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Amala – La top 11 dell’Inter del dopoguerra

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Tocca all’Inter, la squadra migliore d’Italia negli ultimi anni e, a nostro parere, la protagonista del miglior ciclo della storia del calcio italiano: già, perché se è vero che Milan e soprattutto Juventus sono stati più continui nel confermarsi ai vertici, l’Inter di Herrera, la Grande Inter, non solo ha elevato il catenaccio ad arte superiore, ma ha dominato per un lustro in patria e in Europa. L’Inter è inoltre l’unica società italiana che possa fregiarsi del Triplete.

Come di consueto, per compilare la formazione e la rosa ideali dell’Inter abbiamo preso in considerazione solo quei giocatori che abbiamo visto giocare e siccome, per fortuna o per sfortuna, abbiamo l’età per averne ammirati una marea, non abbiamo spesso avuto che l’imbarazzo della scelta. E questo aspetto introduce il doloroso discorso delle esclusioni e non possiamo che citarne tre per tutte.

La prima riguarda uno dei giocatori più forti di tutti i tempi: quel Giuseppe Meazza (ascolta qui il nostro recente podcast su di lui) di cui si favoleggia ancora oggi, ma che abbiamo tagliato appunto per mancanza di documentazione visiva sufficiente.

La seconda riguarda un attaccante che ha vestito il nerazzurro del Biscione per una sola stagione e che, seppur straordinaria, irripetibile e vincente, non ci consente di convocarlo per questa selezione. Ramon Diaz, però, straordinario centravanti ma soprattutto giocatore di un intelligenza tale da saper anche migliorare il rendimento dei compagni, merita assolutamente di essere aggregato alla comitiva come, se capitano è certo troppo, assistente non giocatore.

La terza riguarda alcuni esclusi di extralusso per ragioni di spazio, esclusi che sono però due pezzi centrali della storia nerazzurra: Jair, che solcava la fascia destra proprio durante gli anni di Herrera, e Istvan Nyers, che è ai limiti dell’epoca di cui stiamo parlando e di cui esistono pochi documenti video disponibili, ma che almeno nel preambolo deve essere ricordato.

Portiere: Walter Zenga

Senza dubbio il più amato dai tifosi, Walter Zenga, detto l’Uomo Ragno, è probabilmente anche il numero uno tra i numeri uno nerazzurri. Meneghino, interista fin da bambino, boy frequentatore della Curva da sempre, Zenga forse in carriera vince meno di quello che meriterebbe, in Italia solo il pur straordinario campionato dei 58 punti su 68 del 1989, e forse di lui ancor oggi si ricorda più il carattere guascone e loquace che il suo talento assolutamente notevole. Due volte è entrato nella top 20 nel Pallone d’oro, tre volte è stato eletto miglior portiere del mondo, nominato miglior portiere del decennio 90-2000 e tra i venti migliori portieri del XX secolo. Non si direbbe, vero? L’Uomo Ragno detiene anche il record di imbattibilità in un Mondiale (517’ nel 1990).

La sua prima alternativa è Julio Cesar, il portiere del Triplete e senza dubbio anche, a cavallo dei primi due decenni del millennio, uno dei più forti estremi difensori del mondo. Ai numeri uno di allora, è bene ricordarlo, non era chiesto di giocare con i piedi e nemmeno di aprire la manovra e quindi non sappiamo come se la caverebbe oggi. È certo però che, anche oggi, superarlo rimarrebbe un grosso problema. La sua partita migliore rimarrà per sempre quella di Barcellona in occasione della fallita remuntada dei blaugrana.

Altro portiere che ha vinto molto, praticamente tutto, in nerazzurro, avendo difeso la porta di quella che è passata alla storia come la Grande Inter guidata da Helenio Herrera, ma che viene da noi scelto soprattutto per le sue qualità intrinseche, è Giuliano Sarti. Poco spettacolare trai pali, univa il senso della posizione e l’abilità nelle uscite all’attitudine, rara a quei tempi, di governare la difesa. Sarti è però per sempre legato a quella celebre papera a Mantova che costò alla Grande Inter la perdita di un campionato già vinto e, di fatto, la fine del ciclo aureo di quella squadra. Ma, dicendola con De Gregori, non è da questi dettagli che si giudica un giocatore. Specie se portiere.

Laterale destro: Javier Zanetti

Quando sbarcò a Linate nell’estate ’95 assieme a Rambert, trovò una folla di tifosi e di fotografi in attesa del giovane attaccante uruguagio, sicura stella nascente, tanto che uscì dall’aeroporto in fretta e senza che nessuno se lo filasse. Nessuno poteva immaginare che quel ventiduenne dal volto a spigoli e i capelli sempre impeccabili da lì, da Milano, mai più si sarebbe mosso. Dell’Inter è stato difensore, mezzala, esterno, quinto a tutta fascia e ancora capitano, condottiero vincente, dirigente, vicepresidente. Della stellina uruguagia si sono smarriti i bagliori, el Tractor argentino, dopo trent’anni, è sempre a Milano, vestito con doppiopetto nerazzurro e neanche un capello fuori posto. Dal punto di vista atletico, a dispetto delle misure tutto sommato normali (178 cm per 75 kg), chi scrive non ha più rivisto nulla di equiparabile a Javier Zanetti, che anche a quarant’anni sapeva esibirsi in progressioni di 60/70 metri palla al piede.

Potremmo schierarlo sia laterale che stopper, e optiamo per la posizione defilata per ragioni numeriche: la prima e più importante riserva di Zanetti non può che essere colui che, per molti versi, è stato il suo precursore, ovvero Giuseppe Bergomi. Forse non tutti sanno perché il suo epiteto pubblico sia ‘lo zio’. Aveva 16 quando, nell’80, esordisce con l’unica maglia di club che indossa in tutta la carriera, quella interista, ma il suo aspetto fisico e la sua espressione facciale sembrano quelli di un uomo maturo e così, per schernirlo bonariamente, i compagni di squadra lo chiamano, appunto, ‘zio’. È il suo portafortuna, quello che lo porta a 17 anni a esordire in azzurro e a 18, giocando addirittura la finale, a laurearsi Campione del Mondo. Pur non essendo interista, non ha mai tradito i colori nerazzurri per i quali ancora lavora nel Settore Giovanile.

Pagata la rata al mutuo della longevità e della Storia, possiamo gettare la maschera e riconoscere che forse, in termini di pura bravura, il laterale destro migliore sceso in campo con la maglia nerazzurra è stato Maicon. Il brasiliano, se vogliamo, è stato un discepolo diretto del Giacinto da Treviglio. Mezzo secolo dopo, ecco infatti un uomo che solca la fascia destra così come Giacinto faceva con la sinistra, facendo sembrare gli avversari delle statue di sale, travolte dalla sua onnipotenza e dalla finezza che ci si attende da un laterale che arriva dalle sue latitudini. Per Maicon, a Milano si contano sei stagioni, diversi gol capolavoro/pesantissimi, innumerevoli cross al bacio, una grande applicazione difensiva e tanti trofei, su tutti i tre che compongono il leggendario triplete del 2010.

Difensore centrale: Armando Picchi

Nel 1964, per celebrare la sua straordinaria stagione, la stampa intitola un lungo articolo-panegirico “Picchi di rendimento“, evidenziando come, nel contesto delle stelle nerazzurre, Armando Picchi sia risultato il più bravo di tutti. Il difensore che aveva spalle larghe e giocava senza paura è stato un libero classico, che si posizionava dietro la difesa a comandare le operazioni. Il suo contributo tecnico e caratteriale alla Grande Inter è impagabile, e per questo lo schiero titolare, nonostante abbia giocato a Milano “solo” per sette stagioni.

La sua prima riserva può già essere – e suggerisce che lo sia un illustre interista come il nostro Giuseppe Raspanti – Alessandro Bastoni. Nonostante la verde età, è del ’99, possiamo infatti definirlo un giocatore d’esperienza e una garanzia di solidità e di costruzione. Adocchiato dagli scout interisti fin dalle sue primissime esperienze tra i virgulti atalantini, è stato Conte a volerlo in prima squadra in un ruolo, quello di centrale di sinistra nella difesa a tre, che Bastoni ha poi interpretato e sviluppato in modo originale e impareggiabile, contribuendo in maniera determinante anche in fase propulsiva a un numero impressionante di vittorie in relazione alla giovane età. Anche in azzurro ha già vinto un Europeo ed è titolare fisso.

Da ultimo, vogliamo ricordare Riccardo Ferri: più stopper classico di Bastoni e del libero Picchi, deve comunque trovare un posticino in squadra perché per tredici anni è stato titolare inamovibile di un’Inter altalenante e che comunque vince sia in Italia che in Europa.

Difensore centrale: Tarcisio Burgnich

Altro elemento della Grande Inter di Helenio Herrera, Tarcisio Burgnich era uno stopper e un terzino roccioso, rude nei movimenti e negli atteggiamenti ma, allo stesso tempo, estremamente corretto quanto efficace. Associato nella Storia del Calcio e nella fantasia popolare ormai perenne al collega di reparto Giacinto Facchetti, era quello dei due che presidiava la posizione sull’attaccante avversario più temuto senza sganciarsi mai. Segnò dunque pochissimi gol, ma ne fece uno fondamentale quanto incredibile nella partita più celebre e celebrata della Nazionale, quel 4-3 alla Germania nei Mondiali ’66. Suo fu il gol del 2-2. Tre giorni dopo fu immortalata la sua immagine mentre viene sovrastato impietosamente da O Rei, perpetuando ancora una volta il destino nerazzurro, spesso caratterizzato dal retrogusto amarognolo.

Potrebbe benissimo soffiargli il posto, e se non ci riesce e solo per questioni di longevità in maglia nerazzurra, un altro campione di pari levatura tecnica, Walter Samuel. Il suo epiteto, conosciuto a ogni latitudine, ‘The wall’, non è un omaggio ai Pink Floyd ma una sintetica descrizione della sua forza invalicabile, della sua compatta elasticità e della sua capacità impressionante di respingere e di proteggere. Dotato di un senso della posizione innaturale e degno dei migliori portieri della Storia, Samuel è stato uno degli eroi che ha alzato la Coppa a Madrid nel fantascientifico 2010 nerazzurro, nella squadra in cui, quando Lucio impazziva, e capitava spesso, lui, tranquillo, si sdoppiava.

Meno grande dei due predetti, ma amatissimo dai tifosi per la grinta, la pulizia e la capacità di essere per anni il gregario di lusso della difesa nerazzurra, a nostro parere Iván Córdoba è degno del posto in rosa, anche perché veste di nerazzurro in ben 455 occasioni ed è uno dei massimi simboli della storia del club.

Laterale sinistro: Giacinto Facchetti

Potrebbe mai mancare lui in questa Inter All Time? Dotato di una serietà, una pacatezza e un’autorevolezza senza eguali e perfino contagiosa, oltre che eccelso difensore, è stato il prototipo del ‘giocatore dispari’. Di quello cioè che scompagina gli avversari perché si fa trovare in posizioni inaspettate e capaci di mandare in confusione gli avversari. Il terzino goleador adesso è un classico imprescindibile, ma il primo è stato lui, l’immenso e inimitabile Giacinto Facchetti, uno dei pochi difensori all’altezza di candidarsi seriamente al famigerato Pallone d’oro, nel 1965, e ancora cattedratico che officia quasi al meglio negli anni ’70 – è titolare in nazionale, da libero, fino alle qualificazioni per i mondiali argentini. A nostro parere, quando si nominano le divinità della scuola difensiva italiana, si dovrebbe nominare, e ai primissimi posti, anche il Cippe di Treviglio.

Per spessore tecnico e utilità in campo, Christian Chivu se la gioca con altri componenti di valore della retroguardia interista, come Andreas Brehme, che è stato anzi un giocatore straordinario e superiore. Entrambi meritano quindi un posto in panchina: Chivu non solo perché legato al ciclo culminato con il Triplete, ma soprattutto per la duttilità nel coprire tutti i ruoli della difesa e per la grande disponibilità nell’aiuto ai compagni di squadra; Brehme perché è il giocatore chiave dell’Inter dei record, sul piano tattico e per lo straordinario contributo bifasico, tanto che a fine anno vince a mani basse il Guerin d’oro, il premio assegnato dalla stampa al miglior giocatore della Serie A. Un giorno, con una piccola forzatura, sarà giusto associare questa posizione anche a Dimarco.

Mezzala: Luis Suárez

Chi non ha visto giocare Luis Suárez negli anni ’60, non può sapere esattamente che cosa sia l’eleganza nel calcio. Non solo, anche la compostezza e la capacità di prevedere le mosse di avversari e compagni. Luisito non giocava con i piedi, lo faceva con gli occhi, tanto che a volte pareva che la partita in corso, in ogni sua azione, seguisse la sua segreta volontà. Se il calcio ha avuto un grande regista in quegli anni, questo non può essere che il genio della Galizia. I vecchi milanisti opporranno a questa affermazione, giustamente, il nome di Gianni Rivera. Giusto, ma con una grossa differenza: il faro rossonero, per dirigere, ha avuto bisogno di altri centrocampisti, Lodetti si tutti, Suarez era da solo il reparto dell’Inter, avendo al fianco un difensore (Tagnin, poi Bedin), un attaccante (Mazzola) e uno che si faceva, anche se in modo geniale, i fatti suoi (Corso). Luisito ha scritto la storia prima in blaugrana, vincendo un pallone d’oro e guadagnandosi l’ammirazione di tale Di Stéfano, e poi all’Inter, trasformatosi in regista classico, ha fatto ancora meglio, diventando l’uomo chiave di una delle squadre più forti e vincenti di sempre.

La sua riserva, già oggi, potrebbe essere Niccolò Barella, che a ben vedere ha già scritto la storia dell’Inter a caratteri cubitali. Classe ’97 per nascita e classe ragguardevole sul campo, questa mezzala sarda grintosa e intelligente è arrivata sulla sponda nerazzurra del Naviglio a rinverdire le gesta di un suo celebre conterraneo, quel Matteoli faro, cursore e tampone dell’Inter vincente del Trap. Anche per Niccolò, già pupillo di Gigi Riva, queste tre funzioni convivono e descrivono il suo gioco, specialmente dopo che ha perso la sua indole fumantina. Voluto da Conte nel ’19, anche lui, come Bastoni, ha dato impronta e impulso ad una squadra che nel recente lustro ha vinto moltissimo, dimostrandosi a proprio agio, sia come uomo a tutto campo che come risolutore, anche in Europa.

Una citazione, come terzo, se la guadagna a nostro parere Nicola Berti, poderosa mezzala dai mezzi atletici sconfinati e in grado di segnare gol che sembrano sfidare le leggi della fisica. Per lui, in nerazzurro si contano 312 presenze impreziosite da 41 reti, e uno scudetto dei record vinto da gregario di extralusso.

Centrocampista centrale: Esteban Cambiasso

Uno dei giocatori più intelligenti, sia in campo che fuori, mai apparsi in Italia, l’argentino di Buenos Aires Esteban Cambiasso è stato anche uno dei centrocampisti più forti che l’Inter abbia avuto. Grinta, temperamento e visione di gioco anche periferica sono le doti che gli hanno permesso di rendere il centrocampo interista contemporaneamente un baluardo e una fonte inesauribile di gioco per un decennio. E senza il connazionale Zanetti, più anziano, sarebbe certo stato Cambiasso il capitano di 5 scudetti e del Triplete. Anche per lui, infatti, l’apice è stato toccato a Madrid, contro il Bayern, nel corso di una finale giocata in maniera superba e che ha coronato la straordinaria continuità dimostrata nel corso delle stagioni precedenti (per fare un esempio, già nel 2004/2005 molti giornalisti votano Cambiasso, davanti a Pirlo e a Veron, come miglior centrocampista del nostro campionato).

Marcelo Brozović, una vita da centrale di extralusso e con i piedi da slavo, è arrivato nella Milano nerazzurra in sordina, ma è presto diventato titolare fisso, quindi pedina inamovibile e infine faro insostituibile, almeno in apparenza, del centrocampo interista. Il croato è rimasto all’Inter nove anni, tra alti e bassi, colpi geniali e topiche inimmaginabili e rimanendo sempre, con buona pace dei non pochi detrattori, l’aiuto regista di Modrić nella cabina di comando della Croazia inimmaginabile nel suo periodo d’oro. È stato Spalletti a promuoverlo mediano factotum, mentre Inzaghi l’ha usato come calco per forgiare con Chalanoglu la sua replica perfetta. E così Brozo, che pareva avere ormai avere la pelle nerazzurra, ha potuto partire per l’Arabia dove lo coprono di soldi.

Da ultimo, benché il suo ruolo fosse meno chiaro e definito di quello dei due sopracitati, credo si possano spendere due parole per un gregario che è un pezzo di storia dell’Inter, ovvero per Gabriele Oriali, una vita da mediano dotato da madre natura di tre polmoni e di uno spirito di sacrificio quasi senza eguali, un mediano che è nerazzurro in 398 occasioni e che è pure capace di mettere a referto 44 reti.

Mezzala: Lothar Matthäus

Centrocampista completo e innovativo per quel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, il tedesco riusciva a coniugare la muscolarità degli allora mediani di spinta alla visione di gioco tipica del regista classico. Il tutto esaltato da una potenza e precisione nel tiro da fare invidia ai migliori attaccanti. Del resto, la sua carriera all’Inter, di quattro anni, non è stata altro che una parentesi di quella lunghissima e gloriosa al Bayern, casa sua. Ma quel breve periodo, lo avete già inteso, ha visto la squadra nerazzurra vincere un campionato irripetibile con 58 punti su 68 disponibili e contro corazzate ritenute inarrivabili come il Milan olandese e il Napoli di Maradona. Proprio contro i partenopei, Lothar Matthäus segnò il gol che sancì il trionfo; due anni dopo, reduce da un mondiale da protagonista, il panzer se possibile salì ancora di colpi e trascinò un’Inter forte ma meno brillante a giocarsi il titolo contro la Sampdoria, nonché a prendersi d’autorità la coppa UEFA. Non è un caso se a Milano Lothar è ancora oggi venerato come una divinità.

Per il secondo nome abbiamo pensato a un duttile giocatore serbo, un senza-posizione capace di disimpegnarsi in diversi ruoli e dotato di una castagna da fuori che non ha quasi avuto eguali: sto parlando di Dejan Stanković, che indossa la maglia dell’Inter per quasi un decennio, risultando uno dei migliori nella stagione trionfale in campionato, nel 2007, e vivendo da protagonista anche l’annata del Triplete.

Il terzo posto lo assegno a un giocatore versatile, a un guerriero e recupera palloni che ha saputo farsi apprezzare sia come difensore che come centrocampista difensivo: sto parlando del veterano Giuseppe Baresi, per 559 volte nerazzurro nel corso dei complicati primi anni ’80 così come dei momenti di gloria – penso allo scudetto dei record.

Trequartista: Mario Corso

Quello del trequartista svagato e geniale è uno dei ruoli più anomali e al contempo dei ruoli simbolo della storia nerazzurra, la scheggia impazzita e “dispari” nel contesto di una squadra dalla forte vocazione italianista, difensiva, “concreta”, di una squadra che ha fatto del catenaccio un’arte.

Mariolino Corso, diciamolo con chiarezza, se si allenasse come faceva all’epoca oggi rischierebbe di militare in C e anche solo negli anni ’80 avrebbe fatto fatica a trovare un ingaggio in Serie A. Eppure, il mancino di San Michele Extra non può mancare in questa rappresentativa. E non solo per i tantissimi trofei italiani, europei e mondiali vinti, con il suo contributo decisivo, ai tempi della grande Inter, ma anche per quello che era. Un genio inarrivabile, pigro, fermo, quasi svogliato, refrattario agli allenamenti con HH che si imbufaliva, indisciplinato tatticamente con HH che gli urlava di ogni, ma… uno capace di vincere le partite da solo, e che, ci piace pensarlo, forse smentirebbe tutti anche oggi, e dimostrerebbe che la qualità può prescindere anche dalla dotazione agonistica. Mario non era solo il poeta stravagante adorato da Pasolini, ma anche un uomo in grado di fare la differenza quando la palla scottava, e ha disputato la sua stagione più bella nell’anno della rivicinta contro il destino, in quel 70/71 che lo incorona, ancora una volta, superbo ed eccentrico campione. Prima, aveva fatto in tempo a vincere diversi titoli da protagonista, come la Coppa Intercontinentale del 1964. La sua titolarità non convincerà tutti, ma io credo che l’uomo più geniale della miglior Inter di ogni epoca, un uomo che supera le 500 presenze in nerazzurro e che ha bucato la porta avversaria 94 volte, spesso contro le grandi, un posto da titolare lo meriti.

Il predecessore di Mariolino, per certi versi ancora più grande di lui, è un giocatore che si colloca a metà strada tra l’epoca che prendiamo in considerazione e quella che scartiamo, ma che troviamo comunque giusto ricordare: si parla di Lennart Skoglund, il Wandissima che negli anni ’50 fa innamorare Milano e anzi tutta Italia con le sue serpentine, il suo sinistro magico, e che vince due scudetti da uomo di maggior classe, confermandosi anche nelle stagioni in cui la squadra brilla meno, prima che la proverbiale discontinuità diventi declino e che i suoi demoni abbiano il sopravvento – Liedholm disse che Skoglund era il Garrincha europeo, in quanto i due campioni “tanto si somigliavano sia in campo che nella vita”. Per lui, in nerazzurro, 246 presenze, 57 gol e un numero incalcolabile di magate.

Al terzo posto, è doveroso ricordare Wesley Sneijder, perché è la luce dell’Inter nell’anno del Triplete, e nonostante giochi in maniera molto meno convincente nelle stagioni successive, la sua annata mirabolante e da pallone d’oro gli vale quantomeno la menzione d’onore.

Forse molti si stupiranno nel vedere il suo nome tra questi ‘convocati’, ma noi riteniamo che pochi giocatori abbiano incarnato lo spirito interista come Evaristo Beccalossi. Nonostante non abbia caratterizzato un’era, nonostante sia stato un po’ croce e delizia per il popolo del biscione, nonostante il suo nome venga eternamente associato al suo ‘gemello bresciano’ Altobelli, crediamo che il Beck sia ancora un’icona vivida nel sacro tempio interista. E chissenefrega se è riuscito, in una gara di Coppa Uefa del 1982, a sbagliare due rigori nel giro di 5’, ai tifosi basterà per sempre la doppietta nel derby ’79.

Attaccante: Sandro Mazzola

Anche per lui, magari, c’è qualcuno che storce il naso per la sua presenza qui, in assoluto o per la collocazione in attacco piuttosto che a centrocampo – ma per noi il Sandro Mazzola più grande è quello ammirato durante il primo ciclo di Herrera, quello che supera regolarmente i venti gol stagionali. Sinceramente, però, ce ne stupiremmo, essendo Sandrino una delle bandiere non ammainabili della storia nerazzurra, non avendo mai giocato con altra maglia, avendo segnato una caterva di reti pur non essendo vero attaccante e avendo mandato in porta decine di compagni pur non essendo vero suggeritore. È stato invece vero suggeritore di passione, di lealtà e di vittorie. Oggi, a 82 anni, parla e sente a fatica, ma se gli nomini l’Inter, si illumina negli occhi. Portano la sua firma, peraltro, i due gol più importanti della storia dell’Inter: li ha segnati a Vienna contro il Real, Sandrino, e aveva ventidue anni. Nel complesso, per lui, 570 presenze e 163 reti.

Arrivato a Milano diciannovenne tra non poche perplessità, dati i recenti precedenti (cfr Gabigol, Coutinho, Kovacic ecc), di tifosi e perfino staff tecnico restio a impiegarlo, Lautaro Martinez deve aspettare Conte, e Lukaku…, per imporsi come titolare. È giocatore che non ha ancora adesso, a nostro parere, completato l’evoluzione tecnica e, accanto a eccezionali doti di goleador che lo fanno già essere a 27 anni nell’empireo realizzativo sia dell’Inter sia dell’Albiceleste, presenta qualche lacuna. Colmabile certo quella relativa alle pause nel rendimento, mentre la palla al piede riguarda l’impresentabile percentuale sui rigori tirati. Senza quest’ultima pecca, per cui lo si può definire lo Shaq del calcio, chissà dove già sarebbe nelle classifiche all time nerazzurra e argentina. Il suo posto in rosa, in ogni caso, gli spetta di diritto già oggi.

Con 206 reti e una vita in nerazzurro, deve accomodarsi tra le riserve anche Alessandro Altobelli, nome meno altisonante di quello di alcuni illustri colleghi, ma nome da campione.

Attaccante: Diego Milito

Lo so: il Ronaldo del 1997/1998 è senza troppe discussioni il giocatore più forte che abbia indossato la maglia nerazzurra nel dopoguerra. Epperò ci sono alcuni però che ci suggeriscono di preferirgli, quale titolare, Diego Milito.

Che la storia del calcio nerazzurro e di quello argentino siano intrecciate in modo inestricabile è verità difficile da smontare. Argentino è perfino il suo attuale vicepresidente, il suo giovane capitano, argentine sono state tante sue bandiere presenti e pure immeritatamente assenti in questo elenco. Gaucho della più bell’acqua non può che essere il suo fromboliere della fascia d’oro di questo secolo, il Principe del Triplete. Altro giocatore arrivato tra perplessità e qualche malumore dal Grifone, in coppia con Thiago Motta allora ancora brasiliano, Milito ha cominciato subito a zittire tutti sfondando reti a ripetizione e sfoderando sempre la stessa finta, che tutti i difensori conoscevano a menadito, ma che nessuno riusciva a contrastare. E così, il centravanti con la zeppa entra nell’Olimpo interista per sempre con quattro gol quasi identici nel giro di pochi giorni, nella tarda primavera del ‘10. Quello di Roma vale la Coppa Italia, quello di Siena il Campionato e i due del Bernabeu la Champions. È Triplete! Anche nelle stagioni successive il Principe, almeno per un anno e mezzo, gioca sui medesimi, siderali livelli, e chiude con 75 reti la sua gloriosa avventura a Milano.

Ciò premesso, Il Fenomeno Ronaldo che approda a Milano tra l’incredulità generale dovrebbe essere, in termini di pura bravura, titolare di diritto. Nel 1997 arriva quello che è già considerato il miglior giocatore del mondo, non una delle tante promesse più o meno poi sbocciate. Un giocatore che riesce a coniugare la velocità, condita da quell’allegria brasiliana un po’ frenata, un po’ triste, con una potenza muscolare impressionante. È impossibile parlare della rosa nerazzurra all time e ignorare Ronnie, sta di fatto però che il suo vissuto all’Inter è stato caratterizzato dagli infortuni anche drammatici, dai tradimenti proprio inaspettati, dai dissapori con gli allenatori e dalle clamorose sconfitte (cfr Olimpico 5 maggio ’02). Più da questi aspetti negativi che dai successi, davvero rarissimi. Al di là della parentesi italiana, del resto, e nonostante militanze di pregio, Ronaldo ha vinto molto poco nella sua carriera di giocatore di club. Grande goleador senza molti trofei.

Gli interisti sono stati più magnanimi con Ronaldo che con Zlatan Ibrahimović, da tempo associato ai colori rossoneri, eppure chi scrive crede che Ibra occupi un posto di primo piano nella storie nerazzurra: i primi tre scudetti dell’era Mancini-Mourinho sono anche e soprattutto tre scudetti dello svedesone, che in serie A sembra Gulliver che gioca con i lillipuziani. Fisicamente incontenibile, tecnicamente superbo, uomo gol superiore, Ibra, piaccia o non piaccia, è nei libri di storia della squadra di Milano.

Come lui, anche un giocatore che, a differenza dei Mazzola, dei Bergomi o dei Facchetti, le ha girate tutte, o quasi, e ha segnato giustamente per chiunque, o quasi. Eppure anche lui è presenza imprescindibile in questa selezione, non tanto certo per la vittorie ottenute con questa maglia in sei stagioni, solo una Coppa Italia, quanto almeno per le reti segnate, 103, specialmente se messe in relazione alle presenze, 143: sto parlando di Bobo Vieri. Anche in questo caso, si è preferito far pesare l’immaginario collettivo, il cuore pulsante neroazzurro più dell’effettivo beneficio di incremento del palmares. Possente e agile nello stesso tempo, ha legato il suo nome ad alcuni dei gol più belli del calcio italiano e non solo nerazzurro. Da ultimo, due parole vanno spese per Roberto Boninsegna, simbolo dell’Inter e protagonista di numerose stagioni nella Milano nerazzurra, per un totale di 173 reti in 287 partite.

Con il contributo fondamentale di GIUSEPPE RASPANTI

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