Romeo Benetti in maglia azzurra agli Europei del 1980 (foto goal.com)
Si è costruito la fama di duro per eccellenza del calcio italiano. Una roccia granitica nei contrasti che incuteva timore agli avversari, sempre pronto a dare sostegno ai compagni grazie anche a qualità tecnico-tattiche non indifferenti che lo portavano spesso a trovare la via della rete. Romeo Benetti è stato fra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta uno dei centrocampisti più completi, efficaci e vincenti del nostro campionato e della Nazionale, l’unico ad aver giocato il derby nelle quattro metropoli italiane.
Carattere schietto, senza peli sulla lingua, con una contagiosa simpatia e un intercalare ironico ereditato dalle sue origini veronesi, oggi dall’alto dei suoi 76 anni osserva con leggerezza e distacco dal buen retiro di Leivi, sulle alture genovesi, un calcio sempre più frenetico e svuotato nell’anima, non disdegnando di dispensare qualche inevitabile punzecchiatura. Assieme a “Game of Goals” ripercorre carriera e bei tempi andati, volgendo uno sguardo anche all’attuale stato di salute del nostro football.
Romeo, partiamo dagli inizi. Il suo approccio col pallone è stato diametralmente opposto a quello che hanno oggi i ragazzi.
Vero, del tutto diverso. I campi sportivi quasi non esistevano e i bambini cominciavano a giocare all’oratorio. La mia fortuna calcistica è stata quella di avere vissuto dagli 8 ai 16 anni in collegio a Venezia. Trecento ragazzi esuberanti con voglia di correre e divertirsi, campo improvvisato nel cortile, l’erba non cresceva nemmeno se la disegnavi, le porte venivano pitturate sui muri e si giocavano diverse partite in contemporanea. Dovevi essere bravo a scansare i partecipanti alle altre partite e a riconoscere i tuoi compagni. Per fortuna ogni pallone aveva un colore diverso, e attenzione a non cadere, altrimenti erano dolori! La tecnica la affinavi in maniera naturale, non come oggi dove si credono dei fenomeni perché magari sono riusciti a stoppare per sbaglio un pallone. E’ stata una bella scuola di vita.
Tutto il contrario delle scuole calcio.
Nelle scuole calcio la fantasia viene annullata. I bambini mi sembrano troppo sedentari e ingabbiati. Si alzano al mattino e la mamma gli mette fretta per far colazione al volo e andare a scuola. Poi tutto il tempo fra i banchi, il ritorno a casa, pranzo, compiti da fare e via di corsa verso la scuola calcio dove continuano a prendere ordini anche dall’allenatore. Non hanno modo di esprimersi liberamente, secondo me non si divertono più.
Dopo il collegio l'ingresso nel calcio "vero" al Bolzano in serie D e l'inizio di una gavetta lungo la Penisola.
Ho girato molto per l’Italia, ma in realtà di gavetta ne ho fatta poca e ho subito cominciato a collezionare soddisfazioni a tutti i livelli, come il terzo posto in serie C a Siena e a Taranto e la vittoria del campionato di serie B con il Palermo. Diciamo che ho fatto la fortuna di tutti gli allenatori che mi hanno avuto.
Nell'estate del '68 il suo primo trasferimento alla Juventus, dove non riuscì però ad integrarsi nell'ambiente anche a causa della scarsa considerazione che il tecnico Heriberto Herrera aveva nei suoi confronti, seguito dall'affermazione nella stagione successiva alla Sampdoria e dal passaggio al Milan nel '70, fortemente voluto da Nereo Rocco, che da avversario aveva apprezzato le sue doti temperamentali e tattiche.
Per forza, dopo un contrasto Cudicini, Anquilletti e Trapattoni erano finiti a terra, mentre l’unico rimasto in piedi ero io e questo il Paron lo apprezzava. Ho sempre fatto leva sull’esuberanza e sul fisico. All’inizio venivo impiegato in una posizione più avanzata, poi col tempo sono stato arretrato in mediana a marcare il centrocampista avversario più pericoloso e a correre in lungo e in largo recuperando palloni e dando una mano ai “vecchietti” della squadra.
L'infortunio del bolognese Liguori dopo una sua durissima entrata nel gennaio del 1971 ha segnato in negativo la sua fama. Lei è diventato il "picchiatore", anche se a onor del vero non è mai stato espulso per interventi violenti. Era il classico giocatore ruvido ma estremamente leale, che le dava e le prendeva senza tirarsi indietro.
In Italia quando ti battezzano ti porti dietro l’etichetta per sempre. E’ facile trovare il capro espiatorio ed addossargli tutte le colpe. Devo dire che negli anni con questa fama di duro ci ho anche giocato e mi ha pure fatto piacere. Con una piccola delusione: un giornale inglese ha stilato la classifica dei calciatori più cattivi al mondo e mi ha messo solo al quarto posto. Peccato, pensavo di essere il primo! (ride, n.d.r.). Una delle cose che mi ha fatto più sorridere è stato sentire una mamma rimproverare il figlio dicendogli “Se non stai zitto chiamo Benetti!”
Non solo grinta e senso tattico però, ma anche un discreto fiuto del gol, specie con le conclusioni dalla distanza, come quella al volo a Firenze nella primavera del '77 con la maglia della Juventus che le valse il premio per il più bel gol del campionato.
Ci provavo spesso, mi ha sempre divertito cercare la porta sia con le incursioni, sia con i tiri da lontano, che forse trovavano i portieri un po’ addormentati.
Sei stagioni al Milan non si possono scordare. Per lei un'esperienza intensa fra le gioie di una Coppa delle Coppe e due Coppe Italia e i dolori di tre scudetti svaniti sul filo di lana, su tutti quello della "fatal Verona" del '73. Che cosa le è rimasto di quel periodo?
Al di là dei risultati sul campo, che alla fine si compensano, il ricordo di un gruppo di compagni unito, la soddisfazione di essere stato quasi sempre presente e l’affetto dei tifosi, che mi hanno eletto a “Stella rossonera”. Purtroppo negli ultimi tempi la situazione societaria era diventata sempre più precaria e avevamo anche qualche difficoltà a ricevere gli stipendi. Tutto questo ha influito sul rendimento di una squadra che in quel periodo avrebbe potuto fare di più.
Nell'estate del '76 il clamoroso scambio con Capello sull'asse Juventus-Milan, in contemporanea a quello Boninsegna-Anastasi fra nerazzurri e bianconeri. Lei e Bonimba, giudicati dalla critica quasi come "ferri vecchi", vi siete presi delle gran belle rivincite negli anni al servizio della Vecchia Signora.
In quegli anni i giocatori erano di proprietà delle società e dovevi andare a giocare dove ti mandavano, senza poterti opporre. Non parlerei però di rivincite, tenga conto che con Capello il Milan ha preso un regista completo e si è costruito un grandissimo allenatore per il futuro. Quella Juve comunque era uno spettacolo: squadra volitiva, duttile, moderna tatticamente, con tutta gente dai piedi buoni elastica nell’interpretazione dei ruoli. Ci adattavamo e sapevamo affrontare qualsiasi avversario. Se la mettevano sulla forza non c’erano problemi, specie col sottoscritto e Furino; sulla tecnica men che meno, vedi Causio, Bettega e Scirea; e anche a livello dialettico ci facevamo rispettare da tutti. I valori aggiunti erano però un presidente come Boniperti, che ne capiva di calcio come pochi, e un allenatore giovane e determinato come il mio ex compagno di squadra Trapattoni, bravissimo a caricarci. Due scudetti di fila, il primo dopo il fantastico braccio di ferro con il Torino, la Coppa UEFA, primo trionfo europeo della Juve, ed una Coppa Italia penso che parlino da soli.
La chiusura nella Roma, dove ha lasciato ancora il segno.
Altre due Coppe Italia penso non siano male, poi ho fatto da chioccia alla nascente squadra di Liedholm che qualche anno dopo avrebbe vinto lo scudetto.
Capitolo Nazionale. Un altro contesto dove lei non è proprio passato inosservato.
Sono entrato in azzurro quasi per “sbaglio”, data la concorrenza non da poco di Bedin e soprattutto Bertini, poi mi sono conquistato il mio spazio dando penso un bel contributo, fino a essere giustamente accantonato per limiti d’età a favore dei più giovani Marini e Oriali.
Dopo la perla del primo storico successo a Wembley nel novembre '73 e la delusione dei Mondiali di Germania del '74, dove lei mise comunque lo zampino provocando l'autorete di Perfumo nel pareggio con l'Argentina, le maggiori soddisfazioni in azzurro sono arrivate dal Mondiale del '78. In quel contesto la formazione di Bearzot espresse forse il suo gioco migliore ottenendo un quarto posto che anticipò il trionfo in Spagna e lei offrì la consueta costanza di rendimento impreziosita dal gol all'Ungheria.
E’ stata una grande esperienza. C’era in pratica la Juve trasferita in Nazionale, ad un certo punto con nove elementi in campo integrati dalla sorpresa Paolo Rossi in attacco e dalla regia prima di Antognoni, poi di Zaccarelli, due signori giocatori. Giocammo veramente bene, purtroppo calammo nel finale, mancando un piazzamento più prestigioso che avremmo sicuramente meritato. Il Mondiale in Argentina servì anche alla gente in Italia: fu il primo visto a colori in televisione e contribuì a porre l’attenzione sulla dittatura in quel paese e sulle nefandezze perpetrate dalla giunta militare, di cui fino a quel momento non si sapeva molto. Per quanto riguarda il torneo, diciamo che in quel contesto propagandistico l’Argentina “doveva” vincere.
Dal Mondiale di Argentina alla situazione attuale della Nazionale italiana. Dopo l'impresa agli Europei gli azzurri hanno avuto un periodo di appannamento e adesso la qualificazione ai Mondiali del Qatar, che sembrava ormai raggiunta, dovrà passare attraverso gli spareggi.
Sarebbe un vero disastro non andare ai Mondiali per la seconda volta consecutiva e mi auguro di cuore che la Nazionale ci arrivi. Gli elementi di qualità li ha, ma dopo gli Europei è mancata la continuità nei risultati. Si è sentita troppo la pressione del dover fare risultato senza poter giocare con la leggerezza e la testa libera di prima. Essere costretti a vincere ti condiziona nelle scelte e nelle prestazioni, portandoti, se non riesci a gestire la pressione, a commettere degli errori. Questo vale, come si è purtroppo visto, sia per l’allenatore, sia per i giocatori. Negli spareggi sarà fondamentale entrare in campo convinti dei propri mezzi senza alcun timore in qualsiasi stadio si giochi, sbloccare immediatamente il risultato e chiudere la gara per vincere e tacitare tutti.
Come tecnico ha lavorato a lungo al centro federale di Coverciano guidando anche gli azzurrini Under 15. Un suo parere sul nostro settore giovanile e sull'eccessivo numero di stranieri presenti nei vari campionati.
Oggi il calcio è ormai globalizzato e gli stranieri sono presenti a tutti i livelli e in tutti i campionati. L’importante è scegliere quelli bravi. Spesso mi sembra invece che, soprattutto fra i giovani, a parità di valori si tenda a scegliere il nome esotico. Per quanto riguarda i vivai, i talenti ci sono, poi purtroppo intervengono i procuratori che li fanno diventare subito troppo bravi, facendo molto bene i loro interessi. Quando sei giovane è facile sbarellare se vedi tanti soldi con facilità, rischiando poi di sederti e non mantenere le promesse. I giovani calciatori tendono a vivere in un mondo a parte, dove spesso i responsabili delle società devono andarli a prendere per portarli agli allenamenti in quanto sovente non sanno districarsi con gli orari di treni e mezzi pubblici. Sarebbe più utile per tutti coccolarli di meno.
Veniamo al campionato di serie A in corso. Qual è a suo giudizio lo stato di salute delle quattro squadre che hanno segnato la sua carriera?
La Sampdoria è sempre disastrata dal punto di vista economico, speriamo che riesca a finire bene la stagione. E’ cambiato poco dai miei tempi, in cui quando ci salvavamo alla penultima giornata era grande successo. La Juve con l’innesto di Vlahovic ha ritrovato fiducia, mi auguro che sistemi l’assetto e prosegua nella sua ripresa per centrare almeno la zona Champions. Il Milan sembra avere messo la testa a posto per tornare a competere e se la giocherà fino in fondo per lo scudetto. Per la Roma, che dire, lì vige il detto “volemose bene”. La città è dispersiva e umorale, è difficile avere la continuità e la costanza per centrare gli obiettivi. Le intenzioni sono sempre le migliori, ma i risultati tardano ad arrivare e i giallorossi attuali sono lo specchio di questa situazione.
In conclusione, riavvolgiamo il nastro. Il vostro era un calcio a misura d'uomo, oggi sembra quasi una realtà virtuale.
L’ambiente, il modo di vivere e il calcio stesso erano più semplici, genuini, quasi naïf. Il rapporto con i tifosi era possibile, si instauravano amicizie vere. Oggi sembrano dei divi inaccessibili. La domenica tutta la famiglia si muoveva in funzione della partita. D’inverno, quando si giocava alle 14,30, si pranzava alle 11 perché il papà doveva andare allo stadio. Quando cambiava l’ora e le partite cominciavano alle 15 o alle 16, si mangiava più tardi e con più calma. Oggi comandano le televisioni, c’è calcio tutti i giorni e a tutte le ore, in barba anche all’integrità fisica dei giocatori. Si rischia solo di disamorare la gente. D’altronde, alle televisioni costa molto meno e rende di più in termini di audience e di introiti pubblicitari produrre una partita investendo solo su telecronisti e cameramen, che allestire una commedia o uno spettacolo di varietà, come si diceva ai miei tempi, con tutto il movimento che comporta.
Fra ricordi passati e critica visione bonaria del presente, la “roccia” Romeo Benetti resta così salda con le proprie convinzioni scolpite nella storia del calcio italiano e nella memoria degli appassionati.
CHI È ROMEO BENETTI |
Romeo Benetti è nato il 20 ottobre 1945 ad Albaredo d’Adige, in provincia di Verona. Mediano di 175 cm. d’altezza per un peso forma di 73 kg., ha esordito in serie D nel Bolzano nella stagione 1963-’64, passando nelle due annate successive in serie C prima al Siena, poi al Taranto, collezionando due terzi posti. Nel 1967-’68 l’approdo in serie B al Palermo con la vittoria del campionato e la promozione in serie A. Nel 1968-’69 il trasferimento alla Juventus (33 presenze totali e 5 reti), seguito l’anno successivo da quello alla Sampdoria nell’ambito dell’operazione che portò in bianconero Francesco Morini e Bob Vieri (in blucerchiato 30 presenze e 4 reti). Dal ’70-’71 al ’75-’76 sei stagioni consecutive al Milan per un totale di 251 presenze con 49 reti in tutte le competizioni, impreziosite dalla conquista di due Coppe Italia e della Coppa delle Coppe ’72-’73. Nell’estate ’76 il clamoroso secondo trasferimento alla Juventus con lo scambio che portò in rossonero Fabio Capello. In tre stagioni alla corte della Vecchia Signora, Benetti mise in fila 159 presenze e 23 gol, vincendo due scudetti (’76-’77 e ’77-’78), la Coppa UEFA ’76-’77 (primo successo internazionale juventino) e la Coppa Italia ’79. Chiusura di carriera alla Roma tra il 1979 e l’81, con 42 presenze, 3 reti e la conquista di altre due Coppe Italia. In Nazionale ha esordito il 25 settembre 1971 a Genova nel 2-0 in amichevole al Messico, disputando 55 partite e segnando 2 reti. Per lui la partecipazione da titolare ai Mondiali tedeschi del ’74 ed a quelli argentini ’78, terminati al quarto posto. Piazzamento analogo agli Europei casalinghi del 1980. Come tecnico ha guidato la Primavera della Roma vincendo un Torneo di Viareggio ed un campionato Primavera, quindi la Cavese e la Carrarese in serie C1 a metà anni Ottanta. Dopodiché diversi anni nello staff del centro tecnico federale di Coverciano fra Nazionali giovanili e corsi di formazione per gli allenatori. |