Qualche giorno fa, davanti a un aperitivo rosso e delizioso, un amico mi ha chiesto: «Qual è stato per te il più grande allenatore di tutti i tempi?». Questa è la tipica domanda che si fa a un vecchio calciofilo come me, soprattutto vecchio, come se l’aver visto più partite e attraversato più epoche desse una qualche patente di autorevolezza e credibilità. Io, che oltre a essere anziano sono anche leggermente perfido, ho rilanciato depistando: «Compresi i contemporanei?». E, al suo convinto «Certo!» con il profilo del Pep in una pupilla e quello di Bielsa nell’altra, ho ribattuto pronto: «Helenio Herrera, senza il minimo dubbio». Al suo: «E perché mai?» forse più stizzito che stupito, ho spiegato paziente che il franco argentino, oltre ad aver vinto un sacco di trofei, è stato l’inventore di moltissimi ruoli che prima non esistevano: mediano di spinta, ala tornante, terzino fluidificante, chiudendo la conversazione soddisfatto e convinto di aver vinto a mani basse il confronto. E invece… Sono state le successive riflessioni che, ripensando a quel quasi banale episodio, mi hanno indotto a schiarirmi ulteriormente le idee. E che cosa c’è di meglio che farlo scrivendo sull’argomento un pezzo per Game of Goals?
La risposta che ho dato all’amico, parto da qui, è stata tanto pertinente e motivata quanto immensamente parziale e incompleta. Due premesse: la prima è che Herrera, non a caso, era chiamato Il Mago o, più semplicemente Mago. Nello sport e in tutti gli altri settori della vita e dello scibile non esiste, è vero, un epiteto più usato, più consueto. Ma in tutti gli altri casi, dicasi tutti!, quella parola bisillaba deve essere necessariamente seguita da un complimento di specificazione, da un genitivo sassone o latino che sia. Ecco allora il Mago di, il Mago del, o il Mago seguito da un nome proprio.
Helenio Herrera era ed è tuttora Il Mago senza fronzoli, specifiche e ulteriori precisazioni, come non fossero passati quasi trent’anni dalla sua scomparsa e oltre quaranta dalla sua ultima panchina, a Barcellona. La seconda premessa, oramai quasi scontata per chi frequenta le nostre pagine, è che io non amo le classifiche: tollero solo in quanto necessarie quelle aritmetiche, anche se su di esse si potrebbero aprire dibattiti dagli scenari impensabili sui valori da dare alle singole vittorie e ai pareggi, quando contemplati, sia nei campionati di scontri a coppie (calcio, basket, ecc,) sia nelle competizioni a raffronto (coppe di sci, motorismo ecc). Tollero a malapena queste, figurarsi le altre. Quelle basate su giudizi soggettivi, opinabili, affatto misurabili e non solo in senso ingegneristico, ma anche culturale, sociale, perfino etico.
Tutto questo è vero e pure condivisibile, o almeno spero lo sia. Rimane il problema del giudizio di valore, sia esso confrontabile o meno. Detta in altre parole, perché a me è venuto spontaneo rispondere a quella domanda: Helenio Herrera? Le ragioni che ho già citato sono plausibili? Sì, lo sono, ma in senso relativo, non assoluto. E se accettiamo questo limite, e qui veniamo al punto, è forse possibile individuare un elenco di categorie (se fossimo studenti sarebbero materie) in ognuna delle quali potremmo trovare un prim’attore, un campione, un modello da imitare. Per il Mago, per esempio, abbiamo parlato dell’invenzione di ruoli che, ironia dei tempi, per altro nel calcio di oggi non esistono più, essendo stati modificati e stravolti, come vedremo tra un attimo, dalla proliferazione degli schemi.
Prima di accingermi a cercare quali possano essere le altre categorie di valutazione, però, altre due precisazioni: primo, altri nomi non ne farò anche in ossequio ai principi già espressi; secondo, ci sono state due grandi rivoluzioni nel mondo del calcio recente che, se da un lato moltiplicano le categorie, dall’altra rendono proprio impossibili raffronti tra operatori in epoche diverse. La prima di queste rivoluzioni riguarda il rapporto tra numero di giocatori e ruoli, appunto. Fino a non molto tempo fa c’era corrispondenza, si giocava in undici e c’erano undici ruoli, definibili perfino dagli undici numeri. Forse proprio da HH in poi, questi ruoli si sono moltiplicati anche in base allo schema adottato, mentre, come è ovvio, si gioca sempre in undici.
La seconda rivoluzione, ancora più eclatante, riguarda la possibilità di sostituire giocatori. All’inizio, trattandosi solo del portiere, questa era solo una piccola riforma, poi, estendendo il numero progressivamente, è diventata un grande rimescolamento di carte. Poi, durante l’emergenza Covid, arrivando alle attuali cinque sostituzioni, si è compiuta la vera rivoluzione. Che ha risvolti tattici, agonistici e gestionali, moltiplicando tutte le varianti in gioco.
Detto per inciso che il prossimo passo potrebbe essere, per esempio, l’introduzione delle sostituzioni non definitive, come nel basket, si capisce bene quanto poco o per nulla siano raffrontabili due allenatori, uno dei quali, per esempio, doveva giocare con undici o forse anche tredici elementi e l’altro che possa invece cambiare metà squadra di movimento scegliendo, per soprammercato, tra una rosa in panchina di dieci e più. Diventano quasi, ecco il punto, quelle di questi allenatori due mansioni diverse, attigue ma divergenti. O, come appunto vedremo, due categorie.
Non credo che le altre modifiche di regolamento o di atteggiamento in campo, anche pesanti e innovative (vedasi la proliferazione delle varie marcature a zona), abbiano cambiato il lavoro dell’allenatore come le due prese in considerazione per cui, a questo punto, possiamo provare a stilare una serie di diversi ambiti in cui scegliere, per ognuno, il migliore, il top.
Archiviato, assegnandone anche la corona del primato ad HH, quello dell’invenzione e moltiplicazione dei ruoli, eccone altri in rapida successione:
- Gestione del gruppo. Oggi le rose sono composte da venticinque/trenta elementi e saper tenerli tutti sotto pressione in modo siano pronti all’occorrenza è una dote certo non comune
- Resa del gruppo. Anche la capacità di ottenere un ottimo rapporto tra livello tecnico medio del gruppo e il suo rendimento in campo può essere un valido criterio di valutazione
- Gestione del valore. Una rosa di grande livello o ricca di giocatori di spessore richiede una particolare abilità nel calibrare coesistenze e nello smussare attriti da rivalità
- Capacità nel migliorare un calciatore. Molto spesso i giocatori di età non giovanissima sono convinti di essere già giunti alla maturazione e specialmente quelli di talento sono sicuri di non poter più migliorare. Riuscire invece a farlo non è da tutti
- Capacità nel cambiare ruolo a un giocatore. È evidente che, in questo caso, la disponibilità collaborativa del calciatore è presupposto fondamentale, ma la autorevolezza comunicativa, senza essere coercitiva, del tecnico diventa valore assoluto
- Capacità di misurarsi anche in funzioni inaspettate. Capita agli allenatori, per scelta o per imprevisto agonistico, di dover gareggiare per obiettivi inattesi, spesso al ribasso. Non tutti, anche tra i più celebrati, riescono ad adattarsi
- Capacità di modifica del proprio status. C’è una grande di differenza tra guidare un club e una rappresentativa nazionale. Molti tra i più bravi hanno scelto di cimentarsi soltanto nell’una funzione o nell’altra. Qualcuno si è invece misurato in entrambe con risultati sorprendenti in ambo i sensi.
- Capacità di modifiche tattiche durante la gara. Sia per capacità di cambiamento di assetto per chi è già in campo sia attraverso il ricorso a cambi dalla panchina, questa è una dote che merita una menzione indipendente.
Ci sono poi altri criteri di parametro che possono effettivamente, a mio modesto avviso, concorrere a definire lo spessore di un allenatore. Anche qui, propongo un breve elenco: duttilità, empatia, capacità comunicativa, senso di protezione del gruppo, umiltà e capacità di distribuire i meriti, umiltà e capacità di imparare ancora. Queste caratteristiche, ripeto e specifico meglio, non costituiscono delle categorie dove qualcuno possa eccellere, ma parametri di giudizio, appunto, afferibili a tutti gli ambiti elencati in precedenza.
Chiudo con un parallelo che avevo pensato, quando di quello mi occupavo, per il mondo a spicchi del basket, ma che è applicabile anche in quello del calcio e con un aneddoto, sempre dello stesso ambito, che mi sembra molto attinente. Il parallelo è tra il Coach, o il Mister, e i grandi cuochi e come c’è lo chef che non si mette in cucina senza ingredienti di eccelsa qualità, così c’è quello che con gli avanzi o quello che trova in casa, anche di povero o banale, è capace di creare un capolavoro. Il raffronto con i tecnici degli sport suddetti diventa quasi scontato. Il secondo, invece, appartiene alla sfera delle esperienze vissute e risale a parecchi anni fa. La Società di cui ero addetto stampa aveva come coach un personaggio illustre, che dietro le quinte avevamo soprannominato “il Pedreterno”..
Egli, quando la squadra vinceva, si presentava a microfoni e taccuini spiegando come avesse vinto la gara con mosse azzeccate e studiando le giusta marcature per neutralizzare i funambolici avversari. Quando viceversa si perdeva, il lamento per le consegne non rispettate e per la inutilità delle parole quando le orecchie e il cervello di chi va in campo sono chiuse allagava tutta la sala stampa.
Insomma, merito mio e colpa loro. Vi ricorda qualcuno?