Stiamo attraversando un periodo molto intenso e particolare nel mondo degli allenatori di calcio che hanno già raggiunto la fama o di quelli emergenti che hanno già attirato le luci dell’attenzione generale. Un periodo ricco anche di rivolgimenti inattesi, rinunce improvvise e fibrillazioni interessanti che, oltretutto alla vigilia degli Europei, crea una curiosità quasi spasmodica intorno a carriere in evoluzione o in parabola discendente e panchine prestigiose in tutto il continente e non solo. E noi che siamo, per vizio o virtù, attratti da sempre dalle novità tecniche, specialmente quelle capaci di rivoluzionare abitudini e modi di pensare, stiamo alla finestra interessati come non mai.
Il panorama è, si diceva, oltremodo vario tra ‘santoni’ disoccupati ma scalpitanti, come Conte, Zidane o il ‘tagliato’ (in tutti i sensi…) Mourinho, quelli che hanno già annunciato l’abbandono del posto attuale, come Klopp a Liverpool da una vita o Tuchel a Monaco di Baviera dove non ha quagliato o ancora Xavi che si sente estraneo(!!) a Barcellona, tra giovani in fortissima ascesa come Xabi Alonso capace di triturare il Bayern in Bundesliga con il suo magico Leverkusen, come Miguel Angel Sanchez Munoz che, oltre ad avere un elenco telefonico al posto del nome, ha fatto vedere i sorci verdi al Real a lungo in Spagna, come De Zerbi in Premier, capace di riportare in alto una squadra come il Brighton o come Thiago Motta da noi, che riesce a condurre, dopo secoli di anonimato, il Bologna in zona Champions. O anche come il quasi esordiente De Rossi che, dopo un esordio balbettante in giro per la penisola, con la Roma, a casa sua, sta rimpiazzando un deludente Mou ottenendo una media punti impressionante. O, rimanendo a casa nostra, i Palladino e i Gilardino che, con compagini ritenute alquanto modeste, viaggiano in campionato a quote molto lontane dalle zone a rischio. O, infine, come Ivan Juric che forse però, a questo punto, è da considerarsi un’eterna promessa mai del tutto sbocciata. Ma è ancora, beato lui, piuttosto giovane…
Per non parlare poi, tanto per fare anche un po’ di sciovinismo, del nugolo di allenatori italiani che si stanno facendo onore all’estero. Oltre all’ormai monumentale Carlo Ancelotti a Madrid, certamente fuori dalla lista degli emergenti, e al già citato Roberto De Zerbi in terra inglese, non possiamo esimerci dal citare un gruppo di tecnici, tra già stagionati e giovani in rampa di lancio, come Montella, ct della Turchia o Farioli, allenatore del Nizza, da Marco Rossi, ct dell’Ungheria a Tedesco, commissario tecnico del Belgio. E come dimenticare l’espertissimo Mancini, ct dell’Arabia Saudita o l’emergente Calzona, che fa la spola tra Vesuvio e Nazionale della Slovacchia?
Se dovessimo scegliere, limitandoci solo agli italiani e prendendo in considerazione solo i portatori di qualche verbo nuovo, avremmo già l’imbarazzo della scelta, e se poi allargassimo l’orizzonte ai seminuovi e non nuovissimi, come Italiano della Fiorentina o Baroni oggi a Verona o altri che trovano estimatori e anche risultati in giro per il mondo, saremmo seriamente in difficoltà. Ma, visto che l’ambiziosa e pericolosa domanda che ci poniamo è: ‘Quale può essere l’allenatore italiano del futuro?’, la risposta andiamo a cercarla nelle pieghe della cronaca e nella penombra della ribalta.
Una scommessa per il futuro
Essa, a nostro parere, non può che riguardare proprio Davide Possanzini, attuale allenatore del Mantova, in C, ma alla vigilia di essere promosso in serie B. Tale risposta, al di là del fatto che possa sorprendere molti, non è legata tanto alla circostanza non da poco che, mentre scriviamo, la squadra virgiliana sia in testa al girone A della terza serie con 12 punti di vantaggio sulla seconda, il Padova, a cinque giornate dal termine del Campionato e che quindi già dal prossimo turno possa coronare la corsa alla serie superiore, quanto al modo di giocare mostrato quest’anno da questo Mantova sorprendente quanto spietato.
Qualche dato necessario prima di addentrarci nell’analisi del gioco. Possanzini, 48 anni, è stato un attaccante di buone capacità realizzative che ha conosciuto le sue stagioni migliori, segnatamente con la maglia del Brescia, intorno alla trentina e quindi a maturazione fisica già abbondantemente avvenuta. Parimenti, la sua carriera di tecnico, iniziata nel 2013 proprio a Brescia a 37 anni, ha avuto uno sviluppo piuttosto lento, tant’è che questa virgiliana è la sua prima vera esperienza come capo allenatore. E se pensiamo che Possanzini è praticamente coetaneo di Juric che allena in Serie A da un sacco di tempo… La realtà è che Davide è stato, per esempio, per diversi anni il vice di De Zerbi che, ancorché più giovane di tre anni di lui, ha saputo imporsi, nonostante inizi poco brillanti, all’attenzione generale anche in fretta.
Il Possa è stato con lui dai tempi del Foggia (2016) fino a quelli, turbolenti per motivi certo non calcistici, dello Shakthar in Ucraina. Non l’ha seguito al Brighton solo perché il richiamo dell’amata Brescia, come responsabile della Primavera, ha avuto il sopravvento. Richiamo che gli ha persino procurato, la scorsa stagione, un paio di apparizioni come allenatore delle Rondinelle in Serie B. Il presidente Cellino, che definire vulcanico fa torto all’Etna, lo ha sopportato due partite, appunto, poi ne ha chiamato un altro o ha richiamato quello precedente, non ricordo bene.
Sì, perché Possanzini non è, adesso lo sappiamo, un allenatore che possa correggere, soccorrere o aggiustare. Subentrare. Egli ha bisogno di tempo per spiegare, amalgamare, imbastire, istruire e, siccome è uomo e tecnico di spessore in quanto ricco di idee e di trovate non semplici, la lentezza nell’apprendimento da parte dei suoi giocatori è fisiologica quanto necessaria e quanto poi efficace alla prova del campo. Insomma, tornando alla storia, Davide l’estate scorsa decide di mettersi finalmente in gioco con una squadra ‘adulta’ presa a inizio stagione e accetta l’offerta del Mantova in serie C e reduce da una disastrosa retrocessione in D, poi annullata da un miracoloso ripescaggio. Con quali ambizioni parte la aocietà che lo assume? Salvezza innanzitutto, se poi non fosse nemmeno sofferta… un pensierino ai playoff? Mah, la provvidenza… Certo che risorse per rinforzare molto la squadra non ce ne sono e meno male che il nuovo allenatore non è molto esigente in questo senso.
L’inizio di stagione è percepito dalla dirigenza e dai tifosi come abbastanza buono per i risultati, mentre lascia, giornalisti e osservatori compresi, tutti molto perplessi il tipo di gioco espresso dalla squadra. Possesso palla estenuante al limite dell’ipnotico e costruzione dal basso ossessiva non fanno audience, generano le critiche più frequenti e quando, tra fine settembre e primi di ottobre, arrivano due sconfitte, una sonora a Trieste in casa della favorita al salto in B (4-1) e una in casa sia pur in Coppa Italia, c’è chi parla già di esonero o, perlomeno, di affiancamento da parte di qualcuno più esperto. Senza fare tutta la storia di un campionato ancora in corso, è sufficiente ribadire che oggi, dopo 33 giornate, il Mantova è lassù con 78 punti, che il Padova segue a 66 e che la superfavorita Triestina veleggia a 53, quarta dietro il Vicenza a 58.
Un vero dominio, un dominio che, questo il nostro timore, ancorché clamoroso quanto tutt’altro che inconsueto in serie C (il Cesena nel girone B è in una situazione analoga), possa di per sé essere motivo di ammirazione e curiosità, e di appagamento delle stesse, da parte del pubblico. Specie quello che vede queste realtà piuttosto da lontano. Con questo vogliamo dire che il valore del Mantova di questa stagione non è la sua classifica e il distacco sulle altre, è il suo modo di giocare, di vincere le partite, di dominare gli avversari. E che lo faccia in un modo nuovo e antico nello stesso tempo, un modo colto, messo a punto da un allenatore alla sua prima panchina in carriera, crediamo proprio sia fatto interessante, perfino affascinante.
Come gioca il “Possa”
E quindi, come gioca Possanzini? Lo schieramento a boccia ferma pare proprio un classico 4-3-3, ma bastano poche azioni di gioco per capire che i biancorossi si muovono sul terreno in modo fluido, muovendosi praticamente tutti di continuo per dare al compagno la linea di passaggio più semplice e diretta. Gli avversari che sanno, oramai ovviamente tutti, di questo modo di interpretare gli spazi e di tenere il più possibile palla a terra e padronanza tendono ad aspettare il Mantova nella propria metà campo. In questo caso, ecco il possesso ipnotico, una sorta di surplace come ai tempi di Maspes e Gaiardoni al Vigorelli! I due centrali di difesa si scambiano la sfera anche dieci volte e spesso, non a caso, si aggiunge a loro uno dei tre registi (avete letto bene: tre registi!) formando così un triangolo, che può diventare un quadrilatero con il portiere, che sembra la cosa più inoffensiva del mondo o, come dicevano i tifosi a inizio stagione, una melina inutile e stucchevole.
Poi, improvvisamente, quando un avversario si avvicina o qualcuno di loro fa un movimento errato in difesa, ecco che parte fulminea un’azione che, spesso con tocchi di prima, porta il pallone in area avversaria. Quando ai due difensori centrali si aggiunge il regista Burrai, dotato di eccellente visione di gioco e di lancio preciso, il pallone si stacca da terra, cosa appunto molto rara, per avviare l’azione, ma se arretra Trimboli possono partire i passaggi rasoterra, non tutti verticali, molti in orizzontale o anche all’indietro ma tutti eseguiti con una velocità impressionante e con i giocatori mai statici. Sono azioni pregevoli tecnicamente, ricordano certi ricami eseguiti a memoria. Se infine a venire basso è il terzo regista Galuppini, goleador della squadra e superficialmente definito attaccante, l’azione tende a partire in verticale per vie centrali e con passaggi velocissimi, un po’ come faceva il primo Napoli di Sarri, quello in cui sembrava fosse un gruppo di giocatori a portare su il pallone, una sorta di mischia rugbistica.
Questo schema multiforme è tutt’altro che scontato o ripetitivo, men che meno fisso, ma è utile in questa sede per comprendere come il Mantova di questa stagione, prima di uccidere un campionato ancora in età acerba, abbia spesso annichilito la resistenza degli avversari. Certo, i biancorossi non hanno vinto tutte le gare e qualcuna l’hanno pure persa anche dopo quella iniziale disfatta di Trieste. Un tallone d’Achille dei virgiliani è, per esempio, quello della già citata costruzione dal basso, eseguita obbligatoriamente e molto spesso rischiando non poco e, a volte, regalando ad avversari palloni pericolosissimi. La contabilità dei gol della capolista recita in questo momento 66-21, con un differenziale positivo di 45, in pratica il doppio del Padova fermo a +23. E interessante è, da un lato, notare che i gol fatti sono il contributo di ben 18 giocatori diversi, mentre quasi la metà di quelli subiti deriva appunto da disimpegni errati.
Riassumendo e avviandoci alla conclusione di questa disamina, diciamo che il Mantova applica un gioco che tende a far giocare il meno possibile gli avversari. Quindi, possesso palla esasperato, continua intercambiabilità di posizioni, quasi totale assenza di ruoli fissi e il tutto non tanto per non dare punti di riferimento, come spesso si dice, quanto per permettere a tutta la squadra nel suo insieme di attaccare o difendere. È vero che in certi frangenti, specialmente nel recupero palla e nell’aggressione al possessore avversario ricorda un po’ l’Inter di Inzaghi, ma in quasi tutto il resto il timbro di Possanzini appare assolutamente originale e autonomo.
Anche il centravanti pivot, che gioca spalle alla porta smistando per i compagni o girandosi di scatto come per un falso pick&roll cestistico, può ricordare Lukaku, ma Mensah, questo il nome della punta titolare mantovana, ripiega spesso anche lui fin nella propria metà campo rendendo così anche questo parallelo piuttosto debole. E sugli esterni? C’è un giocatore molto interessante, Fiori di scuola spallina, che forse è quello che si sposta meno dalla sua posizione canonica, alto a sinistra, e che ricorda per questo, tra un attimo capiremo il perché, il Resenbrink olandese.
Chi sono quindi i maestri di Possanzini, e voglio ricordare qui che questo è l’anno del suo esordio!!, o dobbiamo pensare che questa sia tutta farina del suo sacco? La nostra ipotesi di risposta, guarda caso, non può che stare nel mezzo. Davide, l’abbiamo già detto, è persona colta e in quanto tale fa nascere l’idea di questo suo gioco dissimile, e non di poco, da quello di tutti i suoi colleghi contemporanei, andando a pescare ingredienti e sapori qua e là. Forse, tra quelli più in auge e contrariamente a quello che si può credere, è proprio De Zerbi quello cui si discosta nel modo più deciso e questo aspetto non fa che accrescere lo stupore per la sua originalità tecnica.
Alla fine, secondo noi, la base della sua cultura calcistica c’è ancora lui, l’intramontabile, immenso, inesauribile Ernst Happel. E quello di Davide Possanzini, su cui scommettiamo per una luminosa carriera, è di gran lunga la lettura più bella, moderna ed efficace di quello che chiamavamo il calcio totale.