Uno dei film più celebri e capaci di arricchire ulteriormente il firmamento culturale degli anni ’80 napoletani fu indubbiamente “Così parlò Bellavista”, tratto dall’omonimo romanzo di Luciano De Crescenzo. Quest’ultimo, regista e primattore della pellicola, interpreta, appunto, Gennaro Bellavista, anziano professore di filosofia, che (in chiave ironica) effettua una distinzione antropologica piuttosto netta: da una parte gli “uomini d’amore”, caratterizzati da uno stile di vita votato all’apertura verso il prossimo, come i popoli latini, o in questo caso i napoletani e gli altri meridionali. Sul fronte opposto si collocano invece gli “uomini di libertà”, dall’atteggiamento più freddo e chiuso, una categoria di cui fanno parte gli abitanti del Nord (sia che si parli di Europa che di Italia).
Ecco, in questo manicheismo stereotipato e macchiettistico, si annida forse una delle maggiori differenze esistenziali tra i 2 campionati vinti dal Napoli negli ultimi tre anni, bis di trionfi arrivati in maniera sostanzialmente opposta nonostante diversi protagonisti in campo siano rimasti gli stessi. Lo scudetto del 2023, arrivato per manifesta superiorità rispetto alla concorrenza, è stato infatti conquistato cavalcando un entusiasmo sprigionato dopo 3 decenni di interminabile Odissea, tra retrocessioni, crack finanziario, e ritorno ai massimi livelli, a cui mancava però il giusto coronamento in salsa tricolore. Ha senso dunque parlare di uno scudetto “d’amore”, per la totale identificazione tra la splendida squadra di Luciano Spalletti e una tifoseria a cui quasi non sembrava vero di poter tagliare il traguardo a braccia alzate, dopo aver impartito lezioni di calcio sui campi dell’intera Penisola per tutta la stagione.

Ben diverso invece il percorso del Napoli 2024/25 di Antonio Conte, a cui forse ormai interessa ben poco di ottenere il premio della critica per la miglior sceneggiatura, ma che di certo non si è dimenticato i trucchi del mestiere, anche dopo 4 anni trascorsi lontano dalla sua amata Serie A: nelle 6 stagioni intere da tecnico nella massima serie, il salentino si è lasciato l’intera concorrenza alle spalle per ben 5 volte, mancando il bersaglio solo nella sua prima stagione all’Inter (in cui si piazzò al 2° posto). Insomma, di prove tangibili che attestano la semi-inarrestabilità di Conte nel nostro campionato ne abbiamo ormai a sufficienza; basti pensare che nella quasi centenaria storia della Serie A, nessun allenatore prima di lui aveva mai vinto lo scudetto con tre squadre diverse (anche a causa dell’asterisco posto di fianco ai titoli juventini di Fabio Capello).
Proprio per non aver incantato le folle come due anni fa, il Napoli neo-campione d’Italia non ha goduto del medesimo trasporto di una tifoseria divenuta ormai di bocca buona, e abituatasi a un’idea di calcio di dominio importata da Benitez, resa culto da Sarri e infine sublimata nella seconda magica stagione spallettiana. Lo shock culturale portato da Conte, un uomo d’amore diventato adulto in una terra di libertà come la Torino bianconera (sia da giocatore che da allenatore), ha dato dunque un sapore totalmente diverso a questo recente trionfo, forse il primo della storia del Napoli a poter essere definito “scudetto di libertà”.
Il gruppo forgiato dal mister leccese, del resto, privato delle folate di Osimhen, dei ricami di Zielinski, e, da gennaio in poi, delle sterzate di Kvaratskhelia, è stato costretto fisiologicamente a cambiare pelle, rivestendosi fin da subito d’acciaio. Ritrovare stabilità difensiva era infatti il primo step irrinunciabile per tornare a competere ai piani alti della classifica dopo le 48 reti subite nella scorsa stagione, chiusa al 10° posto. La funesta annata post-scudetto, minata sul nascere da una gestione societaria scriteriata, aveva infatti messo De Laurentiis con le spalle al muro, obbligandolo a ingaggiare l’unico allenatore sulla piazza capace di ridar vita a giocatori che, appena un anno fa, sembravano avere ormai l’encefalogramma piatto (capitan Di Lorenzo su tutti, ma anche Rrahmani, Anguissa e tanti altri).

La capacità di Conte di restituire motivazioni ed organizzazione a squadre in totale disarmo, come fece alla Juventus e al Chelsea nel decennio scorso, si è dunque dimostrata intatta, e gli innesti di un mercato estivo azzeccatissimo hanno fatto il resto: con Buongiorno, Mc Tominay e Lukaku, il Napoli si è dunque ritrovato una spina dorsale nuova di zecca, perfettamente congeniale al progetto tecnico del proprio allenatore. Al tempo stesso però quest’ultimo, trovatosi in mano una rosa quasi del tutto spoglia di estro (ridotto ulteriormente all’osso dopo l’addio di Kvara), ha dovuto dunque puntare su altri fattori, plasmando una squadra dall’atteggiamento quasi marziale nella protezione dell’area di rigore, i cui frutti hanno francamente dell’incredibile. Con appena 27 reti subite, i partenopei hanno infatti chiuso la stagione potendo sfoggiare la miglior difesa dei 5 principali campionati europei, risultato ancor più degno di nota alla luce delle tante assenze del sopracitato Buongiorno, probabilmente l’unico vero top player del pacchetto arretrato di Conte.
L’altro lato della medaglia è situato ovviamente nella metà campo avversaria, in cui il Napoli, sia per i pochi gol nelle gambe dei propri attaccanti che per l’indole conservativa mostrata dal proprio tecnico in diverse fasi della stagione, è diventata la squadra campione d’Italia con l’attacco meno prolifico dal 2004/05 ad oggi, mettendo a segno appena 59 reti; per trovare un gruppo scudettato con una resa offensiva così scarna bisogna tornare infatti al Milan di Zaccheroni nel 1999 (squadra anch’essa reduce da un 10° posto…), in una Serie A che aveva ancora solo 18 squadre, e di conseguenza sole 34 partite a disposizione per rimpinguare il proprio bottino.
Eppure, proprio in questo limite palesato dal Napoli nel corso della stagione, risiede la principale intuizione tattica di Conte, il quale, conscio di non avere più a disposizione lo straripante Lukaku del biennio 2019-21, ha sfruttato il belga come ingombrante apriscatole per gli inserimenti a getto continuo delle proprie mezzali. I numeri di Anguissa (6 gol e 4 assist) e di un Mc Tominay MVP della Serie A (12 reti e 4 assist), entrambi protagonisti della miglior annata della propria carriera, confermano dunque un pattern ricorrente nella stagione dei campani, costretti a massimizzare le proprie risorse per ergersi al rango di un’Inter ben più attrezzata e ricca di opzioni in ogni reparto.

Le “distrazioni” europee dei nerazzurri hanno tuttavia permesso al Napoli di reggere l’impatto con un duello punto a punto mai verificatosi nel 2023, non avendo ulteriori impegni al di fuori di un campionato capace di mettere ugualmente a dura prova una rosa molto corta come quella a disposizione di Conte. Quest’ultimo, smentendo chi lo riteneva un dogmatico del 3-5-2 (o tuttalpiù del 3-4-3 adottato nelle esperienze in Premier League), ha cambiato più e più volte l’abito tattico della propria squadra: partito da un 3-4-2-1 nelle prime uscite, per poi riassestarsi su un 4-3-3 volto a irrobustire il centrocampo con l’arrivo di “McFratm”, nel girone di ritorno diversi infortuni hanno obbligato l’ex ct della Nazionale ad affidarsi a un Raspadori tenuto fin lì in naftalina, orientandosi su un 3-5-2/ 4-2-3-1 estremamente ibrido ed efficace, come nello scontro diretto casalingo contro l’Inter a inizio marzo.
Insomma, non può che essere Conte il principale volto di una squadra muscolare e priva di grandi solisti, una squadra “di libertà” per il discorso che facevamo poc’anzi, capace di amministrare gli eventi con la lucidità e la freddezza che in pochi assocerebbero a un microcosmo rovente come quello del Napoli (e di Napoli), con l’attitudine che invece ha storicamente sempre fatto le fortune delle versioni più fordiste della Juventus. Proprio la Vecchia Signora tuttavia, obbligata a tornare in cima all’Italia dopo ormai mezzo decennio senza vittorie, spinge per riportare all’ovile il proprio figliol prodigo, dopo il clamoroso addio dell’estate 2014. Napoli e Torino, amore e libertà, così distanti e così vicine…