Claudio Sala al cross contro il Verona nel campionato 1976-’77 [www.faziosi.it]
Il suo tocco di palla era un ricamo d’arte. Le sue sgroppate sulla fascia, i dribbling insistiti e i cross al bacio per i Gemelli del Gol hanno fatto innamorare non solo gli appassionati granata della Curva Maratona, ma tutti gli esteti del calcio. Assieme a Causio e Bruno Conti ha sublimato il ruolo di ala tornante e oggi continua ad andare alla ricerca della qualità producendo vini pregiati del Piemonte. Dagli esordi nella sua Brianza all’affermazione nel Napoli, sino alla consacrazione nel Torino con lo storico scudetto del 1976, Claudio Sala ripercorre assieme a Game of Goals una carriera sempre improntata all’estro e al carattere, con il solo grande rammarico di avere trovato poco spazio in Nazionale.
Claudio, il suo primo approccio col calcio ha avuto tinte nerazzurre.
Sì, mio papà era tifoso dell’Inter e spesso mi portava a San Siro a vedere quella squadra di campioni. Poi, nelle interminabili partite con gli amici disputate nei prati lungo la ferrovia e nelle strade di Macherio, il mio paese, cercavo di replicare le giocate e le finte di Corso, il mio idolo insieme a Suarez. Ai miei tempi non esistevano come oggi le scuole calcio dove ti dicono per filo e per segno quello che devi fare. Ho imparato tutto da solo, dal controllare la palla nello stretto fra una selva di gambe ad usare entrambi i piedi, ma forse questo è stato un dono di natura.
Fino al primo provino.
Sempre andando allo stadio, leggemmo su un giornale che l’Inter organizzava una leva calcistica per i ragazzi delle classi 1947 e ’48. Così mio padre mi accompagnò a Rogoredo, dove si teneva la selezione. Ebbi la fortuna di essere scelto fra i tanti venuti a provare, ma l’Inter mi tenne solo un anno nelle sue giovanili, lasciandomi poi libero.
E la sua carriera prese la strada di Monza.
L’amico Canzi, che giocava già nella prima squadra biancorossa in serie B, mi propose per un altro provino. Con mia sorpresa fu interrotto quasi subito. In seguito mi spiegarono che quel giorno c’erano gli osservatori di molte squadre e il Monza, convinto in fretta dalla mie qualità, mi tolse presto dal campo per non rischiare che qualche altra società potesse farmi firmare prima di loro.
A nemmeno diciannove anni il debutto in serie B.
Eravamo nella stagione 1965-’66 e stavamo lottando per non retrocedere. Ettore Puricelli, “Testina d’oro”, era da poco subentrato in panchina per cercare di raddrizzare la situazione. Nei giorni precedenti la garaa con la Reggiana mi prese da parte dicendomi: “Domenica ti faccio esordire”. Purtroppo la partita finì 0-0 e segnò di fatto la nostra discesa in serie C, con Puricelli che rassegnò subito le dimissioni. Sempre nella parte finale di quel campionato degli osservatori di Toro vennero a vedermi contro il Mantova, che sarebbe poi salito in serie A, ma la relazione fu negativa e non se ne fece niente.
Nell'annata successiva in serie C, lei ebbe un incontro particolare.
Ad allenare il Monza fu chiamato Gigi Radice, poco più che trentenne, appena ritiratosi dall’attività agonistica a causa di un infortunio. Aveva già idee innovative e sotto la sua guida vincemmo il campionato. Ci saremmo ritrovati qualche anno dopo al Toro.
Le sue prestazioni le valsero le attenzioni del Napoli.
Che acquistò la comproprietà del cartellino, ma preferì lasciarmi ancora un anno al Monza, in serie B, permettendomi anche di completare gli studi di Ragioneria.
Nel '68-'69 l'approdo sotto il Vesuvio. Che cosa le ha lasciato dentro l'esperienza napoletana?
Era la prima volta che andavo via da casa e l’ambientamento in una grande città, piuttosto caotica, non fu facile, ma fu una scuola di vita. Con gli azzurri ebbi modo di calcare il palcoscenico della serie A giocando assieme a compagni del calibro di Zoff, Canè, Juliano, Altafini e Sivori. Io e Nielsen, arrivato dal Bologna, eravamo le riserve del reparto avanzato. Feci fatica a trovare spazio, ma alla fine misi assieme 23 presenze su 30 con un crescendo di rendimento nel finale di stagione.
Che fece di nuovo "innamorare" il presidente granata Orfeo Pianelli, il quale questa volta dovette scucire ben 450 milioni di lire dell'epoca per portarla all'ombra della Mole. Lo spirito del Filadelfia l'ha subito contagiata?
Per me fu una sorpresa, in quanto quando arrivai in granata non conoscevo la storia e i valori del Toro. Furono i compagni più vecchi a trasmettermeli. Da loro ho imparato ad essere agonisticamente “cattivo”, a non mollare mai dando tutto per la maglia. Negli anni torinesi ho inoltre acquisito maggiore concretezza nel gioco, prima cercavo più il bello che il pratico.
Parliamo del suo ruolo in campo. Nel corso della sua carriera l'ha modificato più volte, sino alla consacrazione come ala destra.
In origine ero una mezzapunta e mi piaceva in modo particolare cercare la giocata estrosa. Al Toro ho vestito tutte le maglie del fronte d’attacco dal 7 all’11, alternandomi nelle varie posizioni.
Prima significativa variazione la "forbice" ideata da Edmondo Fabbri nella stagione 1974-'75.
Quell’anno giocai col numero 9 in un ruolo atipico a metà strada fra il centravanti arretrato e il trequartista, con Graziani e Pulici che agivano molto larghi sul fronte d’attacco, il primo a destra, l’altro a sinistra. Questo modulo avrebbe dovuto favorire gli inserimenti dei centrocampisti allargando le difese avversarie, ma a parte il sottoscritto, gli altri compagni di reparto non avevano grandi attitudini offensive. Inoltre, Pulici e Graziani dovevano duettare troppo distanti fra loro e la soluzione tattica non portò i risultati sperati. Cambiando ruolo e non giocando più da mezzala, persi anche il posto in Nazionale.
Altra svolta, questa volta molto più felice, nell'estate 1975 con l'arrivo sulla panchina granata di Gigi Radice.
A margine di un allenamento, durante il ritiro, mi prese da parte dicendomi: “Da adesso non giochi più col 10, prendi il 7 e vai in fascia”. Dentro di me pensai che fosse impazzito, ma aveva ragione lui. L’obiettivo principale era andare sempre sul fondo e mettere cross a ripetizione per Pulici e Graziani, che finalmente occupavano l’area. Partivo da destra, poi durante la partita cambiavo più volte fascia cercando di sorprendere i difensori avversari. Il resto lo facevano i dribbling. Radice mi lasciava libero di muovermi a seconda delle circostanze, diciamo che mi sono creato un ruolo, interpretando a modo mio quello di tornante.
Quella stagione, in cui lei divenne il capitano dei granata, si concluse in maniera trionfale con uno scudetto storico quanto inatteso al termine di una incredibile rimonta sulla Juventus.
Quel Toro era davvero spettacolare. Facevamo pressing alto a partire dagli attaccanti, fuorigioco esasperato fin quasi a metà campo, puntavamo molto su ritmo, intensità e spesso ci scambiavamo le posizioni in campo, secondo il modo di interpretare il calcio lanciato dagli olandesi in voga all’epoca. Radice era avanti anni come concezioni tattiche e come preparazione, curava al massimo i dettagli. Il rammarico è quello di avere vinto uno scudetto a 45 punti ed essere arrivati secondi l’anno successivo mettendone assieme addirittura 50, preceduti di una lunghezza dalla Juve. Cose che solo al Toro possono succedere.
Gli anni Settanta nella città della Mole sono diventati famosi anche per i derby infuocati al Comunale. Quale di questi ricorda con più piacere?
Senza dubbio quello di ritorno giocato nel marzo 1972, giusto cinquant’anni fa. Loro andarono in vantaggio con un tiro al volo di Anastasi su lancio di Capello, poi pareggiai io con una punizione dal limite che misi all’incrocio calciando col mancino. Nella ripresa Agroppi segnò il gol decisivo ribadendo in rete una respinta di Carmignani su colpo di testa di Fossati. Quel successo ci portò per la prima volta ad avvicinarci alla Juve ed a lottare per il vertice. Purtroppo, anche in quell’occasione finimmo secondi, a pari merito col Milan, ad un solo punto dai bianconeri.
Essere ambidestro era un'altra delle sue peculiarità.
E’ vero, calciavo indifferentemente con i due piedi, e questo mi ha fregato quando dovevo tirare i rigori. Ero sempre indeciso se battere di destro o di sinistro e finivo per sbagliarli. Dopo un paio di errori ho preferito lasciare ad altri l’incombenza e concentrarmi sulle punizioni. Se sbagli dal dischetto è colpa tua, quando metti dentro una punizione ricevi solo complimenti.
Nelle stracittadine ha anche incontrato i suoi avversari più ostici.
Furino e Gentile su tutti, gran bei duelli. Poi come sappiamo Gentile era abituato a collezionare pezzi di maglia degli avversari (ride, n.d.r.). Prima di quelle di Maradona e Zico ha strappato la mia, come testimonia una foto di quegli anni. Comunque erano sempre sfide dure, ma cavalleresche e leali, e anche io sapevo farmi rispettare.
I giocatori più forti che ha incrociato nella sua carriera?
Sono legati alla mia sporadica presenza in azzurro: come compagno Gigi Riva per lo strapotere fisico e il fiuto del gol; da avversario Platini per la classe e l’intelligenza calcistica.
Veniamo al capitolo Nazionale, forse uno dei pochi rimpianti della sua esperienza agonistica.
Quando giocavo col 10 da mezzala, nei primi anni Settanta, avevo davanti Rivera e Mazzola. Quando sono passato in fascia ho pensato di poter trovare più spazio, ma c’era Causio già titolare. Bearzot, benché fosse un “vecchio cuore granata”, da commissario tecnico ha sempre razionalmente preferito e puntato sul blocco della Juve. D’altronde era più facile innestare pochi elementi su un telaio già affiatato di sette-otto giocatori, che amalgamare un organico nuovo con calciatori provenienti da più squadre.
E proprio in azzurro ha vissuto la più grossa delusione, a livello personale, della carriera.
Sì. Nell’ottobre del ’77 si giocò a Torino la partita con la Finlandia, decisiva per la qualificazione ai Mondiali di Argentina. Stadio gremito, nell’undici titolare sei bianconeri e tre granata più Antognoni e capitan Facchetti. Naturalmente Causio partiva dall’inizio e io sedevo in panchina. La partita si mise subito bene e si concluse con un sonoro 6-1 per noi, con i famosi quattro gol di Bettega. Nella ripresa, a successo ormai archiviato, ho sperato a lungo che Bearzot mi concedesse uno scampolo di ribalta davanti al mio pubblico, invece non effettuòneppure una sostituzione. Fu una delusione tremenda.
Blocchi bianconero e granata contrapposti, con qualche polemica sull'opportunità delle scelte del commissario tecnico, anche ai Mondiali di Argentina '78.
Tra la sorpresa generale partimmo forte con le vittorie su Francia e Ungheria, poi arrivò l’ultima gara del girone eliminatorio contro i padroni di casa, che valeva solo per il platonico primo posto e la possibilità di continuare a giocare la seconda fase a Buenos Aires. Speravamo che Bearzot facesse riposare qualche juventino dando spazio ad altri, ma la mattina precedente la gara vedemmo che prendeva da parte i titolari quasi li volesse confessare. Evidentemente stava chiedendo loro se avessero voluto giocare. La risposta fu scontata da parte di tutti e scese in campo la solita formazione. Ottenemmo una vittoria di prestigio, ma nella seconda fase la fatica si fece sentire e a gioco lungo pagammo gli sforzi e le scelte di impiegare sempre degli stessi, dovendoci accontentare del quarto posto. Tutto l’opposto di quello che successe quattro anni dopo in Spagna, quando la preparazione fu più mirata e diede vita al crescendo che portò l’Italia al titolo Mondiale.
Lasciati i ricordi fra gioie e delusioni, veniamo all'attualità con un'opinione sul suo Toro e sul momento del calcio italiano.
Quest’anno il Toro ha avuto una buona partenza, ha assimilato in fretta il nuovo gioco portato da Juric, che ha anche rinvigorito il carattere e la determinazione tipici dell’ambiente granata. Sono arrivati punti importanti, poi c’è stato un calo di continuità nei risultati, aspetto su cui si dovrà lavorare. Per quanto riguarda lo stato di salute del movimento italiano, sappiamo che il calcio vive di episodi e protagonisti e in questo momento, soprattutto per i secondi, siamo in fase calante. D’altronde vedo lo stesso calo di valori e di grosse figure di spicco a livello internazionale. Speriamo che si possa risalire presto la china, cominciando dagli imminenti spareggi per i Mondiali.
Dalla qualità delle giocate sul campo a quella nel bicchiere. Lei oggi si dedica alla produzione di vini.
E’ un’attività che mi piace molto e mi dà soddisfazione. Col marchio “I Filari del Poeta” produco vini del Piemonte commercializzati dal mio socio Renato Trevisan e le promozioni nei centri commerciali sono sempre l’occasione per incontrare di nuovo i tifosi, non necessariamente granata, e intrattenersi con loro conversando di calcio e di vino.
Poeta come "Poeta del Gol", l'appellativo coniato per lei negli anni ruggenti della sua carriera e che l'accompagna ancora oggi. Chi ne è stato l'artefice?
A dire il vero non lo so. Nei primi anni al Toro i tifosi avevano creato lo slogan “Dio perdona, Claudio Sala no”, poi è venuto fuori “Il Poeta del Gol”. C’è chi dice che l’abbia coniato il giornalista Giampaolo Ormezzano, ma non c’è certezza. Comunque, me lo tengo ben stretto.
La certezza è quella dei dribbling, dei cross e delle giocate d’autore di Claudio Sala, che fanno parte della storia del calcio granata ed italiano.
CHI È CLAUDIO SALA |
Nato a Macherio, oggi in provincia di Monza Brianza, l’8 settembre 1947, dopo una fugace apparizione nel vivaio dell’Inter cresce nel settore giovanile del Monza esordendo in serie B nel campionato 1965-’66. Con i biancorossi giocherà tre stagioni, conquistando nel ’66-’67 la promozione dalla C alla B. Nel 1968-’69 il trasferimento al Napoli, dove si mette in evidenza come mezzala dotata di tecnica e fantasia collezionando 23 presenze e 2 reti in campionato ed ereditando la maglia numero 10 di Omar Sivori dopo il ritorno in patria dell’argentino a metà stagione. Nel 1969-’70 l’approdo al Torino. In undici stagioni consecutive in maglia granata disputa 286 partite mettendo a segno 25 reti, conquista la Coppa Italia 1971 (vinta ai rigori nello spareggio contro il Milan) e soprattutto lo storico scudetto del 1976. Fondamentale per la sua carriera lo spostamento all’ala voluto da mister Radice, che lo consacrò come uno dei migliori interpreti del ruolo. Nel 1976 e 1977 ottenne il Guerin d’Oro, riconoscimento che andava al miglior giocatore della serie A. Tra il 1980 e il 1982 ha chiuso la carriera nel Genoa con 41 presenze e una promozione in serie A. In Nazionale esordisce il 20 ottobre 1971 a Roma contro l’Austria in una gara terminata 2-2 e valevole per le qualificazioni agli Europei del 1972. In totale vestirà l’azzurro 18 volte, partecipando ai Mondiali di Argentina ’78, dove scenderà in campo, entrando nella ripresa, nelle sfortunate partite contro Olanda e Brasile. Terminata la carriera agonistica, ha iniziato ad allenare le giovanili granata assumendo anche la guida della prima squadra dal dicembre 1988 al maggio 1989, nella sfortunata stagione che vide la retrocessione del Torino in serie B. Quindi un campionato come tecnico del Catanzaro in C1 ed una fugace apparizione sulla panchina del Moncalieri in serie C2 nella primavera del 2001. |