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Ernst Happel, il gitano nobile

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All’inizio di quest’anno, proprio per questo magazine, ho scritto un pezzo sugli allenatori di calcio e sulle varie voci che devono essere consultate per dare un giudizio su di essi. Ora è venuto il momento di occuparci da vicino di quelle figure tra di loro che possono essere annoverate tra i più grandi, tra i migliori. E ci piace iniziare questa carrellata da un tecnico forse poco conosciuto in Italia, ma che probabilmente, se volessimo dare un punteggio per ognuna delle voci di cui sopra, risulterebbe il migliore in assoluto.

Sto riferendomi a Ernst Happel, allenatore di nascita e scuola austriaca, ma che ha vinto ovunque sia stato e che ha insegnato a giocare, o a giocare in modo diverso da prima, a decine di calciatori di ogni nazionalità, almeno europea.

Data la sua versatilità, spesso vista stranamente come rigidità, e il suo spirito di adattamento alle diverse abitudini e latitudini, era considerato un nomade, uno zingaro del calcio, mentre invece la sua cultura e la sua profonda radice, più austroungarica che teutonica, non lo hanno mai abbandonato. Ma solo una persona spaventosamente intelligente come lui poteva usare quelle basi solidissime non con un semplice e ferreo rispetto, ma come risorsa da utilizzare e plasmare, da migliorare e rendere, non sto esagerando credetemi, patrimonio culturale sportivo.

Happel, che era stato un ottimo difensore soprattutto del Rapid Vienna, appese le scarpe al chiodo trentacinquenne alla fine degli anni cinquanta e, dopo sole tre stagioni, nel ’62, cominciò ad allenare in Olanda, nell’ADO Den Haag. Come consueto, non mi soffermerò, se non laddove sia strettamente necessario, sulle note biografiche private e sportive, rimandando gli eventuali interessati a consultare i siti specializzati in tal senso. Mi limiterò quindi, ancora una volta, a cercare di cogliere e trasmettere l’essenza della grandezza di questo straordinario personaggio attraverso spunti e approfondimenti e cercando di leggerne i segreti e le trovate, le cosiddette innovazioni.

Per fare ciò, senza nascondere le difficoltà, contestualizziamo intanto la sua carriera, i fatti e le opere, come dicono i saggi e i saggisti. Siamo, nel 1962, in uno dei periodi più inconsapevolmente fiorenti, ma pure drammatici, della storia recente dell’umanità, una vera pentola che sobbolle. Due eventi per tutti: il Vietnam e il ’68, un ossimoro irrisolvibile e foriero di infinite atrocità come di infinita bellezza. Anche nel mondo del calcio, quel periodo è un’anticamera affollata di preziosità, alcune delle quali si sono appena affacciate, come Pelé o Rivera, altre stanno sbocciando come l’Inter di HH o il Peñarol di Spencer, altre ancora stanno finendo gli studi come i giovani tulipani o i gauchos di nuova generazione.

E in tutta questa eccellente e promettente confusione, cosa ci fa un luterano figlio di austroungarici nella terra dei Provos, i proto contestatori che saranno i padri dei figli dei fiori? E che pertanto, essendo quindi loro i fiori, non potevano che essere olandesi? Che cosa ci fa uno che avrà senz’altro pianto nella finale Germania Ovest-Ungheria del ’54, ma non è dato sapere se di rabbia o di gioia, che ci fa costui nella culla della nuova trasgressione, morale, civile e sportiva? La risposta è semplice, anche se è la meno attesa: Ernst Happel di quella rivoluzione sarà, assieme a Rinus Michels e forse più di lui, uno dei grandi pilastri.

Tutti sanno che quel calcio olandese che avrebbe divertito, stupito e fatto innamorare il mondo del pallone, oltre che a cambiarlo in modo definitivo, è passato alla storia come ‘calcio totale’, ma pochi sanno che la prima volta che fu usata questa espressione fu nella primavera del ’68, quando il piccolo Den Haag con Happel in panchina vinse la coppa d’Olanda contro l’Ajax di Michels tra la sorpresa e l’incredulità generale. Tra i lancieri militava già gente come Cruijff, Keizer, Hulshoff e Suurbier, mica noccioline…

«Un giorno senza calcio è un giorno inutile»

Ernst Happel

Il ‘calcio totale’ era quello di quei ragazzotti di periferia che avevano mandato in confusione il Signor Rinus! Detto che l’influenza di quelle intuizioni del tecnico austriaco si sente ancora, specialmente in Europa, ai giorni nostri, forse non è del tutto peregrino tentare di spiegare, senza essere né tecnici né preparatori, in cosa consistesse questo ‘calcio totale’. Negli anni questa allocuzione ha avuto diverse declinazioni e molteplici interpretazioni e il proliferare di queste ultime, tra l’altro, è alla base di tutte quelle varianti, quelle riletture e quelle evoluzioni di cui si parlava prima e che rendono quasi tutti gli allenatori in voga ieri e oggi, anche i più apprezzati, debitori nei confronti di Happel.

Tornando al dunque, il ‘calcio totale’ è, mio parere, la sintesi di due concetti: il campo come spazio da occupare e il possesso del gioco. In questo modo il ruolo del singolo giocatore si libera dal vincolo, sia funzionale che posizionale e, in un modo mutuato più dal rugby che dal basket, diventa la squadra a muoversi sul terreno, a portare avanti la palla e a comprimere gli avversari. E la novità gigantesca di questo modo di attaccare è, quasi un controsenso, il passaggio indietro. Un risucchio di logica che spiazza gli avversari e li costringe ad aver paura di tutto.

Happel al Mondiale 1978

Qual è allora, stando così le cose, sia pure schematicamente, il pericolo mortale? Perdere il possesso durante l’avanzata. Ciò che si chiamava contropiede e si chiama ripartenza. La contromossa di Happel, perfezionata poi dallo stesso Michels (che del ‘nemico’ divenne grande estimatore), era di correre, correre, correre. All’indietro, ovviamente. I concetti di transizione negativa (o difensiva), questo sì rubato al basket, o di marcatura preventiva, erano di là da venire, mentre un altro grande seguace, forse mai confesso, dell’immenso Ernst, Arrigo Sacchi, ricorse allo stratagemma del fuorigioco attivo, di cui abbiamo più volte parlato.

Dopo quella prima e già straordinaria esperienza al Den Haag, la carriera di questo gitano nobile e vizioso, tremendo e dolcissimo, ha toccato vertici inimmaginabili ovunque abbia operato, aggiungendo alle doti che già possedeva quelle preziose e rare della discrezione e, soprattutto, della duttilità. Mai alla ribalta e mai essere troppo legato a se stesso a ciò che gli ha permesso di trionfare. Ed è così che oltre a vincere tutto, o quasi, dappertutto, o quasi, Happel l’ha fatto giocando in mille modi diversi.

A uomo, a zona, con il calcio totale e quello parziale, attaccando come un forsennato o barricandosi là dietro. Ha cucinato, riprendendo un paragone già descritto, con quello che trovava nelle case dove lo chiamavano, ma lasciando sempre tutti a bocca aperta. E gli hanno anche sottratto, probabilmente per inconfessabili motivi politici, la vittoria più prestigiosa, alla guida degli Orange nell’Argentina del ’78.

La partita più importante però ha voluto perderla lui, non potendo rinunciare al vizio. Ma nessuno poteva veramente batterlo. Gliela hanno sospesa a 67 anni. Per fumo.

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