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Grandi stagioni quasi dimenticate di quattro big: Del Piero, Ronaldo, Ronaldinho e Messi

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Nell’immaginario collettivo del tifoso italiano ci sono giocatori per cui sembra valere più “ciò che è stato fatto”, mentre per altri sembra che abbia un peso preponderante “ciò che non è stato fatto”. Un esempio della prima categoria lo riscontro ogni qualvolta si parla di Ronaldo il Fenomeno, che nella stagione di Barcellona e durante il primo anno di Inter è stato un giocatore assolutamente futuristico: senso del gol, velocità supersonica, un freak atletico con doti tecniche estremamente alte, talmente incontenibile da apparire quasi immateriale (ricordate il gol a Mosca?).

Insomma, quella versione di Ronaldo sembrava sedersi con arroganza al tavolo degli Eletti, se non fosse che è durata solo un paio d’anni. Gli infortuni, causati dal logorio di una corporatura quasi bionica unito ad uno stile di vita non esattamente impeccabile per quanto riguarda un atleta, ci hanno restituito un Ronaldo diverso, seppur capace di vivere altre stagioni da fuoriclasse (e su queste ci arriveremo più tardi). Eppure, nella memoria dell’appassionato medio, è rimasto giustamente nella memoria “quel” Ronaldo, il primo.

Del Piero 2002-2003

Chi vive un trattamento radicalmente opposto è Alessandro Del Piero, che secondo la stessa vulgata “non è mai stato più lo stesso dopo il 1998”: Alex ha vissuto un apogeo simile a quello del collega brasiliano, consacrandosi tra i grandi da giovanissimo ed arrivando in pochi anni a guidare la Juventus alle conquiste dei titoli nazionali e internazionali – nel raggiungimento delle tre finali di Champions League di fila dal 1996 al 1998, la firma di Pinturicchio è tra le più pesanti, se non la più pesante in assoluto.

Eppure, dopo il Mondiale fallito e il gravissimo infortunio occorsogli a Udine a novembre, Del Piero ha dovuto attraversare un lungo purgatorio alla ricerca di se stesso – gli errori davanti a Barthez nella finale di Euro 2000 sono forse la sua croce più pesante – e sono stati in molti a dubitare della sua caratura, come se quello che è stato fatto in quegli anni d’oro fosse un’eccezione e non la regola. A mio parere ci sono almeno un paio di annate che, se non raggiungono “quel” Del Piero, almeno sono a ridosso e si avvicinano: l’anno solare 2008 – in cui Del Piero aveva davvero riacquisito lo smalto, l’agilità e la leggerezza dei giorni migliori, concluso con una standing ovation al Santiago Bernabeu dopo una doppietta che aveva tramortito i padroni di casa ed il titolo di capocannoniere del campionato 2007/08 – e la stagione 2002/03.

Nel 2007-2008 l’annata partì subito con una doppietta decisiva a Tripoli contro il Parma per la vittoria della Supercoppa Italiana. In Serie A ebbe un inizio con i fuochi d’artificio, con sei reti e un assist in cinque partite e l’andazzo proseguì a livelli altissimi fino a febbraio, quando Del Piero ebbe un brutto stiramento muscolare: fino a quel momento in campionato aveva totalizzato 12 reti e sei assist in 18 partite e anche in Champions League non mancò il suo contributo, mi riferisco soprattutto alla doppietta casalinga contro il Newcastle (calcio di punizione all’incrocio e destro secco sul primo palo).

Del Piero fu decisivo anche in azzurro: le sue pennellate contro Azerbaijan (2-0), Galles (2-1 per i gallesi) e Yugoslavia (1-1) tennero la nazionale del Trap in corsa per un posto agli europei di Lisbona. Prescindendo dai numeri, Pinturicchio sembrava davvero essere tornato ai livelli di un tempo, o quanto meno si era avvicinato molto: gli 8 in pagella sui quotidiani sportivi fioccavano, stampa e addetti ai lavori erano tutti concordi che la stagione di Alex fosse quella di un giocatore ritrovato. La straordinaria seconda parte dell’anno solare 2002 gli valse il decimo posto nella classifica del pallone d’oro, mentre l’anno seguente si classificò 13° insieme a Deco e Alessandro Nesta, non due qualunque.

Il rientro dall’infortunio nella seconda metà di marzo lo vide protagonista di due doppiette contro Roma e Brescia, ma soprattutto della celeberrima prestazione nella semifinale di ritorno di Champions contro il Real Madrid: un assist di testa a Trezeguet, un destro a fil di palo dopo aver ubriacato Hierro e Salgado con finte e contro-finte e giocate d’alta scuola davanti a Zidane, Figo, Ronaldo suggellano una delle migliori prestazioni della sua carriera, nonché uno dei momenti europei più importanti della storia della Juventus.

La finale contro i rossoneri sarà una delusione, Alex proverà a scuotere i suoi con qualche iniziativa, ma la noia la farà da padrone, fino ai rigori. Ci sono state anche altre stagioni positive e/o in cui Pinturicchio è stato determinante: nel biennio di Capello, tormentato dal ballottaggio con Ibrahimovic e dalle continue sostituzioni, in fin dei conti ha griffato i due match-scudetto con una rovesciata decisiva ed un calcio di punizione al bacio, senza dimenticare l’apporto al primo scudetto targato Antonio Conte da trentasettenne.

Ronaldo 2002-2003

Abbiamo citato prima Ronaldo il Fenomeno e i suoi anni migliori incastonati nella leggenda. Il Ronaldo post infortuni tuttavia vivrà almeno un paio di stagioni in cui non è peregrino usare la parola “fuoriclasse”: oltre al memorabile Mondiale in Corea e Giappone nel 2002, dove riuscì a mettere a segno otto gol tra cui una doppietta in finale contro la Germania pur giocando da convalescente, il miglior momento del “secondo” Ronaldo è senza dubbio l’annata 2002/03, la sua prima alla corte dei Galacticos.

Le lacrime del 5 maggio 2002 a Roma, le polemiche con Cuper e con la tifoseria interista che lo accusava di “tradimento” (“ti abbiamo curato, aspettato e ora che hai vinto un mondiale te ne vai?”) erano svaporate di fronte a un ritorno in grande stile: Ronaldo cominciò tardi la stagione, per via di un infortunio, ma quando ingranò arrivò a totalizzare 30 reti in 44 presenze.

Segnò ben 23 reti in Liga, dove si classificò secondo a pari merito con Kahveci dietro un irresistibile Roy Makaay. In campo internazionale brillò soprattutto a Yokohama, nella “sua” città dei sogni a sei mesi dal trionfo mondiale, nella finale di Coppa Intercontinentale contro l’Olimpia, che sbloccò dopo un quarto d’ora. L’apice della sua stagione fu però la partita di ritorno al teatro dei sogni contro il Manchester United. Griffò anche la semifinale di andata contro la Juventus con un gol pesante, prima di subire il tornado bianconero a Torino.

Ronaldo non era più l’uomo bionico del 1996-98, quel giocatore totale in grado di scomodare i paragoni con Pelé senza gridare alla blasfemia, ma è un solido centravanti, con uno spunto letale nel breve, un tiro secco che inceneriva i portieri e con movimenti continui che facevano perdere l’orientamento al diretto marcatore. Non è un caso che, nella stagione successiva, vinse il titolo di Pichichi del campionato, anche se in Europa naufragò miseramente contro il Monaco futuro finalista. Dal 2004/05 iniziò, invece, un lento declino.

Ronaldinho 2009-2010

Abbiamo tutti negli occhi il miglior Ronaldinho, con quel calcio bailado espressione della miglior allegria del popolo brasiliano: le finte, i numeri da giocoliere, i giochi delle ombre. Se citiamo il biennio 2004/06 ovviamente facciamo centro e non sbagliamo, l’impatto che Dinho ebbe con Barcellona – dopo anni di apprendistato al PSG, in cui sprigionava già lampi di classe infinita, ma forse non ancora in grado di consacrarsi come miglior giocatore al mondo – è arcinoto. Ricordo chiaramente, nelle mie memorie di ragazzino, che si evocavano paragoni pesanti, uno tra tutti con Diego Armando Maradona, per la sua capacità di estrarre dal cilindro soluzioni improvvise ed impensate, oltre ad una elasticità nel dribbling ed uno strapotere fisico – Dinho non era certo un fuscello, aveva una notevole resistenza atletica ed era difficile abbatterlo con le sole sportellate, ricordiamolo – che lo facevano sembrare in grado di fare qualunque cosa.

Tuttavia, è esistito un Ronaldinho più “di nicchia”, lontano dalle battaglie per contendersi il titolo di miglior giocatore del mondo – d’altronde era da poco iniziata la diarchia tra un fenomeno argentino e portoghese, con una coppia di centrocampisti spagnoli, un armadio svedese ed un folletto brasiliano a fare da contorno – che però ha deliziato la platea con la sua arte. La velocità non era quella dei giorni migliori, oserei tirare in ballo la fastidiosa e iper abusata locuzione “mobilità ridotta”, ma la classe nei piedi era intatta e brillava in tutto il suo splendore.

Mi riferisco al secondo anno di Ronaldinho nella Milano rossonera, il 2009/10. L’anno si concluderà con il Triplete dell’Inter e i due derby all’ombra della Madonnina saranno un trionfo a senso unico a tinte nerazzurre: troppo forte quell’Inter per essere competitivi, per una squadra che iniziava a mascherare diversi problemi, a cominciare da un difficile ricambio generazionale post Ancelotti: escluso l’eterno Nesta, la difesa non viveva i suoi giorni migliori; le stelle di Pirlo e Seedorf apparivano fin troppo spesso appannate, Pato era quella stella che oscillava tra esplosione ed implosione tra giorni travolgenti ed altri decisamente opachi, oltre ad un allenatore – il buon Leonardo – che a molti appariva più come un semplice parafulmine che come un indizio di un progetto serio. Ronaldinho, però, si ergeva maestoso sopra questa nebbia e fu senza dubbio lui l’uomo più importante per il piazzamento del Milan in un onorevole terzo posto: il fenomeno brasiliano siglò dodici reti e ben diciotto assist in trentasei presenze stagionali.

Assist “pirliani” da quaranta metri, corridoi invisibili ai comuni mortali, palloni al bacio sulle teste e sui piedi dei compagni di squadra ci hanno regalato un Ronaldinho quasi più “intimo”, per pochi eletti, lontano dalle corse per la coppa dalle grandi orecchie e per la vittoria del pallone d’oro, eppure così vicino al cuore di chi ama un certo tipo di calcio, fatto di intuizioni irrazionali, di samba e di allegria. Se potete, recuperatevi in rete le giocate di Dinho in quell’annata, vi sentirete in pace.

Messi 2017-2018

Chiudiamo il cassetto dei ricordi, passando da Ronaldinho a colui che ne ha raccolto il testimone a Barcellona e che si è addirittura spinto ancora più in là: Lionel Messi.

Sono certo che se proverete a mettere in fila le prime cinque stagioni migliori della Pulce, la stagione 2017/18 non c’è. Eppure per il 99% dei calciatori sarebbe la stagione della vita, o quasi. Partiamo dai freddi numeri: 45 reti stagionali, in 54 presenze con il Barcellona in tutte le competizioni, capocannoniere della Liga con 34 reti in 36 presenze. Come se non bastasse, 6 reti in 10 presenze in Champions (ricordate la doppietta agli ottavi contro il Chelsea? Se la risposta è no, non preoccupatevi, è normale) ed altre 4 reti (di cui una in finale) in 6 presenze in coppa del Re.

Oltre alle cifre, va sottolineato che la stampa spagnola ha incensato l’importanza di Messi per il raggiungimento della vittoria in Liga come un fattore decisivo ed irrinunciabile: gli strapagati Coutinho e Dembelé – arrivati per non far rimpiangere Neymar, volato verso i lidi parigini – delusero su tutta la linea, Iniesta era ormai al crepuscolo pur essendo ancora in grado di sciorinare la sua classe, Messi si caricò sulle spalle una squadra ben diversa da quella ammirata tre anni prima sul tetto d’Europa e la condusse al trionfo casalingo, mentre in Europa il naufragio di Roma (sconfitta per 3-0, dopo una vittoria episodica al Camp Nou per 4-1) espose tutti i limiti di una squadra che non aveva saputo rinnovarsi, a fronte del dominio europeo dei nemici di Madrid. Tuttavia, Messi, finché brillava, bastava per tutti.

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