In via sperimentale, e senza volersi prendere troppo sul serio, ho provato a sviluppare una versione estesa del gioco delle somiglianze, una versione che riguarda non solo i calciatori ma anche i giocatori di pallacanestro. Se con i calciatori si parla di lievi forzature, in questo caso dobbiamo portare il discorso su un livello di astrazione superiore e vi chiedo quindi di seguirmi in questo sforzo, sempre con la consapevolezza che stiamo cercando di valorizzare alcuni aspetti comuni tra atleti che praticano sport molto diversi tra loro, ma che devono sempre giocare in una squadra e portare una palla nella metacampo avversaria per metterla in un posto specifico, con tanto di retina al seguito.
Michael Jordan e Pelé
Nessuno dei due citati ha bisogno di presentazioni, l’accostamento però deve essere un minimo giustificato per non diventare una boutade: Michael Jordan ha rappresentato nella pallacanestro la perfezione tecnica e atletica, un normolineo (per la NBA eh) dotato di una rapidità e di un’esplosività mai viste, e con il velluto dentro i polpastrelli. Non è durato una vita, ma ha impattato come pochissimi altri, forse nessuno, quando era un ragazzino (nel 1985 era già il protagonista di alcuni spot pubblicitari, ed era un rookie!); ha stabilito record che resistono tuttora nel secondo anno da professionista (i 63 punti in una gara di playoff contro i Boston Celtics, forse la difesa più rognosa dell’epoca e una delle più grandi di sempre); prima ancora che vinca un titolo qualcuno lo considera già il più grande giocatore mai visto; quando salta l’avversario in un paio di occasioni, Tranquillo dice: “Ma questo è è un dribbling di Garrincha“, “Ma questa è una giocata da Pelé“. Quando ingrana la marcia giusta per un decennio fa il vuoto, stabilendo record che resistono anche nell’era dei tre punti, e alzando sempre l’asticella nelle gare dei playoff e nelle finali. Cinque volte miglior giocatore della Lega, sei volte MVP delle finali, tutte vinte senza dover giocare gara sette. Non il giocatore più completo, ma la perfezione, e una perfezione quasi inavvicinabile nei momenti caldi, con un decennio da alieno tra 1987 e 1998. Mi ricorda Pelé, o meglio il Pelé ammirato tra il 1957 (quando a 16 anni infila reti come se non ci fosse un domani) e il 1965, periodo in cui è probabilmente il giocatore più ingiocabile nella storia, domina ogni competizione, ogni finale, ogni momento decisivo in un modo unico (e lo si può evincere sia dai numeri sia dalle prestazioni), una sorta di Ronaldo brasiliano del biennio d’oro durato però 6-7 stagioni e con maggiore creatività, visione di gioco e doti aeree.
LeBron James e Alfredo Di Stéfano
In America impazza da anni il GOAT Debate che vede come ultimi protagonisti rimasti fondamentalmente Michael Jordan e LeBron James. I più propendono per il fenomeno di Brooklyn, ma è difficile negare che il più giovane fenomeno dell’Ohio gli sia superiore sotto alcuni aspetti: LeBron James è nominalmente un’ala piccola, ma in una delle prime partite da professionista costringe Federico Buffa a chiedersi “Sogno o son desto?“, perché con l’eccezione di un tale Magic non si era mai visto un giocatore sopra i due metri muoversi in quel modo e distribuire il gioco in quel modo. LeBron è anche il secondo miglior marcatore all time della Lega e con il tempo ha scritto la storia anche con le giocate difensive (“la gioconda” del 2016). James ha vinto quattro titoli e per quattro volte è stato giocatore dell’anno nella regular season, ma soprattutto, come dicono alcuni cronisti americani, nessuno come lui è capace di “do more with less“, trasformando con la sua sola presenza il gioco di tutta la squadra e portando formazioni non eccezionali a contendere il titolo. Non sempre è stato impeccabile nei momenti caldi, penso alle discusse finali del 2011, ma averlo in squadra significava raddoppiare le chance di fare qualcosa di importante. Jordan come Pelé è stato il talento più grande, di una perfezione quasi irreale, LeBron però è stato l’unico capace di fare la differenza sui 28 metri abbondanti di campo, esattamente come Don Alfredo Di Stéfano è colui che più di ogni altro ha trasformato una squadra sui 110 metri di campo, potendo figurare quasi in ogni ruolo (nel basket si parla di imprese titanica, nel calcio di qualcosa di ultraterreno). Anche la straordinaria longevità accomuna i due fenomeni, capaci di essere al top per quasi un ventennio. E non si dimentichi che prima dell’era Di Stéfano il Real aveva vinto due sole volte la Liga, nel 1932 e 1933. Dall’arrivo del fuoriclasse argentino il Real diventa il REAL, la squadra per eccellenza che confonde gli arbitri e strega i rivali.
Magic Johnson e Diego Armando Maradona
Il primo giocatore cui associo la parola magia nel calcio è Diego Armando Maradona, nel basket è ovviamente Ervin Johnson. Nessuno come loro era capace di sprigionare magia da quasi ogni giocata, da ogni gesto, di cambiare il corso della storia con un’invenzione geniale. Johnson è un alieno già al debutto e per un decennio abbondante è il giocatore più creativo e spettacolare della lega (l’artefice dello showtime), nonché il più decisivo, come raccontano i tanti anelli e i numerosi premi di giocatore dell’anno. Non si era mai visto un playmaker di oltre due metri che aveva le sue visioni e così dotato sul piano del puro istinto, e forse non si era mai visto neppure un numero dieci tracagnotto ma dotato di capacità anche balistiche soprannaturali (se non è showtime la punizione contro la Juventus nel 1985, nel calcio non esiste lo showtime). Due freak della natura che per diversi anni sono inavvicinabili e portano le proprie squadre a traguardi sensazionali. Due freak simili anche nell’amore per la baldoria e una vita dissoluta, un amore che gli presenterà presto un conto che non saranno in grado di pagare.
Kareem Abdul-Jabbar e Cristiano Ronaldo/ Ferenc Puskàs/ Gerd Müller
Qui le cose si complicano ulteriormente e mi rendo conto di azzardare un po’, ma quando mi sono grattato la testa alla ricerca di un epigono calcistico di Kareem (nato come Lewis Alcindor) non sono riuscito a venire a capo del problema se non combinando tra loro le doti di tre fenomeni. Kareem è stato il più grande centro di ogni epoca, ha vissuto da protagonista un ventennio, è tuttora il recordman di premi di MVP e ha vinto cinque titoli. Incredibilmente, pur avendo disputato metà carriera senza poter beneficiare della regola dei tre punti, è ancora oggi il miglior marcatore della storia NBA, e questo è davvero un record inspiegabile. Kareem è un atleta superiore, che demolisce la concorrenza già da ragazzino e fa subito il vuoto, anche grazie a uno dei gesti tecnici più immarcabili di ogni epoca (il “gancio in cielo“): Kareem è una macchina da canestri che probabilmente non si è mai più rivista, almeno come longevità e affidabilità, ed è stato decisivo per due decenni. Meno votato alla perfezione di Jordan e meno universale di LeBron, è stato il dominatore del pitturato (l’area piccola?). La forza straripante di Cristiano Ronaldo, il velluto/l’estro nel gestire la palla di Puskás, l’incredibile capacità di bucare le reti avversarie e di farlo nei momenti pesanti di Gerd Müller. Ecco, forse non sto esagerando.
Shaquille O’Neal e Ronaldo
Molti appassionati e cronisti, quando citano Il Grande Aristotele, parlano di “most dominant player ever“, in termini di prepotenza tecnico fisica, nei tre o quattro anni a cavallo tra i due millenni. Shaq in quel periodo è colui che sposta in alto l’asticella della competizione, si tratta di un centro fisicamente mai visto (216 cm per un peso che poteva sfiorare i 150 kg), capace di aprire da solo e di pura forza le difese avversarie e di imporre uno nuovo paradigma di giocatore. Shaq non è però un grandissimo professionista, e infatti la seconda parte di carriera sarà fatta di alti e bassi. Shaq, con quella mole, non poteva essere veloce, ma se escludiamo la voce velocità la sua descrizione ha più di qualche somiglianza con quella di Ronaldo il Fenomeno, un atleta del futuro che per qualche stagione potrebbe essere, sul piano individuale, il giocatore più immarcabile e potente mai visto (potenza intesa come velocità abbinata alla forza pura).