Immagine di copertina: Yorke e Cole ai tempi del Manchester United
Dopo un periodo di pausa, Game of Goals riprende la propria rubrica sulle analogie tra alcune delle annate individuali più sottovalutate da parte del grande pubblico calcistico, con un piccolo strappo alla regola; in quest’occasione, effettueremo un parallelismo non soltanto tra due singoli calciatori, ma tra due vere e proprie coppie d’attacco, che vissero il proprio apice a 10 anni esatti di distanza.
Francesco Totti 2006-2007 vs Dries Mertens 2016-2017
I 12 mesi del 2006 segnano un enorme spartiacque nella lunga parabola di Francesco Totti, giunto ormai al proprio 30° anno di vita, ed obbligato dalle circostanze a riporre definitivamente i panni di “Pupone” per diventare definitivamente uomo. A febbraio infatti, il capitano giallorosso subisce il primo infortunio veramente grave della propria carriera, fratturandosi il perone in un’anonima partita contro l’Empoli. Il k.o. di Totti, oltre a tarpare le ali alla prima lanciatissima Roma di Spalletti, che dopo 11 vittorie consecutive chiuderà il campionato in calo, rischia di scombussolare anche i piani di Marcello Lippi, c.t. dell’Italia per gli imminenti Mondiali tedeschi. Come sia andata in Germania, con il contributo centellinato di un Totti recuperato a tempo di record, e ben lontano dalla forma migliore, lo sappiamo tutti, senza scendere nei dettagli. È il tramonto definitivo sulla versione apicale di Francesco, in cui il connubio tra il genio dell’eletto e la forza d’urto del purosangue lo aveva proiettato a ridosso dei primissimi giocatori al mondo all’inizio degli anni 2000. Ne nasce un Totti nuovo, meno impattante a tutto campo, ma ancor più capace di fare la differenza negli ultimi 20 metri, con il pregevole lavoro del già citato Spalletti a fare la differenza; il tecnico di Certaldo lo rende il principale terminale offensivo di una squadra fluida e dal gioco arioso, che esalta al meglio le caratteristiche del proprio capitano. Nel 2006/07 Totti vive dunque la stagione più prolifica della propria carriera, accumulando 32 gol complessivi: ad impreziosire il tutto ci pensano la Coppa Italia, stravinta ai danni di un’Inter irraggiungibile in campionato, e un’impronosticabile Scarpa d’oro, frutto dei 26 centri in Serie A.
Destino analogo, un decennio più tardi, per un giocatore che con Totti, sulla carta, sembrava avere ben poco da spartire, quantomeno nella prima parte della propria carriera. A differenza del Re di Porta Metronia del resto, Dries Mertens non aveva esattamente le stimmate del predestinato, pur avendo fatto vedere ottime cose in Eredivisie con le maglie di Utrecht e PSV Eindhoven, che gli erano valse l’approdo in un Napoli tornato ad avere ambizioni europee con Rafa Benitez, nell’estate 2013. Le prime tre stagioni in Italia tuttavia, erano ancora ben lontane dal rivelarci il reale potenziale dell’attaccante belga, costretto ad alternarsi perennemente nel ruolo di ala sinistra col più giovane Lorenzo Insigne; quest’ultimo, in virtù delle proprie doti di regista offensivo dislocato sulla fascia, era apparso fin da subito più congeniale alle idee di Maurizio Sarri, che nel 2015/16 concede a Mertens appena 6 presenze da titolare in campionato. Altro non è che il preludio al più clamoroso degli exploit, dovuto a una reazione a catena orchestrata dalla sorte: la cessione di Higuain, l’infortunio di Milik e i balbettii di Gabbiadini aprono una voragine al centro dell’attacco del Napoli. A colmarla, grazie all’intuizione più memorabile della carriera di Sarri, sarà proprio Mertens, che a quasi 30 anni diventa definitivamente un funambolico killer, segnando a ripetizione gol d’alta fattura, e aprendo varchi per i continui tagli di Insigne, Callejón e Hamsik. Tutti e 4 vanno in doppia cifra, e Mertens, che nel 2016/17 inizia a tutti gli effetti la scalata al trono di capocannoniere all-time dei partenopei, mette a segno 34 reti stagionali. Il Napoli rimane però a bocca asciutta, a causa di una Juventus giunta all’apice della propria tirannia sul calcio italiano, e il folletto fiammingo non riesce nemmeno a consolarsi col titolo di capocannoniere della Serie A, chiudendo con una rete in meno di Edin Dzeko. Ad allenare il bosniaco in quella stagione, del resto, c’era proprio lo stesso tecnico capace di guidare Totti verso la Scarpa d’oro 10 anni prima.
Dwight Yorke e Andy Cole 1998-1999 vs Edin Dzeko e Grafite 2008-2009
Sul finire degli anni ’90, pur facendola da padrone sul suolo patrio da ormai diverso tempo, il Manchester United non sembra ancora in grado di imporsi a pieno anche sul suolo europeo. Eppure, per provare a fare il colpaccio, mancherebbero davvero pochi tasselli a una squadra già di per sè attrezzatissima, fresca di 4 Premier League messe in bacheca nei 6 anni precedenti. Ecco dunque che, all’alba della stagione 1998/99, il non ancora Sir (lo diventerà di lì a poco) Alex Ferguson si presenta ai nastri di partenza con una coppia d’attacco inedita, e che promette spettacolo: Andy Cole e Dwight Yorke. Entrambi classe ’71, a 27 anni sono all’apice delle proprie possibilità fisiche e tecniche, di cui faranno ripetutamente sfoggio nella miglior annata della storia dei Red Devils. Pur essendo molto simili, Cole e Yorke risultano perfettamente complementari, grazie al maggior peso specifico del primo e all’estro più accentuato dell’altro, e ci mettono pochissimo a sviluppare un’intesa con pochi eguali nella storia del calcio europeo. Per una squadra intensa e ultraverticale come il Manchester United di fine millennio, i cosiddetti Calipso Boys (soprannome legato alle origini caraibiche della coppia) costituiscono due bocche da fuoco ideali, e i 53 gol complessivi della premiata ditta C&Y pagano inevitabilmente i propri dividendi in tutte e 3 le competizioni disputate, concluse con altrettanti trionfi. È probabilmente Yorke, capocannoniere sia in campionato che in Champions League, ad alzare più di tutti l’asticella, portandola a livelli mai più replicati nella propria pur ottima carriera.
Una versione in tono minore dei Calypso Boys, ma per certi versi ancora più “cult”, avrebbe messo a ferro e fuoco la Bundesliga nel giro di 10 anni, nella magica stagione 2008/09. A fare le fortune del Wolfsburg di Felix Magath, trascinandolo al primo (e fin qui unico) storico successo nel campionato tedesco, sono due profili provenienti da mondi completamente opposti: uno spilungone bosniaco di belle speranze dalla tecnica neoclassica, e un trentenne brasiliano arrivato decisamente tardi ai piani alti del calcio, ma ancora capace di grandi colpi. In parole povere, Edin Dzeko e Grafite, i quali, innescati ripetutamente dai 20 e passa assist di Zvjezdan Misimovic (anch’egli, come Grafite, avvolto da un’aura semi-mistica in quell’irripetibile stagione) spostano con prepotenza gli equilibri di una Bundesliga livellatissima, in cui il Wolfsburg parte a fari spenti per poi tirar fuori definitivamente il vestito buono nella seconda parte del campionato. La prematura eliminazione dalle coppe consente dunque ai biancoverdi di risparmiare energie in vista della volata finale, in cui l’ormai collaudatissimo tandem d’attacco non sbaglia più un colpo. È emblematico dunque che ben 38 dei 54 gol complessivi in quella Bundesliga del letale duo (26 di Dzeko e 28 del capocannoniere Grafite) siano stati messi a segno nel girone di ritorno, quando la posta in palio si alza visibilmente, e la lotta punto a punto con il Bayern Monaco tiene l’intera Germania con il fiato sospeso. Proprio lo scontro diretto coi bavaresi ad inizio aprile, vinto con il più roboante dei 5-1, rappresenta un compendio della dominanza raggiunta in quel momento da Dzeko e Grafite, autori di una doppietta a testa, e protagonisti assoluti di uno dei pomeriggi più memorabili della storia del calcio tedesco.