Quest’anno la competizione sportiva più seguita ed amata al mondo ha compiuto 90 anni. 90 anni che hanno visto l’alternarsi del dominio sudamericano a quello europeo e le cui edizioni hanno rappresentato uno dei principali palcoscenici sui quali si sono imposte le stelle più luminose del panorama internazionale.
Le Origini
La Coppa del Mondo del 1930, snobbata da diverse nazioni, non fu che l’ennesimo tassello di un processo politico, diplomatico e sportivo atto a rendere il calcio un fenomeno globale, commerciale e trasversale. Siamo negli anni tra le due guerre, anni nei quali le principali potenze mondiali cercano di ricompattare i loro rapporti in seguito ai fatti della Grande guerra. A questo proposito lo sport gioca un ruolo fondamentale: il 15 gennaio del 1922 l’Italia mussoliniana invita l’Austria per un’amichevole a Milano, la prima successiva al cessate il fuoco, e solo due anni dopo si disputano nuovamente i Giochi Olimpici. Rispetto al 1920, anno che aveva segnato l’esclusione di alcune delle potenze uscite con le ossa rotte dal conflitto, nel 1924 la partecipazione è aperta a tutti, o meglio, alle Federazioni rimaste fedeli al modello amatoriale. Il sapore è quello di un trofeo davvero internazionale dove le migliori forze in gioco – ad eccezione di Inghilterra ed Austria, i cui calciatori sono professionisti – si sfidano in un torneo decisamente appassionante, il primo nel quale l’importanza del calcio raggiunge quella delle discipline tradizionalmente presenti ai Giochi. Gli anni tra il 1927 ed il 1930 sono forieri di ulteriori salti di qualità: il 1927 coincide con la fondazione della Coppa Mitropa, o Coppa Europa, come viene chiamata dai giornali italiani, una sorta di Coppa Campioni ante litteram che proseguirà fino al 1940 e della Coppa Internazionale, il corrispettivo degli odierni Campionati Europei, sebbene con un formato diverso. Nel 1928 avranno nuovamente luogo i Giochi Olimpici, impoveriti dall’assenza di formazioni ora passate al professionismo e, appunto, la prima Coppa del Mondo.
I precedenti olimpici
I Giochi Olimpici di cui sopra hanno dato un esito unanime: l’Uruguay si è affermato per ben due volte oltreoceano, vincendo – o meglio, stravincendo – entrambe le edizioni. È una delle ragioni per le quali Jules Rimet e la FIFA hanno deciso di ospitare la prima edizione della Coppa del Mondo proprio in Uruguay, a Montevideo, l’anno nel quale la Costituzione uruguayana compie cent’anni. Per festeggiare tale avvenimento le autorità locali hanno deciso di costruire uno stadio, il Centenario, la cui capienza si attesta sugli 80.000 spettatori. Saranno proprio il Centenario – che non battezzerà l’esordio della competizione, in quanto la sua inaugurazione verrà fatta coincidere con l’anniversario della Costituzione – il Pocitos e il Parque Central i teatri della manifestazione. Ma vi è anche un’altra ragione, chiave secondo Jules Rimet: in antitesi con buona parte dei paesi europei, Argentina e Brasile, gli ultimi due afflitti da guerre civili che porteranno nel giro di qualche mese alla salita al potere dei governi semi-dittatoriali di Getúlio Vargas e José Uriburu, l’Uruguay presenta un clima politico disteso, una democrazia che in quella precisa fase storica è un unicum a livello continentale. Il governo in carica è quello di Juan Campisteguy, presidente di origini francesi che darà il benvenuto a Jules Rimet invitandolo ad assaggiare i vini locali presso le migliori cantine della regione e facendogli provare specialità a lui sconosciute, come l’asado. Rimet si sarebbe detto sorpreso, avrebbe sostenuto di aver avuto l’impressione che Campisteguy, più che per rispetto del ruolo istituzionale ricoperto da Rimet, sarebbe stato felice di aver ospite un suo quasi compaesano.
Reazioni dall’Europa
La scelta di Rimet e accoliti di non organizzare la manifestazione in Europa ha generato un certo malcontento: le principali nazionali del Vecchio Continente, ovvero l’Italia e le formazioni della Mitteleuropa, Austria, Ungheria e Cecoslovacchia hanno tutte dato forfait, nonostante Campisteguy si fosse proposto di pagare loro vitto e alloggio durante la loro permanenza a Montevideo. Così Rimet si imbarca sul transatlantico Conte Verde per il Sudamerica soltanto con la nazionale francese e quella rumena il 20 giugno del 1930. Faranno un pit stop il giorno seguente a Barcellona dove li aspetta la compagine belga. A bordo non ci sono solo atleti ma anche artisti, musicisti e cantanti di fama internazionale, come ad esempio il cantante russo Chaliapine e la cantante lirica francese Marthe Nespolous, nonché l’opera dello scultore francese Abel Lafleur, il primo esemplare della Coppa del Mondo. Il Conte Verde raggiunge il porto di Montevideo il 5 luglio. La nazionale jugoslava, partita due giorni prima a bordo del Florida, si è già sistemata in albergo.
Le forze in gioco
Le nazionali che prendono parte alla manifestazione sono tutte un riflesso culturale e sociale del tempo: il Brasile non ha tra le proprie file atleti di origine africana. Per loro così come per i mulatti prendere parte alle partite di pallone è ancora un tabù. Delle tre principali formazioni latinoamericane, anche in virtù di un palmares meno ricco, i verdeoro sono decisamente la formazione meno quotata. I riflettori sono puntati principalmente sulle due sorelle rio platensi: l’Argentina si presenta con ottime carte in regola, essendo il campione uscente della Copa America – al tempo Campeonato Sudamericano – e vantando tra le proprie fila campioni di indiscusso valore quali il volante Luis Monti, soprannominato Doble Ancho, un campione che avrebbe fatto le fortune anche della nazionale italiana, Carlos Peucelle, il primo millonario, come verrà soprannominato in seguito al suo passaggio al River Plate ed il capitano Manuel ‘Nolo’ Ferreira, già leader dell’Albiceleste alle Olimpiadi del 1928. L’Uruguay non ha bisogno di presentazioni: per due volte ha incantato l’Europa mettendo in vetrina le sue stelle principali tra le quali il fuoriclasse Hector Scarone, per molti uno dei più forti calciatori dell’anteguerra, il capitano José Nasazzi, una sorta di caudillo del rettangolo verde e José Leandro Andrade, esterno destro di discendenza africana. Non è un dettaglio da poco: in Uruguay per un giocatore di colore è normale giocare, altrove assolutamente no.
L’Europa come si è detto presenta quattro protagoniste, nessuna delle quali parte con i favori dei pronostici: Francia, Belgio, Romania e Jugoslavia. La Francia è ancora una federazione amatoriale, non prende parte alle competizioni più ambite d’Europa ma ha dei giocatori interessanti. Uno di questi è Lucien Laurent, che diverrà il primo marcatore nella storia della manifestazione, motivo per il quale gli verrà dedicata una targa nei pressi del Pocitos. Il Belgio, una formazione emergente, ha deciso di rinunciare al suo fuoriclasse di punta, Raymond Braine. Stando alle regole imposte dalla Federazione belga, i calciatori che godono già di una fonte di reddito non possono percepire uno stipendio dal proprio club, ma Braine, proprietario del Cafe Matador, guadagnava anche grazie alla propria società, il Beerschot. Per questa ragione è stato estromesso dalla propria nazionale. L’attaccante ha così fatto una scelta di vita ben precisa: ha deciso di emigrare all’estero desideroso di trovare un club disposto a contrattarlo. Fallito il trasferimento al Clapton Orient, che avrebbe fatto di lui uno dei primissimi giocatori dell’Europa continentale a giocare in Inghilterra, si sarebbe accasato allo Slavia Praga diventando così il primo calciatore professionista belga. In Uruguay è arrivato si un Braine, ma è il fratello – e capitano della nazionale – Pierre, il meno famoso tra i due. La Romania è un caso curioso: è composta in larghissima parte dai dipendenti di un’azienda petrolifera inglese. Si è trattato di una scelta del Re Carol: il sovrano ha dovuto insistere dato l’iniziale diniego dei vertici societari ma alla fine ha avuto la meglio. La stella è certamente il centravanti Rudolf Wetzer: Wetzer vanta in bacheca un titolo internazionale, ovvero la Mitropa vinta l’anno prima con gli ungheresi dell’Újpest. L’ha vinta giocando a fianco di uno dei principali fuoriclasse del tempo, István Avar, che nonostante fosse nato rumeno – era di Arad, una città ungherese che dopo la Grande guerra era passata sotto il controllo rumeno – da un anno ha ottenuto il passaporto magiaro e gioca per l’Ungheria. L’ultima formazione europea è la Jugoslavia che si presenta ai nastri di partenza come un’autentica Cenerentola, in virtù dei risultati non esaltanti ottenuti delle sue squadre nella Mitropa tra il 1927 ed il 1928. Si tratta inoltre di una formazione giovanissima, probabilmente la più giovane nella storia della competizione: l’età media è sotto i 22 anni.
Conferme e sorprese
Le due grandi favorite, le gemelle rio platensi, non deludono le aspettative arrivando entrambe in finale. Sarà l’Uruguay a spuntarla con il risultato di 4-2 al termine di un incontro incandescente tanto sul terreno di gioco come a bordo campo e sugli spalti. Secondo molti, difatti, quel giorno il Centenario avrebbe notevolmente superato la capienza massima di 80.000 spettatori. Gli argentini avrebbero denunciato il clima ostile che aveva regnato nello stadio e gli uruguayani, anch’essi sotto pressione, avevano dovuto rivoluzionare i propri piani tattici poco prima del fischio d’inizio: Peregrino Anselmo, uno degli attaccanti titolari, aveva detto di non sentirsela di entrare in campo ed era stato così sostituito all’ultimo da Hector Castro, soprannominato El Divino Monco per aver perso una mano tempo prima nella segheria nella quale lavorava. Le diatribe non avevano tardato a manifestarsi: argentini ed uruguayani avevano dibattuto anche sul pallone da utilizzare, tanto che alla fine si era deciso di utilizzare un tempo il pallone prediletto dall’Albiceleste e l’altro quello che preferivano i rivali. Langenus, l’arbitro dell’incontro, arrivato allo stadio aveva dovuto dimostrare di essere effettivamente il direttore di gara prescelto, dato che prima di lui si erano presentati in dodici sostenendo di essere Langenus. Al termine della partita sarebbe scappato di fretta e furia nella speranza di passare inosservato, nonostante un’altezza di quasi due metri, una rarità per quei tempi. Quella stessa sera lo aspettava un transatlantico che lo avrebbe riportato in patria. Anni dopo Luis Monti avrebbe dichiarato che se l’Argentina fosse uscita vincitrice da quel confronto, i suoi calciatori probabilmente non ne sarebbero usciti vivi.
Come da attese, tre nazionali europee su quattro non passarono il turno: Romania, Francia e Belgio dovettero abdicare già nei gironi. A sorprendere fu la giovane Jugoslavia, che grazie ad un calcio frizzante, un calcio che avrebbe conservato nel corso dei decenni, avrebbe avuto accesso alle semifinali dopo aver sconfitto il Brasile. Proprio in virtù di quell’exploit il giorno seguente un giornale locale li avrebbe definiti Il Brasile d’Europa. A brillare furono in modo particolare talenti quali Marjanović, Tirnanić e Bek, tre giocatori offensivi che avrebbero fatto parlare di sé negli anni a venire ed i cui sogni erano stati frustrati dall’invincibile Uruguay. Secondo la stampa jugoslava, in realtà, il 6-1 finale non racconterebbe tutta la verità: si raccontò che agli ospiti era stato annullato un gol regolare ed ai sudamericani convalidato uno palesemente in fuorigioco, ma certezze in merito non ce ne sono. Il risultato non sembrerebbe lasciar spazi ad appelli di nessun tipo.
Un esperimento rimandato
Data l’assenza delle migliori formazioni europee, il Mondiale uruguayano non ebbe modo di dare risposte circa l’accresciuta popolarità del calcio a livello globale. A fare impressione è un dato in particolare: l’affluenza pressoché inesistente che si registrò negli stadi in diverse occasioni, specialmente quando almeno una squadra europea era coinvolta. A titolo di esempio, degli 80.000 seggiolini del Centenario, il 19 luglio in occasione della sfida tra Francia e Cile ne vennero occupati solo 2.000. Si evidenziarono anche altri problemi non di poco conto che Jules Rimet avrebbe cercato di scongiurare in vista delle manifestazioni successive. In primis, Montevideo non era del tutto equipaggiata per ospitare una manifestazione che ambiva a crescere da diversi punti di vista, non ultimo quello economico. La capitale uruguayana, come si è detto, ospitava soltanto tre stadi, e di questi uno solo, il Centenario, era davvero capiente. Il Pocitos – che sarebbe stato demolito 10 anni dopo – aveva una capienza di soltanto 3000 spettatori. In secundis, l’Uruguay non consentiva di organizzare una manifestazione su scala nazionale: solo Montevideo aveva giovato dell’evento. Per queste ragioni quattro anni dopo, nonostante dittature e totalitarismi di ogni genere imperversassero sull’Europa, Jules Rimet avrebbe fatto un passo indietro: si sarebbe accollato il rischio di vedere la Coppa del Mondo condizionata da pressioni politiche pur di dare un maggior respiro all’evento. Rispetto all’Uruguay l’Italia metteva a disposizione delle formazioni partecipanti ben otto stadi, alcuni avveniristici per i tempi, sparpagliati su tutto il territorio nazionale. E nel 1938 – complice la cornice delle Olimpiadi di Berlino del 1936 e l’aumentata popolarità del movimento calcistico francese – si sarebbe optato per una soluzione simile, la Francia, nonostante i venti di guerra soffiassero in maniera sempre più forte sul Vecchio Continente.