grazie a rapine, a speculazioni di ogni tipo e a lavori sporchi per i servizi segreti del suo Paese. Ingenuità forse, ma chi può immaginare a che cosa il calcio si dovrà prestare negli anni a venire. La Stella Rossa di Belgrado rappresenta a livello sportivo il potere centrale che da oltre 40 anni sottomette, secondo l’opinione generale, le realtà che compongono il mosaico jugoslavo. È la squadra più famosa e più titolata del Paese. Ad Arkan viene fatta una richiesta specifica: riorganizzare il tifo in una formazione paramilitare (le famigerate Tigri di Arkan), presto quelle forze entreranno in azione. Nessun dissenso sarà consentito, volontà superiore. Nel 1991 la squadra di Belgrado vince la Coppa dei Campioni, poi anche l’Intercontinentale. Al ritorno, Arkan attende i giocatori all’aeroporto. Per sentito ringraziamento regala a tutti una zolla di terra della Slavonia (zona di confine con la Croazia), con una promessa: presto l’avrete tutta, la Slavonia. I venti di guerra stanno per diventare un tornado. Tra Vukovar e la Slavonia è questione di chilometri, neppure tanti. In teoria per Mihajlović quella dovrebbe essere una notizia inquietante. Applaude. Dirà anni dopo:

«Voi parlate di atrocità, ma non c’eravate. Io sono nato a Vukovar, i serbi sono minoranza. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni ha vissuto insieme da un giorno all’ altro si sparava addosso. Arkan venne a difendere i serbi in Croazia. I suoi crimini di guerra non sono giustificabili, sono orribili, ma cosa c’è di non orribile in una guerra civile?».

Siniša Mihajlović

Il sangue del proprio sangue

La guerra avrà un impatto devastante per il centrocampista della Stella Rossa. Dall’oggi al domani il legame di sangue non ha più senso. Ci si uccide o ci si salva solo in base all’appartenenza. Lo zio croato di Siniša vorrebbe fare a pezzi suo cognato serbo. I miliziani di Arkan lo prendono e stanno per ucciderlo, Siniša intercede e malgrado tutto lo salva. Mihajlović riesce poi a scampare a un attentato, gliel’ha organizzato un caro amico croato d’infanzia. La casa viene distrutta, tutti i trofei del campione sono presi a colpi di mitra senza un filo di rispetto. La lacerazione psichica del calciatore è evidente ma lo salva dalla follia l’obbedienza a una logica che non possiamo apprezzare e nemmeno ripercorrere fino in fondo. Essere arrivato a giocare in Italia non è un lenire le ferite né tantomeno una fuga. Un uomo degno, un serbo, un patriota non fugge e la coerenza con sé stessi ha un costo. Essere simpatici è un optional.

«So dei crimini attribuiti a Milošević, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».

Siniša Mihajlović

In fondo gli americani si definiscono in termini molto simili (My country, right or wrong) e non sono poi in molti a scandalizzarsene. Nemmeno sull’amicizia con Arkan Mihajlović si è mai contraddetto o ha mai ritrattato. Le parole del diretto interessato non vanno apprezzate per la coerenza, né giustificate per la qualità del sentimento come noi lo intenderemmo. È bene capirle come espressione di una mentalità che forse è giusta, forse è sbagliata ma di sicuro è quella e non viene mai meno a sé stessa: 

«Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli Ultrà della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco, né li rinnego».

Siniša Mihajlović

Onore, fedeltà, rispetto. Con un taglio un po’ particolare, ma quelli restano.

Trionfo di Mihajlovic alla Stella Rossa

Codici e sottocodici

Nella loro lingua i serbi si definiscono nebeski narod (il popolo celeste). Concetto che coinvolge un rapporto speciale con la spiritualità. Ma spesso questa non impedisce il compimento del male, anzi. Nel 1989 Slobodan Milošević diventa Presidente del suo Paese. Una volta al potere, egli presenta il messaggio nazionalista come un preciso programma di governo e subito fa piazza pulita dei vecchi miti comunisti, presentando Tito come il principale traditore del popolo serbo. Come entità politica, secondo lui la Jugoslavia ormai non ha più senso:

«Meritiamo il nostro posto nella storia. Siamo stati vittime per troppo tempo. Il nostro tempo è giunto».

Slobodan Milošević

Vittimismo è parente stretto di martirio, in una dimensione celeste. Sacrificarsi oggi, morire oggi per risorgere più grandi di prima, perché ogni cosa è scritta. In quella realtà di riferimento mondo laico, politica e chiesa ufficiale la pensano alla stessa maniera. Sfumature e livelli culturali, ma lì siamo. Un sentire profondo che si fa spirito condiviso. Il punto è che nel corso della storia quel sentire può farsi categoria dello spirito e poi azione concreta. Senza limiti etici e con mille possibili autogiustificazioni. Non è un bene, ma se non comprendiamo un sentimento di questa portata emotiva, non possiamo neppure contestualizzare le parole, le prese di posizione e la rude ma sempre verace umanità di Siniša Mihajlović (1969-2022).

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