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Roberto Rosato: la “Faccia d’angelo” che non dava scampo agli avversari

Dal Torino al Milan alla nazionale la straordinaria carriera di Roberto Rosato, uno degli stopper più forti e vincenti del calcio italiano

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Immagine di copertina: Roberto Rosato fra Nereo Rocco e Bergamaschi con la Coppa Campioni e l’Intercontinentale

Ma signor Ussello, cosa fa? Me lo toglie subito?
Sta tranquillo, ho già visto abbastanza. Altrimenti me li spacca tutti.

È riassunta in questo scambio di battute tra il suo mentore Roberto Manolino e il talent scout granata Oberdan “Bida” Ussello, avvenuto in stretto dialetto piemontese durante il suo provino al Toro a metà Anni ’50, la cifra caratteriale e agonistica di Roberto Rosato, uno degli stopper più coriacei e dalla maggiore continuità di rendimento del calcio italiano, troppo spesso sottovalutato e ridotto al mero ruolo di “picchiatore”, trascurando le sue indubbie qualità tecniche e tattiche che ne fecero una delle colonne del Milan euromondiale di Nereo Rocco e della nazionale azzurra campione continentale a Roma nel ’68 e privata della Coppa Rimet solamente dal Brasile stellare del grande Pelé due anni più tardi in Messico.

Gli esordi granata

Rosato nei primi Anni ’60 con la maglia del Torino in una figurina d’epoca

Solido come una roccia, fortissimo nel tackle e nell’anticipo di testa, implacabile nel francobollare lo sfortunato attaccante di turno mantenendo una feroce concentrazione per tutta la partita, smaliziato ma corretto, rapido negli spostamenti grazie al suo passo breve e potente quanto preciso nei rilanci, il “gemello di Rivera” (nacque anche lui il 18 agosto 1943) cominciò a tirare calci al pallone dietro casa, sul campo in terra battuta dell’oratorio salesiano San Luigi nella natia Chieri, operosa città alle porte di Torino. Il talento di quel ragazzino all’apparenza esile, ma coraggioso e determinato che teneva testa senza remore anche a rivali più grandi d’età, non passò inosservato all’amico Roberto Manolino, di sei anni più vecchio e già cardine delle formazioni giovanili granata, il quale non si lasciò sfuggire l’occasione di accompagnarlo per un provino al Filadelfia, raggiunto a bordo di un’eccentrica Balilla a pois bianchi e neri.

Mister Ussello impose subito il suo tesseramento e cominciò ad impostarlo come centromediano, curandone sia la crescita come marcatore puro, sia le capacità di costruzione del gioco, caratteristica che divenne in seguito una delle sue armi vincenti con la maglia di Torino e Milan, e in azzurro. Completata la trafila nel vivaio granata impreziosita dalla presenza fissa nella nazionale Juniores, Rosato fece il suo esordio in serie A non ancora diciottenne, il 2 aprile 1961 a Firenze, chiamato dal tecnico Beniamino Santos per rimpiazzare l’infortunato Scesa. A fargli da “padrino” come capitano nell’1-1 contro i viola, il “vecio” Enzo Bearzot.

Nei cinque campionati successivi “Faccia d’angelo”, appellativo attribuitogli per i tratti gentili, quasi fanciulleschi, del volto che mascheravano la tempra gladiatoria riversata in campo, conquistò la maglia da titolare nel Torino alternandosi in tutti i ruoli della difesa e trasformandosi all’occorrenza in mediano pronto a rilanciare la manovra, favorito dalla sua duttilità di ambidestro. Prima chiave di volta della sua carriera la stagione 1963-’64, quando Orfeo Pianelli assunse la presidenza del Torino (culminata nello storico scudetto del 1976 che riportò il tricolore sul petto dei granata 27 anni dopo la tragedia di Superga) e Nereo Rocco divenne il timoniere in panchina per tenere fede agli accordi suggellati con una stretta di mano qualche mese prima di condurre il Milan alla conquista della Coppa dei Campioni. Il tecnico triestino, burbero bonario dal cuore tenero, prese sotto la sua ala protettiva il giovane Roberto e divenne per lui quasi un secondo padre.

A testimoniarlo un curioso aneddoto seguito al derby di ritorno della primavera ’64. Rosato e lo juventino Del Sol vennero eletti migliori in campo da una giuria di giornalisti, ricevendo in premio una fiammante Vespa messa in palio da una concessionaria d’auto. Il martedì, alla ripresa degli allenamenti, Rosato varcava fiero il cancello del Filadelfia a cavallo della sua due ruote, quando incrociò lo sguardo di Rocco che lo travolse con una sequela di improperi in triestino ricordandogli la pericolosità delle motociclette e le drammatiche conseguenze che un incidente avrebbe potuto avere per la sua carriera. Immediata la restituzione della Vespa al concessionario, sostituita da una più “tranquilla” auto sportiva.

L’approdo in nazionale

Dal granata all’azzurro della nazionale il passo fu breve. Edmondo Fabbri, cui era stato affidato il compito di ricostruire la squadra dopo la disastrosa spedizione dei Mondiali del ’62 in Cile, fece esordire Rosato il 13 marzo 1965 nell’amichevole contro la Germania disputata al Volkparkstadion di Amburgo e terminata sull’1-1. In una gara che definire dai toni agonistici accesi sarebbe un eufemismo, il chierese fece la sua parte in mediana imbrigliando con le buone o con le cattive la mezzala tedesca Konietzka e meritandosi l’appellativo di “Mastino di Amburgo”. Quella in terra teutonica fu la prima delle sue 37 presenze in azzurro. Roberto divenne ben presto una pedina fondamentale nello scacchiere di Fabbri, che prediligeva un calcio propositivo preferendo, anche tra i difensori, gli elementi dai “piedi buoni” in grado di impostare la manovra. Assieme allo juventino Salvadore andò a formare la coppia stopper-libero titolare, soppiantando gli interisti Guarneri e Picchi, dediti, secondo il tecnico emiliano, solo al gioco di rottura. I Mondiali inglesi del 1966 riservarono però a Rosato e compagni una cocente delusione, in parte mitigata dall’essere stato risparmiato dalla figuraccia contro la Corea del Nord.

Con il Milan per vincere tutto

Il definitivo salto di qualità nella carriera di Rosato arrivò nell’estate del ’66, quando per ragioni di bilancio il presidente granata Pianelli lo cedette al Milan in cambio di Trebbi, Cesare Maldini e 400 milioni di lire. La prima stagione in rossonero fu di assestamento, con Roberto, afflitto anche da problemi fisici, che sentì troppo il peso di essere stato l’acquisto più costoso del mercato milanista, faticando più del dovuto ad ambientarsi e ad inserirsi negli schemi di mister Silvestri, che lo impiegava quasi stabilmente in mediana. La Coppa Italia vinta a spese del Padova salvò però la stagione e fu il trampolino di lancio verso annate indimenticabili.

Decisivo il ritorno in panchina nell’estate 1967 di Nereo Rocco. Il Paron coniò una squadra a sua immagine e somiglianza incentrata su giocatori di esperienza, che aveva nei suoi pupilli dei veri e propri allenatori in campo. Il Diavolo, solido e pragmatico, era solo all’apparenza una compagine dedita a catenaccio e contropiede. Reparto difensivo insormontabile con Cudicini tra i pali, Anquilletti e Schnellinger tezini esterni, Rosato stopper e Malatrasi libero; a centrocampo la fantasia e la vena realizzativa di Rivera erano supportate dai “settepolmoni” Lodetti e Trapattoni, mentre in attacco il trio Hamrin-Sormani-Prati coniugava rapidità, potenza e concretezza. In due stagioni il Milan vinse tutto salendo sul tetto del mondo: campionato e Coppa delle Coppe nel ’68, Coppa dei Campioni e Intercontinentale nel ’69.

Rosato contrasta Mazzola nel derby Milan-Inter del campionato 1971-’72 (www.magliarossonera.it)

Rosato divenne tessera inamovibile di quel mosaico perfetto, meritandosi il nuovo soprannome di “martello di Chieri”. Meticoloso, studiava le relazioni sugli attaccanti avversari riuscendo ad adattarsi alla marcatura di ogni rivale: rapido e dedito all’anticipo con i brevilinei, arcigno con quelli dal fisico più potente. Di fronte ad una punta sconosciuta, specie in campo internazionale (all’epoca i filmati erano merce rara), inizialmente temporeggiava e, individuatene in fretta le caratteristiche, finiva regolarmente per sopraffarla.

Particolarmente scalto, faceva valere il mestiere sui calci da fermo poggiando il gomito sul petto o sui fianchi del centravanti per non farlo saltare, oppure utilizzando la scarpa del rivale come trampolino per darsi lo slancio e arrivare prima sul pallone. Il tutto sfuggendo quasi sempre agli occhi dell’arbitro. Il suo motto era: “Se non la prendo io, non deve prenderla neanche lui”. Anticipare, assillare e tacere erano i suoi principi ispiratori. Da ricordare i suoi siparietti col “principe del fischietto” Concetto Lo Bello. Quando Roberto esagerava, l’arbitro siracusano lo riprendeva con distacco con un: “Martello, questo non lo deve fare”; pronta la risposta: “Mi scusi, non lo farò più“, e via verso un nuovo intervento a rubare palla all’attaccante.

Benvoluto dai compagni di squadra, lo stopper chierese veniva spesso preso in giro per la sua parsimonia. Giovanni Lodetti sosteneva avesse un serpente nelle tasche che gli impedisse di mettere mano al portafoglio quando si trovava con i compagni al bancone del bar di Milanello, mentre nelle gare al termine dell’allenamento in cui si doveva calciare il pallone in un triangolo posto all’incrocio dei pali, nelle quali gli ultimi due a riuscirci dovevano pagare da bere per tutti, Rosato centrava quasi sempre il bersaglio al primo colpo. Epiche anche le sue sfide in auto verso la cittadella rossonera con Schnellinger, esterrefatto dallo stile di guida del compagno.

Gli interventi e i gol di Roberto Rosato

Consacrazione azzurra: sul tetto d’Europa e un Mondiale sfiorato

Finito ai margini della nazionale scontando l’eredità del tonfo con i coreani, Rosato vi rientrò a pieno titolo nell’appuntamento più importante del 1968, ovvero la ripetizione della finale europea con la Jugoslavia. Dopo lo stentato 1-1 del primo confronto, il cui i timorosi azzurri furono surclassati dai “plavi” e salvati solo dalla “sassata” su punizione di Domenghini, Valcareggi rivoluzionò la formazione dandole un’impronta più offensiva. Salvadore, Mazzola, De Sisti e Riva presero il posto di Castano, Juliano, Lodetti e Prati, mentre Rosato rilevò in mediana l’ex compagno granata Ferrini. A “Faccia d’Angelo” fu assegnato il compito di neutralizzare la temuta mezzala Hosic e proprio con uno dei suoi caratteristici anticipi diede il là all’azione del vantaggio azzurro siglato da Riva.

“Messico e nuvole” non è solo il titolo di una canzone di Enzo Jannacci, ma anche il filo conduttore della fantastica avventura vissuta ai Mondiali del 1970. Qui Rosato riuscì ancora una volta, grazie alla dedizione negli allenamenti e in questo caso anche alla fortuna, a conquistarsi una maglia da titolare, inanellando una serie di prestazioni di altissimo livello che gli valsero il titolo di miglior stopper della competizione. La coppia di difensori centrali della nazionale era inizialmente quella del Cagliari fresco campione d’Italia, con Cera libero e Niccolai stopper. Un infortunio mise però fuori gioco quest’ultimo dopo poco più di mezzora della gara d’esordio contro la Svezia e il “martello Chieri” fu gettato nella mischia senza uscirci più. Nessuno dei centravanti da lui marcati riuscì a segnare, con l’apice toccato nella “partita del secolo” contro Gerd Műller. Rosato lo controllò giocando d’anticipo e mantenendosi a mezzo metro di distanza per non concedergli punti d’appoggio.

Schnellinger e Rosato prima di Italia-Germania 4-3

Gerd era infatti abilissimo abile nel ricevere palla e fare perno sull’avversario in modo da sfuggirgli con un’improvvisa rotazione e un successivo fulmineo scatto. Le abilità in acrobazia consentirono poi a Roberto di compiere nel finale dei regolamentari l’incredibile salvataggio sulla linea stile karateka sul tiro di Grabowski, ma un infortunio alla caviglia privò lo stopper azzurro dei supplementari più pazzi della storia, dando via libera alla doppietta del tedesco, ricordata dai due, così come la partita, nelle successive vacanze che trascorsero con le rispettive famiglie ad Alassio.

L’incredibile salvataggio di Rosato nella semifinale di Messico ’70 contro la Germania

Astuzia e rapidità fruttarono a Rosato anche un ambito cimelio. Con la Coppa Rimet ormai in volo verso Rio de Janeiro, gli ultimi minuti della finale col Brasile gli servirono per marcare Pelé a distanza con lo sguardo. Al triplice fischio si fiondò sul rivale precedendo l’invasione di campo dei tifosi e gli sfilò la maglietta che nascose nei calzoncini guadagnando velocemente la via degli spogliatoi. Roberto conservò gelosamente la numero 10 verdeoro fino ai primi anni Duemila, quando la vendette all’asta dividendo il ricavato tra i suoi tre figli.

Le stagioni conclusive della sua parabola milanista gli riservarono qualche gioia, come la vittoria della Coppa delle Coppe del ’73 e le Coppe Italia del ’72 (suo uno dei due gol al Napoli in finale) e ’73 e la cocente delusione dello scudetto della stella sfumato sul filo di lana nella “fatal Verona“. Rosato chiuse la sua carriera professionistica al Genoa, facendo la spola fra serie A e B per quattro stagioni fino al 1977. Dopodiché il “buen retiro” fra la sua villa di Pino Torinese e Chieri, dove svolse per anni la professione di assicuratore, sempre festeggiato ai raduni dei tifosi granata e rossoneri.

Ci ha lasciato il 20 giugno 2010, dopo aver lottato a lungo contro un tumore, unico avversario che non è riuscito a marcare. Lo stesso giorno la nazionale, impegnata contro la Nuova Zelanda nei Mondiali sudafricani, giocò con il lutto al braccio. Negli anni seguenti il Toro Club chierese ha preso il suo nome e il Calcio Chieri gli ha dedicato il nuovo centro sportivo per mantenere vivo il ricordo della maggiore gloria calcistica cittadina e di uno dei difensori più efficaci del calcio italiano.

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