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Un Capo sulla A4: vita e miracoli di Nereo Rocco

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L’oblio è la cantina della memoria ed è diverso della dimenticanza che spesso è un depistaggio o un deragliamento. Nel caso di un personaggio come Nereo Rocco, però, ambedue questi vocaboli paiono addirittura inadeguati per difetto. El Paròn, epiteto con il quale tutti i calciofili fanno riferimento a questo grande allenatore e che ha a sua volta una curiosità di cui parleremo, è stato infatti rapidamente accantonato e quasi rimosso, ecco il termine esatto, da molti cultori della Storia del calcio moderno.

Viene ricordato, infatti, più come personaggio, addirittura quasi come macchietta o icona comica, che come allenatore capace di salvare piccole squadre o di assurgere con loro a posizioni inimmaginabili, ma anche di portare una squadra di rango come il Milan a vincere Campionati e Coppe a ripetizione. Tra cui, cosa che non viene mai sottolineata abbastanza, la prima Coppa dei Campioni vinta da una squadra italiana, il Milan appunto, nel 1963. A lui si attribuiscono più battute salaci che vittorie sul campo, più trovate difensivistiche come il ‘catenaccio’ che preziose intuizioni offensive come quella che ha fatto sbocciare il genio di Rivera, più bonari battibecchi con il Mago che lezioni di stile e misura.

Rivera e Rocco

Un’altra circostanza importante che non molti sanno è che Rocco, triestino di facoltosa famiglia viennese e quindi italiano per caso, è stato l’allenatore con più presenze in Serie A dopo Carletto Mazzone e, non superato nemmeno dal ben più osannato Arrigo Sacchi, ancora oggi è il più vincente della società rossonera. La sua carriera nella massima divisione è durata trent’anni, dall’esordio con la Triestina nel ’47 all’ultima guida nel ’77 in quel Milan da cui provò anche a staccarsi due volte, prima per il Toro e poi a Firenze, senza mai riuscirci. Chi invece riuscì a staccarlo da quei colori e da tutti noi, fu una malattia che lo spense nel ’79 a soli 67 anni.

Come già ricordato, i numeri della sua carriera sono già impressionanti così, ma se pensiamo a quale quota avrebbero potuto raggiungere… Nereo Roch, italianizzato in Rocco dal fascismo nel ’25 ed essendo quello di iscriversi al Partito Fascista l’unico modo per poter continuare a lavorare per la sua famiglia, ha regalato al calcio italiano l’operato di un uomo schietto e sincero, burbero e bonario, un po’ Don Camillo e un po’ Peppone, un po’ cuoco di trattoria e un po’ gran Gourmet, un po’ baciapile e un po’ camallo.

Herrera e Rocco: rivali a Milano

Il suo percorso professionale è stato luminoso e ha curiosamente percorso interamente da est verso ovest tutta la A4, iniziando da Trieste, proseguendo per Padova per approdare sui Navigli di sponda rossonera per raggiungere infine la Torino granata. Uniche varianti di questo viaggio autostradale e orizzontale sono i continui ritorni a Milano e una veloce digressione per la Viola fiorentina.

Ed è curioso, come si diceva, che il suo soprannome, Paròn o El Paròn, di chiara inflessione triveneta, abbia una diversa, anche se sottile, interpretazione nell’accezione giuliana o in quella patavina. A Trieste indica infatti direttamente il padrone inteso come proprietario o responsabile, mentre nella provincia veneta il termine significa ‘capo’, direttore. Io ogni caso quest’uomo di buona corporatura e con la faccia di zio di campagna con tanto di immancabile Borsalino per le giornate di festa, domeniche in campo comprese, il suo dovere di vincente per contratto, classifiche alla mano, l’ha compiuto sempre, fin dagli esordi e fino all’ultimo incarico. Molto spesso, andando anche molto oltre le aspettative.

Come nella sua Trieste nel ’47 al suo primo incarico, culminato con un pazzesco secondo posto dietro il Grande Torino o come, qualche stagione dopo a Padova, dove portò i biancoscudati dalla Serie B al terzo posto in A, giocando quello che molti osservatori definirono, facendolo sempre imbestialire, il ‘catenaccio’. Si trattava ovviamente di un gioco chiuso con una difesa a bunker e con rinvii, se intercettata la palla, a casaccio e senza troppe velleità di controffensiva. Molte espressioni, usate ancora oggi anche nella vita comune, derivano da quel modo di giocare.

Dalle più gentili, come ‘palla in tribuna’ per significare appunto la respinta purchessia, alle più becere, del tipo ‘gamba o balòn’ per invitare il difensore all’intervento senza badare troppo per il sottile. Il fatto che questa seconda espressione sia in veneto, ha indotto molti a ritenere che la paternità possa essere del Paròn Rocco, ma non c’è nessuna prova a supporto di ciò. Certamente sua è invece una frase celebre e risalente al tempo in cui allenava a Padova. All’Appiani i locali avrebbero incontrato la Juventus e Rocco concesse un’intervista TV a pochi minuti dal fischio d’inizio. Il telecronista Rai concluse il collegamento con il consueto cerchiobottista: ‘Vinca il migliore!’, allorché Rocco, strappando quasi il microfono, fece in tempo ad aggiungere: ‘Speremo de no!’

Grandissimo, Nereo! Quegli anni in riva al Brenta, convinsero gli squadroni, come appunto il Milan, ma anche la Federazione che non fosse solo un allenatore da compagini di bassa classifica portate magari a compiere sporadici exploit, ma che potesse gestire brillantemente e con successo anche gruppi più ambiziosi. Il suo passaggio dalla provincia calcistica alla grande metropoli è stata inframmezzata dall’esperienza alla guida della Nazionale Giovanile alle Olimpiadi romane del’60, rappresentativa di cui facevano parte giocatori, ancora dilettanti, come Rivera, Burgnich, Trapattoni, Bulgarelli e Salvadore. Detto per inciso, quell’Italia si piazzò quarta, eliminata in semifinale dalla Jugoslavia, poi medaglia d’oro.

 «Vinca il migliore! Ciò, speremo de no»

Celebre frase di Nereo Rocco in risposta a un giornalista

La cosa curiosa, molto curiosa, è che quella semifinale finì 1-1 dopo i tempi supplementari e che gli slavi passarono il turno per sorteggio e che esattamente dieci anni dopo, semifinale europea contro i sovietici su quello stesso campo, la monetina avrebbe arriso a noi. Ma in tutto ciò Rocco non avrebbe avuto alcun ruolo, se non quello di fornire diversi rossoneri ai Commissari Tecnici della Nazionale Azzurra.

Il suo Milan infatti, abbandonato il catenaccio almeno in Italia, ha mietuto sotto la sua guida, come allenatore affiancato da Gipo Viani e come direttore tecnico, in panchina ma con Cesare Maldini come trainer, una messe incredibile di successi, sia in Italia che in Europa. Tutto ciò senza che lui perdesse, borsalino in testa e bicer de vin in man, la sua filosofia un po’ campagnola e il suo buonumore dai pomelli rossi. Ed è di quegli anni un’altra sua frase celebre a proposito degli introiti dei calciatori: ‘Entro nello spogliatoio dei ragazzi a fine allenamento e mi sembra di essere un intruso in un CDA di una grande banca’.

Uscito dalla ribalta, prematuramente e quasi improvvisamente nel ’77 dal calcio e nel ’79 da questo mondo, di Nereo Rocco si è parlato, colpevolmente, pochissimo. O comunque troppo poco in ragione dei successi, ma anche della duttilità e della capacità di trasmettere grinta e abnegazione alle proprie squadre. Forse non è un caso che solo la parte orientale della A4 si sia sentita in dovere di intitolargli qualcosa di duraturo: Nereo Rocco è lo stadio in cui gioca la sua Triestina e nella via che porta il suo nome sorge lo stadio Euganeo del suo Padova.

Così sono le memorie, le dimenticanze, gli oblii, e pure le rimozioni. Ma se ci fosse un referendum per stabilire chi sia stato nel secolo scorso il miglior allenatore italiano, a chiunque esclamasse ‘Vinca il migliore!’, replicherei pensando a lui: ‘Speremo de sì’.

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