Inter-Barcellona, la “Guerra dei mondi”

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Ungheria-Germania Ovest 1954, Olanda-Germania Ovest 1974, Italia-Brasile 1982, Inter-Barcellona 2010, e volendo possiamo aggiungere Ajax-Tottenham 2019 e ovviamente Inter-Barcellona 2024, l’ultima puntata di quello che è diventato (vista anche la duplice sfida ai gironi di due anni fa) quasi il Clasico della Guerra dei mondi. Giusto per non andare ancora più indietro e non citare Italia-Austria 1934…

Cosa accomuna tra loro questi eventi così lontani dal punto di vista storico, geografico, culturale, ed è davvero possibile ricondurre ciascuna di queste partite all’interno di un’ipotetica Guerra dei mondi?

A mio parere, forzando un po’ la mano, sì, è possibile individuare un filo conduttore che collega tra loro quelli che, più che semplici incontri di football, assomigliano a veri e propri eventi cognitivi.

Ho già dedicato un pezzo agli avvenimenti che “spostano qualcosa nel cuore delle cose“, che aprono le porte di una dimensione estetica e tecnica futuristica, e che costringono gli spettatori ad arrendersi alla sospensione dell’incredulità: se ragioniamo con il distacco dello storico, l’ultimo evento cognitivo di questa portata risale a due anni fa e ha visto affrontarsi tra loro il Manchester City e il Real Madrid, un Real che è stato annichilito per novanta minuti da una formazione che è parsa praticare quasi uno sport diverso dal suo.

Non mi azzardo a inserire nel novero di questi fenomeni che squarciano il cielo lasciandoci intravedere qualcosa di nuovo gli ultimi trionfi del Barcellona nei Clasicos (mi riferisco, segnatamente, alle partite concluse 0-4 e 5-2 alcuni mesi fa), in quanto il Barcellona di Flick, pure protagonista di questo articolo, è una squadra che vive ancora la sua infanzia, con tutti i corollari che questo implica, e che deve percorrere molta strada prima di poter eventualmente reclamare un posto di primo piano nella Storia.

Parlo di eventi cognitivi “innovativi” nella misura in cui, in molti dei casi citati nell’articolo linkato, l’esuberanza tecnica dei singoli, amalgamata in un collettivo plasmato da idee originali, a volte rivoluzionarie, ha spostato in avanti le lancette della storia, ha resettato il modo in cui si intendeva il calcio sino a poco prima: lo preciso giusto per evitare di cadere nel tranello di ritenere un approccio sistematicamente superiore a un altro – le squadre totalmente votate alla bellezza hanno spesso vinto e in maniera trionfale, stordente, bellissima.

Le partite che ho citato nell’incipit del pezzo, più che eventi estetici-cognitivi, sono invece avvenimenti travolgenti sul piano emotivo, e hanno un minimo comune denominatore: in ciascuna di loro, scende in campo una squadra “ludica”, superiore sul piano della qualità pura, la cui euforia ha rubato il cuore a milioni di appassionati, anche neutrali, in tutto il mondo.

La Grande Ungheria fa parte del mito, come Napoleone o Garibaldi, ma è ancora possibile ammirarne le gesta e rimanere incantati dalle sue immaginifiche espressioni di calcio, che lasciarono comprensibilmente senza fiato gli osservatori di tutto il mondo, costretti a grattarsi la testa ma anche travolti da una gioia che solo la pura estetica può regalarti. Le due lezioni di calcio impartite agli inglesi sono forse, sotto questo profilo, l’evento cognitivo per eccellenza, anche più delle memorabili ronde con cui l’Olanda dei cappelloni nasconde il pallone alle più esperte squadre sudamericane, o delle finali in cui il Barcellona trasforma un Manchester United individualmente quasi impareggiabile nel proprio sparring partner, in uno spettatore impotente del suo spettacolo teatrale.

Abbiamo raccontato l’Olanda che fu in numerosi articoli, il più significativo dei quali è forse l’elegia dedicatale dal nostro Giuseppe Raspanti, che ha celebrato la sua energia vitale, che si muoveva in sintonia con la storia e le sue pulsioni, e la cui sconfitta ha segnato forse la condanna prematura al fallimento di tutta un’epoca, di tutta una frangia di una certa “generazione”.

Abbiamo dedicato numerosi articoli anche al “giochismo” radicale di certo calcio brasiliano (il Brasile meriterebbe sempre un discorso a parte, anche perché la sua vocazione radicale è meno programmatica, ma va comunque citato in questo pezzo) così come al football esportato in Catalogna da Mr. Johan Cruijff, fautore di un innesto che ha deviato il corso di tutto il calcio spagnolo e i cui esiti sono ancora sotto i nostri ammirati occhi.

Il Barcellona di Flick è forse l’ultimo vessillifero della religione della meraviglia le cui radici affondano in un passato remoto, e chi apprezza un certo tipo di calcio, nel corso di questa stagione, ha dovuto ripetutamente raccogliere la propria mandibola da terra, davanti alle prestazioni dei catalani. La loro vocazione alla ricerca della pura qualità, la loro dogmatica predilezione per la tecnica individuale e di squadra si è a lungo tradotta, nel corso della stagione, in vere e proprie manifestazioni di onnipotenza, un’onnipotenza che possiede però la leggerezza celebrata da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, un’onnipotenza che non ha nulla di prepotente e di feroce, e che possiede invece un’essenza civettuola, ludica, a suo modo fragile.

Salto la staccionata per occuparmi dell’altro mondo: all’armonia “senza peso” e fulgida delle squadre sopracitate si contrappongono qualità diverse, che accomunano, mutatis mutandis, tutte le altre formazioni del lotto. In primis, sia la Germania Ovest del 1974 che l’Italia del 1982, sia l’Inter del 2010 che quella ammirata in campo pochi giorni fa, eccellono nella capacità di leggere la partita, le sue fasi, i suoi passaggi fatti necessariamente di luci e di ombre. Questa dote spesso manca, o quantomeno non è così evidente, negli avversari, e rappresenta un vantaggio strategico notevole, a volte decisivo.

In secondo luogo, le formazioni citate vantano una capacità di resilienza (parola di cui si abusa, ma che qui calza come un guanto la situazione) non comune e sono in grado non solo di assorbire i colpi e di superare i momenti di difficoltà, ma anche di approfittare – altro concetto chiave – delle debolezze, delle distrazioni, degli errori degli avversari. La concentrazione feroce è uno degli aspetti cruciali del calcio messo in pratica da tutte le formazioni che ho evocato, e si tratta di una dote determinante e che però non preclude loro di fare la differenza anche con la qualità, che spesso è distribuita in maniera equilibrata tra gli undici effettivi in campo, e a volte pure tra i subentranti: tutte le formazioni che sono uscite vittoriose dal confronto vantano individualità di prim’ordine in quasi ogni reparto, e anche questo è un fattore cruciale.

Concluse le premesse, entro nel cuore del discorso: in ciascuno degli avvenimenti emotivi che ho ricordato, la squadra più dotata, leggera. esteticamente votata all’euforia e però più fragile, più incline alla distrazione che spesso è appannaggio dei grandissimi talenti (“Se il Brasile avesse avuto la metà della cattiveria agonistica di Italia e Germania avrebbe incamerato due o tre mondiali in più“, mi disse una volta un grande appassionato, e secondo me non era lontano dal vero), viene alla fine superata dalle qualità messe in campo dall’altra metà del cielo – fisicità superiore, organizzazione difensiva superiore, ricerca spasmodica dell’episodio determinante, maggiore duttilità nella lettura della partita, un maggior rigore tattico, quantomeno nella protezione della propria porta.

L’esito, nei casi citati, è sempre lo stesso: a vincere sono quelli che giocano un calcio meno “bello” e però più efficace sul piano degli episodi. L’esito, a volte, rispecchia comunque l’andamento della gara – la Germania Ovest vince con merito contro la cicala olandese, che a Monaco pare un po’ sulle gambe e che forse paga, paradossalmente, il rigore che le dà l’immediato vantaggio.

Il Brasile del 1982 mette in pratica un calcio che irradia bellezza e di una purezza tecnica quasi senza pari, ma è destinato a soccombere al cospetto dell’astuta lettura di Bearzot, che apre subito il gioco con Conti e Cabrini, sapendo che il Brasile non presidia a dovere le fasce in fase difensiva, e il gol immediato di Paolo Rossi costringe i verdeoro a rincorrere gli azzurri per tutta la partita: di fatto, e questo fattore sarà forse decisivo anche quasi 43 anni dopo nell’ultimo Inter-Barcellona, la squadra più accorta incanala la partita sui propri binari preferiti, obbligando quella teoricamente più dotata a rincorrerla e a concedere più del dovuto in difesa.

Germania Ovest-Ungheria del 1954 e Ajax-Tottenham del 2019 sono forse le uniche due partite in cui l’esito è bugiardo, ma sarebbe ingeneroso disconoscere l’enorme cuore e la carica agonistica di entrambe le squadre, capaci di portare a termine rimonte inverosimili, quando il destino sembrava già averle condannate alla sconfitta. Anche in questi due casi, la squadra migliore (l’Ungheria in termini assoluti e ampi, l’Ajax per un breve e fulgido lasso di tempo) soccombe davanti alla forza di volontà e alla determinazione quasi soprannaturale degli avversari.

Ajax-Tottenham 2019

Le quattro sfide tra Inter e Barcellona (e anzi dovrei citarne sei, perché ci sono anche quelle, decisive, del girone del 2022) rappresentano l’ultima grande tappa della suddetta Guerra dei mondi, e anche una delle più esaltanti, e mi riferisco in particolare alle due partite ammirate nel corso degli ultimi giorni: due squadre che occupano una posizione agli antipodi nella vasta costellazione del calcio si affrontano sfoderando tutte le armi di cui dispongono, e così la filosofia spregiudicata e ai limiti della “follia calcolata” di Flick (i tedeschi sono quasi sempre radicali e portano le idee al loro esito ultimo), che fa della vocazione tecnica la propria ragione di vita, si è scornata con l’approccio post-italianista di Simone Inzaghi e della sua Inter, un approccio che traduce in una sintassi moderna le lezioni delle migliori squadre “italianiste” di sempre (a partire dalla Grande Inter e dall’Italia del 1982, due formazioni camaleontiche e dotate di una qualità spropositata: il loro era e rimane un calcio ad alto tasso di spettacolarità), portandola a compimento con un’efficacia e anche con una qualità che si è vista raramente sui campi di calcio, negli ultimi anni.

Decisivi sono risultati, come spesso è avvenuto, gli episodi, ma non sottovaluterei la grande intelligenza dei nerazzurri, bravi a portare il Barcellona nel proprio giardino di casa e a costringerlo a giocare la partita che loro volevano: consapevoli forse di non avere la stessa levatura sul piano puramente tecnico, un po’ come gli azzurri contro i verdeoro quasi 43 anni fa, i milanesi hanno avuto la bravura di bucare per primi la porta avversaria, mettendo a nudo la strategia estrema di Flick (che in realtà ha in buona parte dei casi funzionato, venendo punita dalla bravura altrui e da alcune imperdonabili leggerezze individuali) e obbligando gli avversari a radicalizzare ulteriormente un approccio già di per sé poco incline ai compromessi.

Ne sono risultate due partite memorabili, in cui la Guerra dei mondi ipotizzata in questo articolo è giunta (non a caso con due società che possiedono un’identità fortissima e antipodica) forse al suo esito definitivo, lasciando attoniti milioni di spettatori in tutto il mondo, con uno degli eventi “emotivi” più indimenticabili della storia del calcio, recente e non solo.

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