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La top 11 del Torino. Tra “Gli Invincibili” e il tremendismo

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Non sono automaticamente e solamente i successi a trasformare una squadra in un Mito. La dimostrazione arriva dal Torino. Perché nonostante i rivali della Juventus, il Milan e l’Inter siano le tre formazioni simbolo del calcio italiano, abbiano vinto molto di più e abbiano annoverato molti più campioni, la leggenda dei granata non smette di esistere e venire alimentata costantemente.

In parte può aver contribuito l’epopea d’oro del Grande Torino, lo squadrone degli Invincibili reso eterno dal rogo di Superga dopo aver fatto incetta di una serie impressionante di primati di squadra. In parte ha contribuito lo spirito che da sempre ha contraddistinto la storia del club e di chi ha vestito quella maglia: il cosiddetto tremendismo, termine partorito dalla sublime penna di Giovanni Arpino e che sottolinea il temperamento, l’orgoglio, la voglia, la mentalità (o come direbbero argentini e uruguagi, la garra) di chi sposa il colore granata.

Un colore che è una seconda pelle. Un colore sedimentato nel cuore dei tifosi del Torino sparsi in tutta Italia – ma soprattutto in Piemonte, dove essere del Toro è spesso percepito come un valore tramandato dai papà e dai nonni, nonché come un guanto di sfida da sbattere perennemente in faccia ai più ricchi e vincenti cugini bianconeri. Perché con tutto il rispetto per altre formazioni che hanno il granata come colore sociale, ma il colore Granata con la G maiuscola è solo uno ed è quello del Torino.

Vuoi per la sua storia, fortemente radicata in un’epoca pre-televisiva, se si abbozza una top 11 ideale della storia del Torino – cercando di unire la qualità degli interpreti, l’attaccamento alla maglia e lo spirito tremendista cui facevo riferimento sopra – non si può considerare solamente il periodo che parte dagli anni ’50-’60. Sarebbe una diminutio nei confronti di un club che ha fatto la storia del calcio italiano e che continua a farla, a modo suo, anche se il Toro non vince uno scudetto dalla stagione 1975-1976 (unico alloro tricolore del dopo-Superga) e manca dai primi cinque posti del campionato dal 1991-1992 quando giunse terzo.

In onore al Grande Torino e proprio per la presenza di tanti giocatori pre-televisivi, per la top 11 granata ho optato per il Sistema, il modulo con cui la formazione di Egri Erbstein dominò la Serie A subito al termine del secondo conflitto mondiale.

Portiere: Valerio Bacigalupo

Valerio Bacigalupo, portiere estremamente moderno per i suoi tempi

È un arrivo in volata tra lui, Luciano Castellini, il Giaguaro portiere dello scudetto del 1975-76, e Lido Vieri, recordman di presenze nel ruolo. Ma alla fine scelgo il guardiano del Grande Torino. Nato a Vado Ligure nel 1924, arrivò al Toro nel dopoguerra proveniente dal Genoa. Senso del piazzamento, atletismo innato e riflessi felini, 137 presenze in granata con 120 reti subite. Non si limitava a parare, ma usciva dall’area con coraggio e sapeva giocare con i piedi. Scrisse di lui Indro Montanelli sul Corriere della Sera: «Aveva un modo di giocare moderno, anticipava la partecipazione alla manovra dal basso che sarebbe diventata obbligatoria per i portieri più di cinquant’anni dopo».

Terzino destro: Aldo Ballarin

Altra scelta inevitabile, perché nessuno nel ruolo di terzino destro è stato più di lui nella storia del Torino. Originario di Chioggia, anche Ballarin giunse al Torino nell’immediato dopoguerra, proveniente dal Venezia per una cifra record di 1,5 milioni di lire. Stantuffo inesauribile sulla fascia, attento e scrupoloso anche in fase difensiva. Con i granata, fino allo schianto di Superga, mise insieme 148 presenze.

Difensore centrale: Roberto Cravero

Forse una scelta di cuore, più che suffragata dal valore tecnico. Avrei potuto optare per Mario Rigamonti, stopper del Grande Torino, per Roberto Rosato, fantastico francobollatore per sei stagioni prima di passare al Milan, o per Pasquale Bruno, indimenticato califfo difensivo dallo sguardo truce e dai modi spicci negli anni ’90. Vado per uno dei capitani storici della squadra granata. Vestì la maglia del Torino in 235 occasioni a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, conoscendo anche l’onta della Serie B al termine della stagione 1988-89. Risalito subito in A, fu tra i protagonisti dell’entusiasmante cavalcata che portò il Toro a perdere in modo sfortunato la finale di Coppa UEFA 1992 contro l’Ajax. Sempre in quella stagione il suo savoir fare e la sua eleganza furono fondamentali per arpionare il terzo posto in campionato: mai più il Torino, a oggi, si è spinto così in alto.

Terzino sinistro: Virgilio Maroso

Virgilio Maroso, terzino inesauribile e molto tecnico

Quando è morto a Superga non aveva ancora compiuto 24 anni e lasciava intravedere un futuro straordinario. Chissà cosa sarebbe divento Viri Maroso, che il giornalista italiano Adalberto Bortolotti ha descritto come «il terzino più tecnico del nostro calcio» e che tanti commentatori del tempo hanno definito un autentico asso della pedata. Si racconta che non avesse nulla in meno dei grandi fluidificanti mancini venuti dopo di lui – dagli azzurri Facchetti, Cabrini e Maldini all’olandese Krol, dai tedeschi Breitner, Brehme e Lahm ai brasiliani Nilton Santos e Roberto Carlos, a pochi altri interpreti. Forza, velocità supersonica (la leggenda narra che corresse i 100 metri in 11 secondi), interventi difensivi precisi ed efficaci, tecnica e raffinatezza stilistica tipiche delle grandi mezzali: un fiore di campo reciso nel fiore degli anni, nonché frenato spesso da una subdola pubalgia dalla quale era sovente tormentato.

Mediano destro: Giorgio Ferrini

Giorgio Ferrini: cuore granata

Con tutto il rispetto per Antonio Janni, inesauribile polmone del primo grande Torino, quello di fine anni ’20, e per Giuseppe Grezar, metronomo del Grande Torino, la scelta non può che ricadere su Giorgio Ferrini. Uno dei grandi simboli del Torino, archetipo perfetto di quel tremendismo di cui raccontavo all’inizio. Recordman di presenze in maglia granata con 568 gettoni, arrivato nelle giovanili da giovanissimo, fu girato in prestito un anno al Varese, poi fece ritorno all’ovile e non se ne andò più. Maglia numero 8, centrocampista di lotta e di governo, spirito di sacrificio e attaccamento alla maglia. Sfortunata la sua esperienza in azzurro: ai Mondiali 1962 venne espulso nella partita del girone contro il Cile. Si ritirò l’estate prima dello scudetto, entrando nello staff di Radice. Un aneurisma lo ha portato via a soli 37 anni. Come Meroni, come la generazione del Grande Torino, un eroe romantico rapito in cielo troppo presto.

Mediano sinistro: Renato Zaccarelli

Forse Eusebio Castigliano, il mediano-goleador del Grande Torino, sarebbe stato perfetto per il ruolo, ma non posso escludere Renato Zaccarelli, un’altra bandiera, un altro insostituibile, uno dei protagonisti dello scudetto del 1976. Terzo calciatore con più presenze nella storia del club dopo Ferrini e Pulici, Zac rimase in granata 13 stagioni, giocando un po’ ovunque, come si confaceva a diversi giocatori di quel periodo, i mitici anni ’70 innervati dalla rivoluzione oranje: mezzala di stile, mediano propulsore, infine libero. Resta l’ultimo granata ad aver segnato un gol in un Mondiale: Argentina 1978, Italia-Francia 2-1.

Mezzala di regia: Adolfo Baloncieri

Nato ad Alessandria, trasferitosi in giovane età in Argentina dove apprese i rudimenti della pedata e completò gli studi di ragioneria, Adolfo Baloncieri in campo fu però molto più di un ragioniere: divenne un architetto, un ingegnere, un genio della pelota. Forse il più bravo calciatore italiano prima di Giuseppe Meazza. Sicuramente il miglior giocatore del Toro prima dell’era del Grande Torino. Mente ed emblema del primo scudetto granata nella stagione 1927-28, riscattò quello revocato dell’annata precedente. Per Carlo Felice Chiesa è stato uno dei più grandi registi della storia, per Gianni Brera era «il più classico prodotto del calcio italiano negli anni ’20 e uno dei più classici di sempre». In azzurro 47 presenze, 25 reti, fu bronzo alle Olimpiadi di Amsterdam 1928.
Esclusione dolorosa dall’undici titolare quella di Ezio Loik, l’elefantino, spalla ideale di Capitan Valentino, giocatore capace di assolvere a più compiti senza mai scendere da un’elevata cifra di rendimento.

Mezzala d’attacco: Valentino Mazzola

Nessuno come Capitan Valentino nella storia del Torino

Se Maradona è il Napoli, Pelé è il Santos e Messi è il Barcellona… Valentino Mazzola è il Torino. Probabilmente il calciatore italiano più completo della storia. Mezzala universale e calciatore totale prima che comparissero Di Stéfano, Charlton e Cruijff. Difendeva, contrastava, impostava, si inseriva, segnava e comandava. Di aneddotti su Capitan Valentino (la C e la V volutamente maiuscoli) sono pieni i libri e trovate un articolo a lui dedicato cliccando qui. Il presidente Ferruccio Novo e l’allenatore Egri Erbstein hanno costruito intorno alla sua figura di leader tecnico e carismatico la squadra forse più iconica e leggendaria del nostro calcio. Arrivò dal Venezia a 23 anni, se ne andò, per sempre, sulla collina di Superga quando ne aveva 30. Ma nessun tifoso del Torino – di ieri, di oggi, di domani – potrà mai dimenticarlo.

Ala destra: Claudio Sala

Una delle scelte più complicate. Sono stato indeciso fino all’ultimo se puntare su di lui oppure su Gigi Meroni, l’artista dandy e bohémien che con il suo modo di vivere fuori dall’ordinario e la sua morte prematura ha fatto innamorare i tifosi granata negli anni ’60 (senza dimenticare un altro big del ruolo come il vicentino Romeo Menti). Però alla fine hanno avuto il sopravvento le qualità tecniche e lo straordinario impatto di Claudio Sala, il Poeta del Gol nel Toro degli anni ’70, l’ultimo Toro capace di arpionare lo scudetto. Capitano nell’anno del tricolore, dribbling letali, cross teleguidati dei quali ha beneficiato per anni la premiata ditta del gol Pulici&Graziani, fantasia e classe cristalline. La curva Maratona lo incensava così: “Dio perdona, Sala no”.

Centravanti: Paolo Pulici

Paolo Pulici in azione

C’era Guglielmo Gabetto, il centrattacco del Grande Torino, dalle piroette inafferrabili e dai gol impossibili. Però Puliciclone è stato il terminator del Toro di Radice, e dunque è inevitabile puntare su di lui. Bocciato dall’Inter, Paolo Pulici arrivò in granata dal Legnano e dopo alcune stagioni di ambientamento divenne uno dei cecchini di riferimento del calcio italiano: fu tre volte capo-cannoniere della Serie A in quattro stagioni, trascinando di forza – dall’alto di 21 reti – il Torino a un tricolore che mancava dall’anno di Superga. Chiuderà l’esperienza sotto le Mole nel 1982 dopo un bottino complessivo di 172 reti, miglior marcatore all time del Torino. Molto amato dai tifosi anche per la sua determinazione e la sua grinta, fu poco fortunata la sua esperienza in nazionale: 5 reti in 19 incontri.

Ala sinistra: Julio Libonatti

Chi c’è dietro a Pulici nella classifica dei migliori bomber nella storia del Torino? Lui, Julio Libonatti, tanguero argentino dai ritmi suadenti e dallo spirito caliente, dal carattere allegro e dalla battuta sempre pronta. Con Baloncieri e Rossetti fece grandi i granata sul finire degli anni ’20: 150 reti in nove stagioni, a coronamento di una carriera che lo aveva visto cominciare nella sua Rosario, in Argentina, e diventare poi un idolo nazionale dopo la vittoria della Coppa América del 1921. Edizione in cui Libonatti segnò il gol della vittoria contro i grandi rivali dell’Uruguay e venne portato in trionfo dai tifosi dallo stadio Barracas al centro di Buenos Aires. Per tutti era il Matador, o anche il Potrillo, il puledro, per evidenziare le sue doti da attaccante di razza. Per il portiere spagnolo Zamora era «il centravanti più temibile al mondo», un mix di tecnica e scaltrezza da gaucho e un sinistro che guizzava come una saetta verso il gol.

Baloncieri, Libonatti e Rossetti: trio delle meraviglie nel Toro di fine anni ’20

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