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Grandi stagioni quasi dimenticate: da Ramón Díaz 1989-Tévez 2008 a Mkhitaryan 2016-De Bruyne 2020

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Immagine di copertina: Ramon Diaz all’Inter nel 1988-89

L’articolo di oggi è incentrato sul parallelismo tra le grandi annate di due grandi attaccanti argentini, entrambi con trascorsi importanti in Serie A, e di due grandi assistman del calcio contemporaneo, capaci di fare le fortune dei rispettivi centravanti di riferimento. Non perdiamo altro tempo, ed iniziamo dunque ad analizzare le sottovalutate stagioni di Ramón Díaz, Carlos Tévez, Henrikh Mkhitaryan e Kevin De Bruyne.

Ramón Díaz 1988/89 e Carlos Tévez 2007/08

La stagione 1988/89 è una pietra miliare di fondamentale importanza per l’evoluzione del calcio europeo e mondiale: dopo aver sottratto lo scettro di campione d’Italia al Napoli, il nuovo Milan di Arrigo Sacchi impone il proprio soffocante e rivoluzionario dominio anche in Coppa dei Campioni, trionfando dopo un percorso in continuo crescendo. Al cospetto dei rossoneri e del loro pressing ultra-organizzato, qualunque altra formazione del continente sembra provenire da un’epoca precedente e ormai sorpassata, nonostante la classifica del campionato italiano, in quell’annata, abbia dato un responso alquanto differente.

Quella stagione, quantomeno sul suolo nostrano, viene letteralmente cannibalizzata dall’Inter, che con Trapattoni in panchina, ed i frutti di un mercato azzeccatissimo in campo, non molla la prima posizione neanche per una giornata, accumulando 58 punti sui 68 disponibili. Oltre alla consueta applicazione e muscolarità delle squadre del Trap, i campioni d’Italia hanno anche tecnica da vendere, ed è qui che entra in gioco il preziosissimo contributo di Ramón Díaz.

Per El Pelado, la cui parabola italiana è ormai prossima al tramonto, è la giusta ricompensa per una carriera che non ha oggettivamente rispettato le enormi aspettative riposte su di lui in gioventù. Pur essendo inizialmente ritenuto il giocatore argentino più promettente della propria generazione, fatta eccezione per un riccioluto marziano di Villa Fiorito, il carattere spigoloso e l’incostanza delle prestazioni hanno notevolmente limitato il percorso di Díaz, che a 29 anni approda all’Inter dopo una lunga serie di alti (Avellino) e bassi (Napoli e Fiorentina).

A Milano però, Ramón trova il contesto ideale per esibire il proprio calcio migliore, quello più maturo e raffinato; la complementarità con l’ariete Aldo Serena, capocannoniere del campionato anche e soprattutto grazie ai varchi apertigli dall’ex River Plate, è una delle principali chiavi del successo di una squadra straordinaria, ma al tempo stesso destinata a non ripetersi. Nonostante i 12 gol di Díaz, ottimi per una seconda punta nella Serie A dell’epoca, l’Inter decide infatti di puntare su Klinsmann, più prolifico ma anche molto meno associativo e funzionale alla manovra, cedendo l’argentino al Monaco.

Ad accomunare Díaz a Carlos Tévez, oltre alla duttilità e alla scaltrezza tipicamente rioplatense, c’è anche un rapporto non esattamente idilliaco con la Selección argentina (seppur per motivi diversi). A differenza del proprio predecessore, tuttavia, l’Apache ha avuto ampiamente modo di rifarsi nei club, vestendo i panni del trascinatore in praticamente tutte le squadre che hanno avuto la fortuna di schierarlo.

Non fa dunque eccezione il Manchester United, che lo acquista dal West Ham nel 2007 per farne il nuovo partner offensivo di Rooney. I due, inizialmente, non sembrano in grado di ottenere i favori della critica, che li ritiene fin troppo simili tecnicamente, e non abbastanza complementari. Lo sfiancante lavoro in fase di non possesso di Carlitos e Wazza tuttavia, è fondamentale per consentire a Cristiano Ronaldo di esprimersi per la prima volta a livelli da Pallone d’oro, oltre a dare equilibrio a una formazione che sprizza talento da tutti i pori.

I Red Devils centrano dunque una storica accoppiata Premier League-Champions League, e le 19 reti complessive di Tévez lo innalzano indubbiamente tra i protagonisti assoluti di una stagione storica per lo United. I rapporti con Ferguson saranno tuttavia destinati a incrinarsi nell’annata successiva, in cui l’arrivo dell’aristocratico ma compassato Berbatov riduce sensibilmente il minutaggio del campione sudamericano, che nell’estate 2009 si impunterà per essere ceduto. Destinazione? Sempre Manchester, sulla sponda meno vincente (per il momento), ma decisamente più ricca.

Henrikh Mkhitaryan 2015/16 e Kevin De Bruyne 2019/20

Una volta rimasto orfano di Jürgen Klopp, che dopo aver cambiato il calcio in Germania vola oltremanica per risollevare un Liverpool ai minimi storici, il Borussia Dortmund riparte dal più credibile erede del proprio capopopolo: Thomas Tuchel, capofila della nuova generazione di “laptop trainers” formatisi tatticamente al PC, e abbeveratosi alla fonte di Ralf Rangnick prima, e dello stesso Klopp poi.

Rispetto al 2013, anno in cui i gialloneri misero a ferro e fuoco l’Europa arrivando in finale di Champions League, sono cambiati molti interpreti nella formazione da titolare; la casella del trequartista ad esempio, non è più occupata da Mario Götze, bensì da Henrikh Mkhitaryan, arrivato dallo Shaktar Donetsk proprio 3 anni prima. Pur non avendo la classe cristallina del match-winner del Mondiale 2014, l’armeno non lo fa certo rimpiangere in termini di dinamismo ed intelligenza calcistica, e la stagione 2015/16 è un compendio di tutte le sue principali qualità.

Per un calciatore che opera nell’ultimo terzo di campo, nessuna dote è di vitale importanza quanto quella del decision making, ossia la capacità di effettuare la giocata giusta al momento giusto, specie quando si guida una transizione. Ebbene, le scelte di Mkhitaryan in questa stagione portano a 18 gol e soprattutto 22 assist tra tutte le competizioni. Chi ne beneficia maggiormente non può che essere un Aubameyang in stato di grazia, con cui le strade si incroceranno nuovamente all’Arsenal nel 2018/19.

La verticalità del Borussia Dortmund, che pur non vincendo nulla chiuderà l’anno come miglior attacco della Bundesliga, consente dunque all’infaticabile armeno (premiato come MVP del campionato tedesco dalla storica rivista “Kicker”) di toccare vette numeriche mai più avvicinate nel resto della propria carriera, oltre a fargli ottenere la chiamata del già crepuscolare Manchester United di Mourinho.

Se Mkhitaryan rientra a pieno titolo nel novero dei grandi sottovalutati della propria generazione, lo stesso non si può certo dire di Kevin De Bruyne, forse tra i pochi top player nati nei primi anni ’90 a sfornare prestazioni di alto livello per praticamente un decennio (a differenza di Hazard, Pogba, Isco, oltre al sopracitato Götze), senza abbassare praticamente mai l’asticella del proprio rendimento.

Una delle definizioni più efficaci per descrivere il talento di KDB è stata coniata da Daniele Manusia, che afferma che il belga “è un giocatore che sarebbe capace di far entrare la palla nello sportello di una lavatrice legata sul tettuccio di un’automobile lanciata a 130 all’ora“. Ecco, c’è stato un momento ben specifico nella carriera di De Bruyne in cui i suoi piedi da poeta, abbinati ad un’efficienza quasi algoritmica, gli avrebbero consentito di imbucare senza alcun problema in ogni singolo pertugio esistente.

Nella stagione 2019/20 infatti, dopo essere rimasto a lungo ai box l’anno precedente per dei problemi fisici, De Bruyne riscrive ogni manuale esistente sull’arte dell’ultimo passaggio: se ci limitiamo alle statistiche nella sola Premier League, il fuoriclasse del Manchester City realizza ben 20 assist, eguagliando il record stabilito da Thierry Henry nel 2003. Sommati ai 13 gol messi a segno, otteniamo numeri di fantascienza, specie se inseriti nel “peggior” City dell’era Guardiola (fatta eccezione per la travagliata prima stagione inglese di Pep), che chiude il campionato al secondo posto a distanza siderale da un Liverpool semi-imbattibile.

Fa ancora più impressione inoltre la statistica delle 33 grandi occasioni da rete create in campionato, specie se messa a confronto con quella di Mkhitaryan nel 2016, che ne creò 27. L’armeno infatti, poteva beneficiare di spazi ben maggiori rispetto a quelli concessi al Manchester City, affrontato da molte squadre con dei blocchi estremamente bassi, in cui far filtrare il pallone è roba da autentici maestri.

Mai come in questa stagione dunque, nonostante le scarse soddisfazioni con il proprio club, De Bruyne sembra poter concretamente ambire alla palma di miglior giocatore al mondo, insidiando la leadership di Lewandowski; quest’ultimo del resto, alzerà al cielo la Champions League anche grazie all’assurda eliminazione dei Citizens (probabilmente i rivali più credibili del Bayern Monaco per la vittoria finale) ai quarti contro l’Olympique Lione.

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