1930, 1934, 1966, 1978, 1998. Cos’hanno in comune queste edizioni della Coppa del Mondo? Si tratta di edizioni – 5 su un totale di 22, una percentuale piuttosto significativa – che hanno visto la nazionale ospitante alzare il massimo trofeo iridato per la prima volta nella sua storia. Più in generale, organizzare la Coppa del Mondo ha spesso voluto dire vincere, arrivare ad un passo dal trionfo o, in altri casi, ottenere un piazzamento di prestigio, un risultato da record. È stato il caso, tra gli altri, della Svezia nel 1958, la cui squadra, ricca di stelle militanti nel campionato italiano, si arrese soltanto di fronte all’ultimo, quasi insormontabile, scoglio: il Brasile di Pelé, forse la massima espressione del calcio bailado. O ancora della Corea del Sud nel 2002, quando tra feroci polemiche gli uomini di Guus Hiddink raggiunsero la semifinale dopo aver eliminato in ordine cronologico formazioni decisamente più accreditate quali Portogallo, Italia e Spagna.
Sospetti, illazioni, e polemiche hanno, ovviamente, caratterizzato molte di queste edizioni. Iniziarono a palesarsi già durante il Mondiale del 1930, quando ad ospitare il torneo – e a vincerlo – fu l’Uruguay e sono proseguite fino ai giorni nostri.


Uno dei capitoli più discussi di questa appassionante saga sportiva è stato indubbiamente quello del 1978, quando ad ospitare la rassegna iridata fu l’Argentina. L’Argentina, alla quale era stata assegnata l’organizzazione della manifestazione durante il congresso FIFA tenutosi a Tokyo nel 1964, era governata dalla dittatura della giunta militare presieduta da Jorge Rafael Videla, salita al potere nel marzo del 1976. E, come già avvenuto in altri contesti storici e geografici, il regime non esitò a trasformare l’evento in un potentissimo strumento di propaganda utile, soprattutto, a restituire l’immagine di un paese in salute e ad insabbiare le voci che da qualche tempo erano iniziate a circolare circa i desaparecidos, vittime del Processo di Riorganizzazione Nazionale voluto dalla giunta.


Da un punto di vista sportivo si presentava un problema considerevole: l’Argentina, già da diversi decenni affermata potenza calcistica, aveva una bacheca ricchissima di Copas America – Campeonatos Sudamericanos fino al 1975 – ma non aveva ancora ottenuto una vittoria mondiale, al contrario dei suoi più vicini ed acerrimi rivali, ovvero Uruguay e Brasile. La parola d’obbligo era una ed una soltanto: vincere.
César Luis Menotti si prese dei rischi non di poco conto: escluse Ricardo Bochini, uno dei calciatori argentini più titolati dell’epoca essendo questi stato tre volte campione continentale con l’Independiente – ed una di queste campione intercontinentale – dalla lista dei 25 preselezionati. In tale lista configurava però l’astro nascente del calcio albiceleste Diego Armando Maradona. Maradona, le cui gesta nel campionato argentino non sono probabilmente mai state evidenziate abbastanza, almeno al di fuori dei confini patri, nei mesi che precedevano la rassegna del 1978 aveva appena 17 anni ma vantava già due stagioni da protagonista assoluto. A sorpresa, però, Menotti lasciò fuori anche lui dalle convocazioni finali assieme all’attaccante Humberto Bravo ed al laterale Victor Bottaniz.
Diego, raccontarono i compagni, era inconsolabile: piangeva di continuo e temeva di aver deluso suo padre. Non riusciva a farsene una ragione. Fu proprio uno dei due altri esclusi, Humberto Bravo, che si prodigò in ogni modo per tranquillizzarlo. Gli disse che lui era Maradona e che avrebbe, al contrario suo, avuto molte altre occasioni di calcare la passerella iridata.



Ma perché Maradona non venne convocato? Al netto di alcune voci di corridoio secondo le quali Menotti ed alcuni dirigenti della federazione argentina avrebbero ricevuto intimidazioni affinché venissero convocati alcuni calciatori e non altri, pare che la scelta del tecnico rosarino poggiò su una motivazione ben diversa: l’esperienza che altri calciatori, tra i quali Norberto ‘Beto’ Alonso e Ricardo Villa, potevano garantire rispetto al diez dell’Argentinos Juniors. Rinunciare a Bochini e a Maradona significava privarsi di due calciatori di enorme qualità ed al contempo accollarsi il rischio di finire sul banco degli imputati nel caso in cui l’Argentina non avesse trionfato.


Analizzando le partite della rassegna del 1978 emerge la natura combattiva di una nazionale, quella albiceleste, che ha più volte dovuto sudare le proverbiali sette camicie per battere i propri avversari e proseguire il proprio cammino. Di vittoria netta ce ne fu soltanto una, quella contro il Perù, che analizzeremo nel dettaglio a breve.
Il cammino degli uomini di Menotti era iniziato il giorno dopo l’inaugurazione della manifestazione: l’Argentina sfidò difatti l’Ungheria dopo che nel primo pomeriggio l’Italia aveva battuto la Francia con il risultato di 2-1. Argentina-Ungheria fu – e non sarebbe certamente stata l’unica – una sfida incredibilmente aperta e combattuta. L’Ungheria negli anni ’70 non era certo una formazione temibile come quella di dieci anni prima, per non parlare di quella degli anni ’50, l’arcinota Squadra d’Oro di Ferenc Puskás conosciuta in patria come Aranycsapat. Nonostante ciò, l’Argentina la spuntò in rimonta dopo essere passata in svantaggio nei primi minuti di gioco.

Le vittorie risicate, sofferte e con il coltello tra i denti sarebbero state diverse: quattro giorni dopo aver affrontato l’Ungheria, l’Argentina fronteggiò la Francia di Michel Platini. Stesso risultato e copione pressoché identico: massimo traguardo ottenuto con il massimo sforzo. Mario Kempes, protagonista assoluto di quell’edizione in quanto oltre a laurearsi campione del mondo si imporrà come capocannoniere della competizione nonché Pallone d’Oro del Mondiale, l’unico nella storia a riuscirci insieme al nostro Paolo Rossi nel 1982, non entrò nel tabellino ma si mise in luce con delle giocate di qualità e potenza, il mix che in quegli lo rendevano, con tutta probabilità, il più forte attaccante al mondo. Colpì un palo con una bordata terrificante e da una sua iniziativa scaturì il calcio di rigore che portò avanti gli uomini di Menotti. Un autentico tornado nonché un diez atipico, dal momento che rispetto a coloro che lo avrebbero succeduto, Mario Kempes era un attaccante in tutto e per tutto, magari meno geniale e creativo ma dotato di grande forza fisica.


Il 10 giugno all’Estadio Monumental di Buenos Aires l’Argentina incappò addirittura in una sconfitta: l’Italia di Bearzot inflisse un 1-0 ai padroni di casa. Poco male, gli argentini si sarebbero comunque qualificati per il secondo girone – il format escludeva ottavi, quarti di finale e semifinale e prevedeva due gironi con le vincitrici dei secondi gironi ammesse in finale – dove avrebbero incontrato insidie ancora maggiori: la Polonia, la quale vantava una delle migliori generazioni della sua storia, ed il Brasile.
In occasione della sfida contro la Polonia l’Estadio Gigante de Arroyito di Rosario, teatro di tutti e tre gli incontri della nazionale argentina durante il secondo girone, era pienissimo, probabilmente per incitare ancor di più la squadra e scongiurare un eventuale calo di entusiasmo in seguito alla sconfitta contro l’Italia. L’Argentina la spuntò per 2-0, la prima vittoria ottenuta con più di una rete di scarto. Ma non fu affatto facile: sul punteggio di 1-0 la Polonia, in parte per mancanza di mordente ed in parte a causa della giornata di grazia del Pato Fillol, portiere che indossava la casacca numero 5 – il numero 1 era stato prenotato da Norberto Alonso –, sprecò in più occasioni la rete dell’1-1. Oltre ad una grande parata su conclusione di Boniek, l’estremo difensore argentino ipnotizzò Deyna dagli undici metri dopo che Mario Kempes aveva evitato con un salvataggio di mano la rete dell’1-1. L’attaccante, tuttavia, non fu espulso: secondo le regole del tempo un salvataggio di mano sulla linea veniva punito con il cartellino giallo, motivo per il quale nel corso della seconda frazione di gioco El Matador suggellò la vittoria dei suoi con un gol di pura classe che faceva seguito alla rete di opportunismo siglata nel primo tempo.

Quattro giorni dopo fu il turno di Argentina-Brasile, una sfida sentitissima sia da un punto di vista storico che sportivo – sarebbe stata ribattezzata Batalla de Rosario –, dato che il vincitore sarebbe stato con ogni probabilità uno dei due finalisti. E sebbene si trattasse, in un certo senso, di un derby, era soltanto la seconda volta che le due superpotenze latine si affrontavano nella storia dei Mondiali. La prima volta, quattro anni prima, aveva detto bene ai verdeoro i quali avevano eliminato i loro dirimpettai dopo che questi avevano perso il primo confronto contro l’Olanda di Johan Cruyff.
Tantissime conclusioni dalla distanza, poche insidie ravvicinate. La partita terminò a reti bianche grazie soprattutto al Pato Fillol, nuovamente decisivo, che in due occasioni disse no agli avanti brasiliani grazie ad interventi decisivi con le mani e con i piedi. Ora, però, per gli uomini di Menotti le cose si complicavano: Brasile ed Argentina si trovavano appaiati a tre punti e gli argentini per sopravanzare i rivali nella corsa verso la finale dovevano infliggere al Perù una sconfitta di minimo quattro reti o tre reti partendo da un punteggio di 5-2. Altrimenti a presentarsi in finale sarebbe stato il Brasile che poco prima dell’incontro tra Argentina e Perù aveva battuto 3-1 la Polonia. Prima dell’ultimo incontro del gruppo ebbe luogo un episodio che sarebbe stato enormemente discusso: Brasile e Polonia avevano chiesto alla FIFA di poter giocare alla stessa ora degli argentini, ma la risposta era stata negativa per via di problematiche relative alla trasmissione contemporanea dei due incontri via satellite. Oltretutto la FIFA ricordò che da ben prima del Mondiale si era deciso che i padroni di casa avrebbero disputato tutti i loro incontri alle 19.15, e così in effetti era stato fino a quel momento.

La sfida, nuovamente disputata all’Estadio Gigante de Arroyito, terminò 6-0 in favore dei padroni di casa e consentì all’Albiceleste di approdare in finale, la seconda nella sua storia. Fu da molti ricordata come Marmelada Peruana. Tuttora, quando si fa riferimento a quell’incontro, una delle parole più in voga sulle testate sudamericane è arreglo, ovvero combine.
I dubbi circa la regolarità dell’incontro si palesarono soprattutto a causa dell’atteggiamento troppo remissivo dei peruviani nel secondo tempo, dopo che i primi quarantacinque minuti di gioco si erano conclusi sul 2-0, un punteggio giusto nella sostanza ma che aveva comunque visto il Perù, nonostante fosse già matematicamente eliminato dalla competizione, creare alcune importanti occasioni e cogliere un palo. Alcune prestazioni individuali dei peruviani erano risultate decisamente negative e più in là nel tempo sarebbero emerse alcune dichiarazioni che avrebbero alimentato i sospetti dei più.
José Velásquez, centrocampista peruviano in campo quel giorno, avrebbe dichiarato che sei suoi compagni sarebbero stati coinvolti nella combine, ma decise di fare solo quattro nomi: Ramón Quiroga, il portiere, un argentino naturalizzato peruviano, Rodulfo Manzo, calciatore che proprio nei giorni precedenti ai Mondiali era passato al Velez Sarsfield, club per il quale militò soltanto per una stagione disputando una manciata di partite prima di partire alla volta dell’Ecuador, Juan Muñante e Raúl Gorriti, subentrato ad inizio secondo tempo proprio al posto di Velásquez. Manzo, inoltre, l’imputato numero uno di quella debacle, in un’intervista si sarebbe difeso dalle accuse sottolineando come l’Argentina fosse nettamente superiore al Perù e come giocando in casa con la possibilità di andare in finale avesse maggiori motivazioni. Ed aggiunse che a fine primo tempo non successe nulla nello spogliatoio degli ospiti. Confermò, però, così come aveva raccontato il capitano Chumpitaz, che prima dell’inizio dell’incontro Videla era andato a salutare i calciatori peruviani augurandogli buona fortuna e menzionando la fratellanza sudamericana che regnava nelle relazioni tra i due paesi. “Non mi parve in nessun modo una minaccia”, avrebbe detto Chumpitaz.



Ma perché Velásquez fece quattro nomi e non sei? Sostenne di non voler menzionare gli altri due calciatori in quanto questi godevano di una nomea internazionale, e quindi di non volergli rovinare la carriera. Juan Carlos Oblitas, compagno di Velasquez, avrebbero detto di aver avuto più di un sospetto, pur sostenendo che avrebbe messo la mano sul fuoco sull’innocenza di Quiroga che, a suo dire, non aveva responsabilità su nessuno dei gol presi. Invitato una ventina d’anni dopo ad un programma televisivo argentino, avrebbe rincarato la dose scatenando la reazione di Mario Kempes, anch’egli presente in studio, il quale gli chiese di portare delle prove di quanto stesse affermando. Altri giocatori sembrarono sempre voler gettar acqua sul fuoco, asserendo che la sconfitta era stata meramente dettata da ragioni di campo.
Prove certe ed inconfutabili di arreglo, ad oggi, non ne sono pervenute. L’Argentina si sarebbe contesa con l’Olanda il trionfo mondiale. Entrambe vantavano già una finale mondiale alle spalle ma sia erano arenate dinnanzi all’ultimo ostacolo. In ogni caso, si sarebbe trattato di una prima volta.
Con il senno di poi, la finale Argentina-Olanda avrebbe potuto rivestire un interesse sportivo ancora maggiore: sarebbe potuta essere la sfida tra un emergente Diego Armando Maradona, che come abbiamo visto fu escluso dalle convocazioni del proprio CT, e Johan Cruyff, che per ragioni personali – aveva subito un furto in casa che aveva lasciato il calciatore e famiglia in stato di shock – aveva deciso di non partire alla volta del Sudamerica. Tuttavia non mancavano tutte le maggiori stelle dell’Arancia Meccanica che quattro anni prima aveva incantato il mondo, sebbene il calcio mostrato in Argentina era stato decisamente meno spumeggiante.


Argentina-Olanda fu una partita per certi versi simile a quelle che l’Albiceleste aveva disputato nei due gironi: dura, combattuta ed aperta a qualsiasi risultato. Un autentico thriller che si decise nei minuti finali dopo che Nanninga, centravanti olandese subentrato nel secondo tempo, aveva pareggiato la rete di Mario Kempes. Poi, prima delle due segnature grazie alle quali l’Argentina sarebbe tornata in vantaggio ed avrebbe sigillato la vittoria, Rob Rensenbrink, ala olandese, colpì un palo, una sliding door decisiva in quell’edizione dei Mondiali che avrebbe reso vano qualsiasi tentativo ipotetico o reale di combine nel caso in cui il pallone fosse terminato oltre la linea. Tanto i sudamericani come gli europei avevano avuto le loro chance, il Pato Fillol si era nuovamente sottolineato per alcuni salvataggi decisivi ed infine i rioplatensi erano saliti sul tetto del mondo.
Quindi, si può parlare di combine? E quanto – se lo fece – la giunta miliare argentina ebbe un peso nell’epilogo dell’edizione del 1978? A ben vedere, l’unico incontro davvero discusso e che dette adito a polemiche fu quello contro il Perù. Ad onor del vero, più per l’atteggiamento dei peruviani che non per l’arbitraggio, che nella prima frazione di gioco sembrò negare un rigore abbastanza di chiaro ai rioplatensi. Tuttavia, per quanto riguarda le altre sfide, non sembrano sussistere elementi oggettivi per sostenere che quella vittoria fu decisa a tavolino. È invece probabile,a nostro avviso, che l’Argentina non si sia trovata dinnanzi a se uno squadrone paragonabile al Brasile di circa dieci anni prima, o un’Olanda spettacolare come quella del 1974. L’episodio del palo di Rensenbrink è emblematico: qualche centimetro più in là e la storia di quell’edizione – e forse dell’Albiceleste in generale – sarebbe stata totalmente riscritta.


