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Com’è cambiata la cartina calcistica dell’Europa

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A livello calcistico l’Europa, ed in parte il Sudamerica, ha subito nel corso dei decenni continue metamorfosi che hanno alterato i rapporti di forze tra le varie nazionali. Potrebbe sorprendere pensare al fatto che superpotenze del pallone come Germania, Olanda, Spagna o Francia non fossero che delle comparse durante gli anni nei quali il calcio iniziava ad attecchire in tutta Europa. Non solo: alcune di queste – Germania e Olanda – avrebbero deciso di virare sul modello professionistico anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Sembra incredibile a dirsi ma la Germania vinse il suo primo mondiale, quello del 1954, con una nazionale formata da dilettanti. Eccetto la vittoria dell’Uruguay nel 1930 si tratta di un caso davvero unico, e nonostante sia giusto puntualizzare come il dilettantismo nel mondo del calcio contemplasse nella maggior parte dei casi rimborsi sottobanco corrisposti ai giocatori, questo dato ci indica come in alcune nazioni europee non fosse ancora stato fatto un tentativo di convertire il calcio in un vero e proprio business. A titolo di esempio prendiamo Johann Cruyff: all’unisono considerato il più grande calciatore della storia del calcio olandese, fu il secondo Tulipano ad ottenere un contratto professionistico dopo Piet Keizer. Tutto ciò nel nel 1971, a quasi 50 di distanza dagli anni nei quali il calcio era diventato professionistico in altre nazioni europee.

Il Calcio, un prodotto Made in England

Una foto del Blackburn Rovers durante la stagione 1910-1911. Al tempo il Blackburn era una delle più forti
formazioni inglesi e faceva scuola ogni volta che veniva invitata a disputare amichevoli nell’Europa continentale.

Il calcio fa la sua comparsa in Europa a cavallo tra la fine del 19esimo e l’inizio del 20esimo ed attecchisce in particolar modo nelle metropolis europee più fiorenti. Ragazzi di ogni età ed estrazione sociale si ritrovano nei parchi, nelle aiuole ed in parcheggi abbandonati per prendere a calci un oggetto sferico, per molti una novità. Di solito chi importava il calcio in Italia e nelle altre nazioni del Vecchio Continente – in una prima fase le regioni facenti parte dell’Impero austroungarico – erano impiegati britannici alle dipendenze di società inglesi che si erano trasferiti a lavorare in Europa. Sfruttando l’aumentato tempo libero del quale gli operai avevano iniziato a beneficiare in quegli anni in diversi paesi, viene fatto un tentativo di promuovere due attività: il calcio, appunto, ed il cricket. Per questo motivo diverse delle prime società di calcio che comparvero in Europa riportavano la dicitura ‘…..Football and Cricket Club’, o ‘Cricket and Football Club’. Genoa, Milan o il Vienna Cricket and Football Club, poi diventato Austria Vienna, sono solo alcuni esempi. Ma nel giro di qualche anno, per qualche ragione ignota ma che si presta ad interessantissime analisi sociologiche, la passione per il calcio esplode mentre quella per il cricket, concesso che fosse mai nata, implode senza mai arrivare ad un vero e proprio sviluppo.

Essendo il calcio nato in epoca vittoriana, nei primi anni del ‘900 l’Inghilterra – che ha alle spalle più di 30 anni di attività – domina incontrastata la scena. Al fine di promuovere il neonato movimento sportivo, i deus ex machina del calcio europeo del tempo organizzano sovente incontri amichevoli disputati in estate tra formazioni britanniche e continentali. Se da un lato le partite terminano spesso con punteggi tennistici, dall’altro quei confronti hanno l’effetto di migliorare e plasmare il gioco degli europei. Nel 1912, quando le principali formazioni del continente vengono invitate ai Giochi Olimpici di Stoccolma, sono propri i britannici a trionfare. Il trionfo non lascia spazio a dubbi: ci vorranno anni prima che il calcio dell’Europa continentale possa pensare di competere con quello inglese. In uno di questi incontri, i quarti di finale, la Gran Bretagna fa carne trita di una delle migliori formazioni dell’Europa centrale, l’Ungheria, una compagine che annovera una folta schiera di calciatori del Ferencvaros, la squadra di punta in quegli anni dell’Impero austroungarico. Borbas, Brody e Schlosser sono per molti i migliori interpreti a livello continentale dei rispettivi ruoli, ma i britannici sono troppo avanti ed il 7-0 finale ben riassume la differenza tra le due nazionali. Non è un caso che proprio in quegli anni diversi allenatori inglesi e scozzesi giungono nel continente con una missione ben precisa: insegnare calcio ed elevare il livello dei calciatori europei. I frutti arriveranno, ma bisognerà pazientare qualche anno, anche perché ad interrompere parzialmente quel processo ci avrebbe pensato la Grande guerra.

Il primo dopoguerra: gli allievi insidiano i maestri

Giuseppe Meazza e Gyorgy Sarosi, capitani di Italia ed Ungheria,
prima della finale mondiale del 1938

Il cessate il fuoco del 1918 rappresenta un momento cruciale per lo sviluppo del calcio nei decenni a seguire. Tra mille difficoltà economiche e sociali vi è anche una grande volontà di ricominciare, e nonostante alcune inevitabili frizioni nel giro di pochi anni dall’Europa – dalla Mitteleuropa, quella che solo qualche anno prima era sotto l’Impero austroungarico – arrivano segnali confortanti: il calcio diventa professionistico. Siamo attorno alla metà degli anni ’20 e non è che la prima conquista di un movimento che ora, a distanza di quasi 30 anni dalla sua nascita, mostra una maturità paragonabile a quella del calcio britannico. L’Inghilterra, ovviamente, rimane la nazionale più forte ma la sua egemonia inizia a scricchiolare: ai Giochi Olimpici del 1920 viene sorprendentemente sconfitta dalla Norvegia e nel 1926 anche le sue squadre di club iniziano a mostrare qualche segno di cedimento: le formazioni di Vienna dimostrano di aver ridotto il gap in alcune amichevoli disputate contro una delle migliori formazioni inglesi, l’Arsenal. Arsenal-Rapid finisce 3-3 e dopo la vittoria per 5-3 dell’Arsenal contro l’Austria Vienna gli inglesi vengono battuti da una selezione mista delle due squadre austriache. Tuttavia, la vera regina del calcio europeo tra le due guerre è l’Italia di Vittorio Pozzo: gli azzurri vincono due Mondiali, due Coppe Internazionali – una sorta di Europeo del tempo – del tempo ed i Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Ma c’è di più: tra le due guerre gli incontri internazionali diventano via via più frequenti. Nasce la Coppa dell’Europa Centrale – manifestazione che raduna le formazioni europee di punta – mette ogni estate di fronte le squadre italiane a quelle austriache, ungheresi e cecoslovacche. Nel 1940 – anno nel quale la competizione verrà interrotta – il palmares della manifestazione riporterà due vittorie italiane – entrambe ad opera del Bologna, quattro austriache, quattro ungheresi e tre cecoslovacche. Segno che il grande calcio, almeno a livello europeo, si gioca in Italia e nella Mitteleuropa. Non fu forse un caso che nel 1934 e nel 1938 l’Italia batté a turno in finale proprio Cecoslovacchia ed Ungheria.

Il secondo dopoguerra: il canto del cigno dei danubiani

Un’immagine della finale della Coppa del Mondo del 1954 tra Germania ed Ungheria: Morlock mette a segno la prima rete per i tedeschi

Il secondo dopoguerra porta anch’esso novità non di poco conto. Nel 1950 ricominciano i Mondiali e ad ospitare la manifestazione è il Brasile. Si tratta della prima edizione alla quale partecipa l’Inghilterra che non ne esce benissimo: viene eliminata in un girone a quattro con Cile, Spagna e Stati Uniti, che ieri come oggi erano un Cenerentola, e colleziona solamente due punti. Ma la sconfitta più cocente subita dai britannici avviene nel 1953: l’Inghilterra ospita un’Ungheria che rispetto qualche anno prima ha fatto un ulteriore salto di qualità ed il verdetto del campo è implacabile: l’Ungheria spadroneggia e batte i propri maestri 3-6. Si tratta della prima sconfitta che la nazionale inglese subisce sul proprio terreno. L’anno successivo il copione si ripete a Budapest: l’Ungheria batte 7-1 gli inglesi e si riconferma la migliore formazione europea, forse mondiale. I Mondiali, tra l’altro, sono alle porte e Puskas e compagni sono per tutti i favoriti. Arriveranno dritti in finale dopo aver dominato il proprio girone ed aver eliminato successivamente Brasile ed Uruguay. Perderà a sorpresa in finale contro la Germania, una nazionale che aveva strapazzato nel giro appena due settimane prima con un sonoro 8-3. La Germania, tra l’altro, è un caso interessante: non l’abbiamo ancora citata dal momento che fino al 1954 ha sempre recitato il ruolo della comparsa. Una nazionale perdente che per via della sua modestia è sempre stata snobbata dalle proprie rivali. Le sue formazioni non sono mai state invitate a disputare la Coppa dell’Europa centrale e la nazionale non ha mai partecipato alla Coppa Internazionale. Ha si ottenuto un terzo posto nel 1934 ma poi, nel 1938, è uscita al primo turno contro la Svizzera. E nel 1954, quando appunto vince il primo Mondiale della sua storia, il calcio tedesco è ancora dilettantistico. Tuttavia si manifesta una tendenza che accompagnerà la nazionale tedesca anche più in là negli anni: la possibilità di contare su uno zoccolo duro composto da calciatori di una singola squadra, nel caso del 1954 il Kaiserslautern, formazione che da alla nazionale ben 5 giocatori tra i quali il leader e capitano Fritz Walter. In ogni caso è interessante notare come nel podio iridato, oltre all’Ungheria, trovi spazio l’Austria. L’Austria arriva terza, un traguardo che non avrebbe più ottenuto. Anche per l’Ungheria l’edizione svizzera dei Mondiali è una sorta di canto del cigno: non si sarebbe più ripetuta. Dopo aver messo in bacheca un’oro olimpico nel 1952, aver vinto la Coppa Internazionale nel 1953 e, appunto, essersi presentata a Berna da favorita, avrebbe cessato di competere sui palcoscenici più prestigiosi. Nel 1956, difatti, scoppia la Rivoluzione Ungherese ed in seguito all’invasione dei carri armati sovietici molti fuoriclasse scappano cambiando, oltre che squadra, nazionalità. Uno di questi è proprio Puskas che assieme ad Alfredo Di Stefano, per molti il migliore calciatore della storia, farà man bassa di trofei. Il trofeo che Di Stefano e compagni alzeranno per cinque volte consecutive tra il 1955 ed il 1960 è la neonata Coppa Campioni, competizione che segna l’ingresso della Spagna, o quantomeno del Real Madrid, nel pantheon del calcio mondiale. La nazionale iberica invece non decolla: nel 1958, in un momento nel quale il calcio spagnolo sembra aver raggiunto un’evidente maturazione e sfoggia fuoriclasse del calibro di Gento, Amancio e Suarez, la nazionale non riesce a qualificarsi agli imminenti mondiali. Con il declino delle nazionali danubiane, un’Italia non del tutto competitiva ed una Germania che ha perso lo smalto di qualche anno prima all’Europa manca una vera e propria formazione di punta. Nascono dei fenomeni calcistici interessanti come la Svezia, nazione che ospita il Mondiale del 1958 arrivando in finale ma a dominare il calcio di quegli anni sarà una formazione sudamericana: il Brasile di Pelé e Garrincha.

All’ombra di Pelé e Garrincha

Garrincha e Pelé, protagonisti assoluti della prima
era dorata del calcio brasiliano

L’egemonia verdeoro andrà avanti fino al 1970. I brasiliani vinceranno tre Coppe del Mondo su quattro imponendosi per la prima volta nella loro storia come la nazionale più forte al mondo. Il panorama europeo, tuttavia, è foriero di novità: il Benfica – che è guidato da un tecnico ungherese, Bela Guttmann – vince due Coppe Campioni consecutive tra il 1961 e il 1962 prima che le squadre di Milano si spartiscano il trofeo per tre volte di fila, una volta il Milan e due l’Inter. La nazionale azzurra, tuttavia, delude ampiamente nel 1966 e nel 1970: una generazione di calciatori matura incontra il Brasile nell’ennesima finale disputata dai sudamericani ma si sgretola: i verdeoro vincono con un inappellabile 4-1. Ad anni di distanza riesce più facile cogliere le ragioni per le quali il calcio brasiliano fosse così all’avanguardia: il Brasile trionfò per tre volte schierando sempre giocatori provenienti da club locali, mentre nella lontana Europa Inter e Milan avevano sollevato il trofeo più ambito anche grazie all’apporto di calciatori brasiliani come Dino Sani, Altafini e Jair, che nella nazionale brasiliana non riuscivano a ritagliarsi uno spazio per via di una spietata concorrenza.

Olanda e Germania: due facce di un continente

Cruyff e Beckenbauer, simboli di Olanda e Germania, si stringono la mano
prima della finale mondiale del 1974

Ma il calcio come abbiamo visto è ciclico e propone sempre fenomeni nuovi o di ritorno, Gli anni ’70 mettono in vetrina una nazionale che, al netto di alcuni alti e bassi, sarebbe resistita ai vertici del calcio europeo anche negli anni a seguire: l’Olanda. L’Olanda si caratterizza per un calcio innovativo, fatto di scambi di posizione ed un’attitudine offensiva. Questo stile passerà alla storia come Calcio Totale e nonostante la nazionale non alzerà alcun titolo – disputerà due finali mondiali – le sue squadre di club tra il ’70 e il ’74 vincono la Coppa Campioni per ben quattro volte. A fare da apripista è il Feyenoord nel 1970 a cui seguiranno poi le tre vittorie consecutive ottenute dall’Ajax. Ad iniziare questo ciclo è Rinus Michels, a proseguirlo e terminarlo è Stefan Kovacs, un altro allenatore di origine magiara. Tra i fenomeni di ritorno annoveriamo invece la ricomparsa ad alti livelli della Germania: rispetto all’Olanda la Germania non incanta, non si connota per innovazioni particolare ma è terribilmente cinica e vincente. Così come nel 1954 vince il suo secondo Mondiale da sfavorita ma questa il verdetto del campo sorprende fino ad un certo punto: l’undici tedesco include fuoriclasse del calibro di Franz Beckenbauer, Gerd Muller e Wolfgang Overath solo per citarne alcuni, calciatori che segneranno in maniera indelebile la storia del calcio. Non è un probabilmente un caso che terminato il ciclo dei lancieri di Amsterdam sarà proprio il Bayern Monaco – ora la formazione di riferimento del Paese – a vincere tre Coppe Campioni consecutive. Chi sembra essere totalmente scomparsa dalla ‘cartina dell’Europa che conta’ sono gli inglesi: i calciatori di Sua Maestà hanno si vinto il Mondiale casalingo del 1966 spezzando momentaneamente il dominio del Brasile ma a livello di club – siamo verso la seconda metà degli anni ’70 – i trionfi sono pochi. Ma il vero boom del calcio britannico, al di là dei primissimi anni, è alle porte: Tra Liverpool, Nottingham Forest- per molti una sorpresa – ed Aston Villa gli inglesi vincono cinque Coppe Campioni consecutive riuscendo così, almeno in parte, a togliersi di dosso l’etichetta di perdenti. Solo in parte, però, perché nel 1978 la nazionale inglese non si qualifica nemmeno per i Mondiali.

Un panorama frammentato

Gli anni ’80, da un certo punto di vista, mostrano un livellamento di forze. Da un certo punto di vista sembrano essere tornati agli anni tra le due guerre, quando le nazionali del continente si spartivano spesso equamente i trofei in palio. Quello che va dal 1980 al 1990 è un decennio in cui manca un vero e proprio ciclo ad appannaggio di un club o di una nazionale: se negli anni ’50 il Real ha dominato per cinque anni di fila, negli anni ’60 l’Italia ha ottenuto tre successi consecutivi grazie a Milan ed Inter e lo stesso è capitato ad Olanda e Germania negli anni ’70, nel 1980 lo scettro di migliore nazionale europea è contesissimo: a vincere la principale coppa europea sono in tanti, e tra questi ci sono anche due novità assolute, la Steaua Bucarest e la Stella Rossa. Proprio per questa ragione eleggere una nazionale o un club di spicco non è facile, tenendo anche presente il fatto che la stessa competitività si ripresenta anche nei confronti tra nazionali. Nel 1984, ad esempio, a vincere gli Europei è la Francia, una new entry assoluta.

La Legge Bosman: una progressiva perdita di identità

Il Barcelona di Pep Guardiola, una formazione che contrariamente a molte altre
è riuscita a basare i propri successi sul proprio settore giovanile

Gli anni ’90 seguono su per giù lo stesso copione: il calcio è oramai un movimento maturo – e professionistico – in tutta Europa e le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Manca una formazione che la fa da padrone e l’equilibrio si riverbera anche quando ad affrontarsi sono le selezioni nazionali. La Francia, tuttavia, conferma che il successo ottenuto agli Europei non era che l’inizio di un percorso: una delle sue formazioni, il Marsiglia, vince la Coppa Campioni e nel 1998 la nazionale transalpina mette le mani anche sulla sua prima Coppa del Mondo. Sono anni nei quali il calcio europeo viene riformato e da un certo punto di vista stravolto: nel 1995 entra in vigore la Legge Bosman, un momento decisivo del quale abbiamo già discusso ma che mi ritrovo costretto a menzionare per spiegare le evoluzioni degli anni successivi. La Bosman, nata inizialmente per disciplinare la situazione di quei calciatori che rimanevano di proprietà dei loro club nonostante contratti scaduti, finì per eliminare quasi ogni vincolo relativo all’acquisto di calciatori dall’estero. A partire dal 1995 sarebbe stato più difficile parlare di identità con riferimento al calcio: se prima le squadre venivano forgiate a partire dal vivaio adesso, dati i nuovi orizzonti, le società, soprattutto quelle più abbienti, avrebbero iniziato ad investire molto di più. Così, il calcio italiano sarebbe diventato un po’ meno ‘all’italiana’, quello olandese un po’ meno ‘totale’ – nonostante l’Ajax avrebbe tentando di rimanere fedele al suo credo – e quello inglese un po’ meno all’insegna del noto kick and rush.

Uno dei principali anelli di congiunzione tra il calcio pre-Bosman e quello post è probabilmente il Barcelona. Il Barcelona, diventato grande sotto l’egida di Pep Guardiola, è rimasto parzialmente immune dagli scombussolamenti che hanno riguardato l’intero movimento calcistico ed è riuscito a diventare grande attingendo dal settore giovanile e lanciando giovani calciatori spagnoli, al netto di una nobilissima eccezione, in prima squadra. La filosofia del Barcelona, tuttavia, è solo in parte un prodotto locale: il fautore è Johann Cruyff, che prima da calciatore e poi da tecnico aveva ‘evangelizzato’ i blaugrana convertendoli al credo calcistico tanto caro agli olandesi. Sono gli anni nei quali fiorisce la miglior generazione iberica di sempre, l’unica capace di vincere un Mondiale e di ripetere in parte ed attraverso due squadre, il Barcelona, appunto, ed il Real Madrid, i trionfi europei ottenuti dai Blancos negli anni ’50. Ma il caso del Barcelona, ovvero quello di una formazione capace di rimanere indenne ai cambiamenti sopra descritti, è più unico che raro e negli ultimissimi anni ha iniziato a vacillare.

E oggi?

Volgendo uno sguardo al presente, anche l’ultimo decennio ha presentato delle novità: sono nate delle belle realtà come il Belgio, presentatosi tra i favoriti ai Mondiali del 2018 e la Croazia, per la prima volta finalista. Il calcio contemporaneo, oltre a caratterizzarsi sempre per una progressiva perdita d’identità ed un melange culturale sempre più accentuato, è anche figlio della realtà globale in cui viviamo. Un fenomeno che è una novità solo per alcuni: già negli anni ’20 e ’30, a ben vedere, alcune nazionali annoveravano tra le proprie fila calciatori nati all’estero. Il caso più eclatante era quello dell’Austria la cui nazionale era composta in buona parte da calciatori di origine boema le cui famiglie, in circa di una migliore prospettiva di vita, si trasferivano nella capitale dell’impero. Oggi l’Austria non è più una superpotenza del calcio ma Vienna calamita ancora diverse famiglie provenienti da paesi meno abbienti e non sono pochi i calciatori di origine straniera, turca soprattutto, a nascere a Vienna ed imporsi nei principali club locali. Ed ovviamente il melting pot non è una novità né in Francia, né in Inghilterra, né in Belgio e né in Portogallo, paesi con alle spalle una lunga tradizione coloniale. Ma lo è ad esempio in Germania ed in parte in Italia, nazioni diventate nel tempo via via meno autoctone.

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