Siamo 60 milioni di commissari tecnici. E così, subito dopo la clamorosa eliminazione dell’Italia dai Mondiali, sui social si è scatenato di tutto: analisi più o meno approfondite, sensazioni del momento, critiche ai giocatori, all’allenatore, alla federazione… Ognuno vuole dire la sua perché il calcio è pur sempre «la cosa più importante di quelle meno importanti» come diceva Arrigo Sacchi.
Potremmo produrci nell’ennesimo effluvio di parole – dicendo che dobbiamo rendere il nostro calcio più appetibile, dovremmo valorizzare di più i vivai, puntare meno su giocatori stranieri e più su allenatori stranieri capaci di portare idee di gioco differenti, lanciarci in analisi teoriche tutte giuste e lodevoli. Ma cosa cambierebbe? Non è sui social, non è su Game of Goals, non è sui giornali, non è nelle trasmissioni televisive che potremo trovare la ricetta magica per qualificarci ai Mondiali 2026.
Serve un lavoro di anni. Servono meno parole e più fatti. All’estero si è soliti parlare molto meno. Vale nel calcio, ma anche altrove: è più raro trovare in Francia, in Germania o in Inghilterra schiere di virologi ed esperti militari che dalle 8 del mattino alle 23 di sera disquisiscono di massimi sistemi, analizzano l’evoluzione del Covid e gli effetti dei vaccini o spiegano come Putin attaccherà, quali strategie utilizzerà e come Zelensky si difenderà.
Mi limiterò a fare tre considerazioni, una di carattere tecnico, una di carattere storico e una di carattere sociale, posto che tra la qualificazione al Mondiale e la non qualificazione al Mondiale, tra l’Italia adorata da tutti per la vittoria dell’Europeo e l’Italia denigrata da tutti dopo il fallimento con la Macedonia del Nord, passa un filo sottile. Un filo sottile fatto solo di episodi: un rigore segnato al momento giusto, un tiro subito al momento sbagliato.
L’Italia non è una nazionale di campioni (non lo è mai stata, nemmeno nell’estate 2021), ma non è nemmeno tutta da rifondare: il centrocampo è uno dei migliori al mondo, il portiere pure. È una nazionale monca. Con una difesa che fatica a trovare ricambi adeguati ai veterani Bonucci e Chiellini, un terzino fortissimo ma sempre infortunato (Spinazzola), l’unico attaccante internazionale sempre infortunato (Chiesa) e il resto del reparto offensivo che ha dei limiti oggettivi, ma che non scopriamo certo oggi.
Siamo messi meglio oggi che nel 2018, in termini di qualità di giocatori e prospettive future. Qualcosa si è mosso. Non è che stato solo tutto parole e zero fatti. Non siamo ancora arrivati alla fine del processo, d’accordo, soprattutto per quanto riguarda l’attacco che è la vera nota dolente che a conti fatti è costata l’eliminazione. Ma non abbiamo vinto gli Europei per caso. Abbiamo vinto perché abbiamo comunque dei valori. Poi certo: abbiamo trovato un’alchimia particolare quando contava. Abbiamo avuto un pizzico di buona sorte quando contava. E abbiamo sfruttato anche la situazione attuale, con un calcio globalizzato dove l’organizzazione fa sempre più aggio sulle qualità individuali.
La mancata qualificazione al Mondiale in Qatar aumenta i rimpianti. Perché in giro io non vedo corazzate. Guardate le squadre che si sono qualificate al Mondiale. Non ce n’è una che non abbia dei limiti, dei vuoti, dei difetti. Il rischio di assistere a un Mondiale un po’ in tono minore è concreto. La sensazione che chi vincerà lo farà non tanto perché più forte degli altri, ma perché avrà trovato la chimica giusta nel momento giusto (come successo all’Italia a Euro 2021), è reale. Sono almeno 10 le potenziali vincitrici.
Le due favorite annunciate, Francia e Brasile, hanno giusto un filo qualcosa in più della concorrenza, ma non sono irraggiungibili. La Francia appare meno sicura e meno performante in diversi uomini chiave (Griezmann, Pogba, Varane, Lloris) rispetto a quella del 2018. E bisognerà poi vedere come il gruppo avrà assorbito la conferma di Deschamps, dopo i malumori del flop all’Europeo. Il Brasile ha alcuni ottimi nomi, sta ottenendo risultati validi pur in un contesto sudamericano oggi non so quanto competitivo, ma ha la difesa più forte dell’attacco (e quando il Brasile ha la difesa più forte dell’attacco non è mai un buon segno) e la sua stella – Neymar – è ancora per certi versi un incompiuto.
Ho letto che la doppia mancata qualificazione dell’Italia ricorda quella di Inghilterra 1974-1978, Olanda 1982-1986 e Francia 1990-1994.
È vero da un punto di vista statistico.
Ma il contesto storico è profondamente diverso.
Tutte e tre quelle nazionali uscivano dalla miglior generazione della propria storia, con tre dei massimi fuoriclasse europei e mondiali a guidarle: Bobby Charlton, Johan Cruijff e Michel Platini. L’Inghilterra nel 1970 aveva mancato la semifinale con l’Italia solo per le papere di Bonetti ed era stata quella che più si era avvicinata al livello monstre del Brasile. L’Olanda veniva da due finali mondiale perse. La Francia da una semifinale contro la Germania Ovest ’86 in cui partiva favorita. L’Italia al contrario è reduce da due Mondiali fallimentari (2010 e 2014) in cui ha perso da Slovacchia e Costa Rica e pareggiato con la Nuova Zelanda.
La base che c’era prima è totalmente diversa. E le prospettive anche. L’Olanda e la Francia sono ripartite da lì a una manciata di anni con nuove generazioni di valore che hanno portato in dote da una parte un Europeo e dall’altra un Europeo e un Mondiale e facendo leva su due nuovi fuoriclasse assoluti, Marco van Basten per i primi e Zinedine Zidane per i secondi. Ma non vedo all’orizzonte per l’Italia 2022 un van Basten o uno Zidane. È uno scenario differente.
Più che a ricostruire un movimento calcistico e affidarsi all’estro di un grande campione, l’Italia dovrebbe iniziare a ripensare un po’ alle fondamenta della propria società, di cui il calcio è solo la punta dell’iceberg. Il modello può essere la Germania, che dal punto di vista sociale ha una storia più simile alla nostra rispetto a Paesi come Francia e Inghilterra che affondano le loro radici culturali molto nel colonialismo.
La Germania è ripartita dopo il fallimento dell’Europeo 2000 facendo leva, come già spiegato qui, su una società multietnica. La Germania ha quasi 12 milioni di stranieri, l’Italia 5 milioni. In questo modo sono emersi Boateng, Rudiger, Podolski, Klose, Ozil, Gundogan, Gomez, Sané, Gnabry… (e il presente e futuro è già rappresentato dai Musiala e dagli Adeyemi). Sono cresciuti negli oratori e nei campetti di periferia giocando e amalgamandosi con i tedeschi del luogo: lo stile dei primi e dei secondi si è mescolato e ha creato un modo di giocare nuovo, quello della Germania campione mondiale 2014 e del super Bayern Monaco di oggi, un modo di giocare dove la forza fisica e la tecnica nello stretto sono bilanciati e integrati in una manovra molto corale, collettiva, di passaggi a terra e movimenti, quasi zemaniana a volte per l’ossessiva ricerca del gol a discapito della difesa.
La Germania che era sempre stata ancorata a dettami di atletismo, disciplina e forza si è riadattata, ha cambiato pelle, è ripartita con una visione nuova della società e del calcio. E ha ottenuto dei benefici.
Questo processo dovrà avvenire anche da noi. L’Italia deve credere e puntare su una maggiore integrazione sociale e in questo modo potrà un domani creare uno stile che non rinneghi la propria tradizione culturale ma sia capace di mescolarsi con quello dei nostri immigrati, che siano nordafricani, albanesi, sudamericani. Una società multiculturale – se organizzata in modo intelligente – genera vantaggi e risorse. È il futuro. Non solo sul piano sportivo.
Francesco Buffoli
L’Italia schiera da sempre una nazionale umorale: dopo il trionfo del 1982 arrivò un girone di qualificazione agli Europei che fa impallidire la figuraccia di ieri contro la Macedonia del Nord. Dopo la Corea del 1966 arrivarono un titolo europeo e una finale mondiale. In questo periodo abbiamo l’aggravante di schierare pochi campioni, specie in un reparto offensivo che offre un quadro desolante. Gli episodi ci hanno aiutato l’estate scorsa, ci hanno penalizzato in questo caso, ma con la Macedonia non dovresti arrivare agli episodi.
Mancini ha sicuramente le sue responsabilità, ma i limiti e i problemi riguardano tutto il movimento e sarebbe riduttivo puntare il dito contro di lui. Bisogna chiedersi perché si producono così pochi giocatori di alto livello, specie sul piano tecnico.
Luca Ceste
Con l’incredibile eliminazione contro la Macedonia del Nord il calcio italiano ha toccato statisticamente il suo punto più basso per quanto riguarda la nazionale, completando l’inversione di tendenza relativa alla partecipazione alle grandi competizioni internazionali.
Mai si erano mancate due qualificazioni consecutive ai Mondiali, preannunciate comunque da altrettante eliminazioni nella fase a gironi e l’ultima gara secca risalente alla vittoriosa finale di Berlino 2006.
Per contro, agli Europei, dove storicamente gli azzurri avevano sempre stentato, si è assistito ad un crescendo dal 2008 in avanti, culminato nel titolo conquistato la scorsa estate a Wembley.
Queste premesse inducono a non fare di tutt’erba un fascio. Mancini, partendo dalle macerie lasciate da Ventura, ha ricostruito un gruppo ridandogli identità e un gioco propositivo, pur non avendo a disposizione delle eccellenze. Ad agevolarlo è stato il fatto di poter giocare con la mente sgombra da pensieri e di non avere nulla da dimostrare.
Sino alla fine degli Europei, finale compresa, tutti i risultati ottenuti erano grasso che colava. L’alchimia costruita e l’entusiasmo ritrovato hanno fatto il resto contribuendo a far superare anche i limiti tecnico-tattici.
Il giocattolo si è rotto quando questo gruppo, denotando una carenza di personalità e di frequentazione assidua dei massimi palcoscenici (basta contare il numero di presenze in Champions League di gran parte degli azzurri) è stato chiamato a confermarsi e dimostrare maturità e valore.
Chiave di volta in negativo il pareggio di Firenze con la Bulgaria, che ha minato testa e certezze. Da quel momento, come già visto quattro anni prima, un declino repentino e irreversibile, che sommato ad episodi sfortunati da sempre parte del gioco, ha messo a nudo tutte le carenze, soprattutto nel reparto avanzato.
Contro la Macedonia, alla disperata, personalmente avrei puntato sul già rodato trio offensivo del Sassuolo. Ma queste sono considerazioni che lasciano il senno di poi.
La risalita non sarà facile e dovrà partire dalla qualità, non trascurabile, che abbiamo fra portiere, difesa e centrocampo. Punto dolente l’attacco, dove non si vedono talenti all’orizzonte. Un’alternativa sarebbe l’impiego di una tattica che preveda velocizzazione della manovra, creazione di spazi e maggiori inserimenti dalle retrovie.
Riuscire ad elevare il livello qualitativo del nostro campionato, dai ritmi poco competitivi, saturo di stranieri spesso inferiori rispetto agli azzurrabili, con i giovani a lungo tenuti per interessi superiori a “bagno maria” privandoli di una ribalta che li porterebbe a maturare più in fretta, richiederebbe una rivoluzione culturale radicale difficile da realizzare in breve tempo.