Immagine di copertina: Figo e Rui Costa, simboli della Generazione d’oro portoghese
Saudade: sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di un qualcosa di assente (in quanto perduto o non ancora raggiunto) […]
L’enciclopedia Treccani definisce così quel sentimento che permea la poesia lirica portoghese e brasiliana dell’Ottocento e che assume a tutti gli effetti i tratti caratteristici nazionali di queste popolazioni.
Malinconia, rimpianto di un qualcosa che non c’è più, o che non c’è ancora.
Non molto tempo fa, il “complicato sistema di specchi e leve” (semicitazione) – o per meglio dire di algoritmi informatici di YouTube – mi ha riproposto dalle nebbie del passato la finale del campionato europeo Under 21 1994 tra l’Italia – guidata da Cesare Maldini, che ritroveremo quattro anni dopo al timone della nazionale maggiore in occasione dei Mondiali di Francia – e il Portogallo. Come forse ricorderete, gli azzurrini si imposero 1-0 ai supplementari, con il gol vittoria di Orlandini, giovane centrocampista bergamasco che da lì a pochi mesi sarebbe passato all’Inter a suon di miliardi di lire.
Ad attirare la mia attenzione, però, due giocatori lusitani, il numero 7 ed il numero 10, tali Luis Figo e Manuel Rui Costa, due che rientrano senza alcun dubbio nella lista dei migliori talenti della storia del calcio portoghese – a proposito, noi ce ne siamo occupati tempo fa, in un articolo intitolato “Gli eroi del mare e del Fado”, lo potete trovare qui.
Subito il mio pensiero è volato sulla nazionale portoghese del periodo che parte dalla metà del decennio degli anni Novanta e approda a metà del primo decennio del Duemila, ossia con l’inizio dell’era di Cristiano Ronaldo, mi riferisco agli Europei del 2004 ed ai Mondiali del 2006.
Prima dell’avvento del fenomeno da Madeira, uno dei più importanti giocatori di tutti i tempi, la nazionale lusitana ha vissuto quella che da quelle parti chiamano O Geração de ouro. La bacheca dei trofei è rimasta vuota, nonostante un saliscendi di risultati, che vedevano alternarsi piazzamenti onorevoli a delusioni cocenti.
Ora, è davvero difficile non provare un senso di malinconia a pensare a quella generazione che, pur arrivando ad un passo dal titolo, non è mai riuscita a consacrarsi definitivamente con un trofeo e con un riconoscimento eterno che i suoi giocatori avrebbero senza dubbio meritato. Per uno strano scherzo del destino, il trofeo arrivò il decennio successivo, con la vittoria agli Europei del 2016, ma sfido chiunque a ricordare quest’ultima squadra con più nostalgia e malinconia rispetto a quella della generazione d’oro.
Il trionfo in Francia fu legittimo, come ogni verdetto del calcio, ma non aveva quella magia estetica dei suoi interpreti: Cristiano Ronaldo lasciò il segno con un alcune giocate pesanti, in un torneo che non lo vedeva nella sua versione migliore; brillarono Rui Patricio e Joao Mario, che dalle nostre parti ha rivestito più il ruolo dell’enigma che del campione; Quaresma e Nani, altri misteri, hanno confezionato giocate-chiave, ed un certo Eder, eroe-per-caso, ha risolto la finale contro i padroni di casa.
Austria, Islanda, Ungheria, Croazia, Polonia, Galles, Francia. Non il più proibitivo dei percorsi. Spesso ci ha pensato anche la sorte: tra pali, demeriti altrui, lotterie ai calci di rigore, sorteggi favorevoli e qualificazioni acciuffate sul fil di lana, il Portogallo campione d’Europa appare più cinico che effettivamente dominante. Soprattutto è apparso lontano rispetto a quell’anima latino-mediterranea, fatta di dribbling, fantasia ed una certa tendenza allo spreco e alla mancata concretizzazione dell’azione in risultato (e non è un caso che in buonissima misura troviamo questi elementi nel calcio circense dei “discendenti” brasiliani).
Ascesa: Mondiale Under 20 ed Euro ’96
La vittoria del Mondiale Under 20 del 1991 da parte dei baby lusitani in finale proprio contro i verde-oro sembrava aver gettato le basi per una crescita di talenti, ed in effetti è stato così.
Il primo traguardo è stata la raggiunta qualificazione alle fasi finali degli Europei del 1996, dove i portoghesi mancavano da 12 anni. Il girone della fase finale in Inghilterra fu quasi una marcia trionfale: dopo un iniziale pareggio contro i danesi campioni d’Europa in carica – gol di Brian Laudrup, a cui rispose Sà Pinto – fu il battagliero Fernando Couto a decidere la delicata seconda gara contro la Turchia. La terza gara contro la Croazia vide i portoghesi imporsi con un rotondo 3-0 (gol di Figo, Joao Pinto e Domingos), anche se il risultato fu severo: Vitor Baia dovette intervenire più volte per mantenere la porta inviolata.
Il momento-verità furono i quarti di finale contro la Repubblica Ceca, dove il Portogallo partiva con i favori del pronostico: venne fuori una gara oggettivamente bruttina, piena di falli, tatticamente bloccata, rotta solamente dall’incursione di Karel Poborsky e dalla sua “scucchiaiata” altissima che finì in fondo al sacco. I talenti portoghesi, pur occupando meglio il campo, non incisero e i mitteleuropei, che fino a quel momento non avevano incantato e non sembravano una squadra in grado di raggiungere la finale – su “La Stampa” pregavano senza nascondersi di non assistere ad un altro torneo con un vincitore così casuale, pari a quello di quattro anni prima – staccarono il pass per le semifinali. I portoghesi vennero bollati come “presuntuosi ed ingarbugliati”, evanescenti nei momenti che contano.
Il Portogallo non partecipò ai mondiali francesi del 1998, mancando per un punto il piazzamento per partecipare ai playoff, venendo scavalcato da una Germania non irresistibile e dall’Ucraina.
Il brillante Euro 2000

Fu però il 2000 l’anno in cui i lusitani brillarono di più. Nel torneo belga-olandese, il cammino dei portoghesi nel girone fu trionfale, chiuso a punteggio pieno. La prima partita fu una delle più belle di tutta la competizione: Portogallo e Inghilterra diedero spettacolo, con i migliori interpreti al meglio: il destro fatato di David Beckham telecomandava palloni che Scholes e McManaman depositarono in fondo al sacco, mentre le giocate di Luis Figo – splendido, il suo tiro all’incrocio dei pali – e le invenzioni da genio superiore di Rui Costa costruivano la rimonta da 0-2 a 3-2, con Joao Pinto (girata di testa) e Nuno Gomes (tiro a scavalcare Seaman in uscita) a timbrare il tabellino.
Contro la Romania di Hagi, i lusitani invece furono imbrigliati: le individualità migliori non riuscirono a performare sui livelli della partita precedente, ma ci pensò un’incornata di Costinha su punizione di Figo a consegnare altri tre punti fondamentali per i ragazzi di Jemei. La terza partita, contro una Germania depressa e povera, fu un altro trionfo per 3-0, nonostante la squadra infarcita di seconde linee venne guidata da un Paulo Sousa con una gamba e un passo ben lontani dalle giornate migliori.
Nei quarti di finale contro la Turchia, la qualificazione alle semifinali arrivò sull’asse Figo–Nuno Gomes: il primo distribuiva zuccherini da destra, il secondo concretizzava da cannoniere vero (splendida la torsione sul primo gol). Contro la Francia, invece, i talentuosi lusitani dovettero piegarsi davanti ad una delle più belle prestazioni della carriera di Zinedine Zidane – ne abbiamo parlato qui – ma poco male, il calcio portoghese poteva ritenersi soddisfatto del percorso intrapreso: Figo era ormai uno dei migliori giocatori del mondo e da anni faceva la differenza a Barcellona a suon di dribbling e di giocate e a fine anno fu giustamente premiato con il Pallone d’Oro; Manuel Rui Costa si confermava come uno dei migliori trequartisti in circolazione, con vette di rendimento siderale nel nostro campionato ed una visione di gioco rara, che lo portava a distribuire assist a profusione, mentre Nuno Gomes, Conceiçao, Fernando Couto rappresentavano giocatori di sicuro rendimento in squadre medio-alte, in quello che da anni veniva considerato il campionato più difficile al mondo.
Il flop del Mondiale 2002

Due anni dopo, al Mondiale nippo-coreano – il primo del nuovo millennio – andò in onda uno psicodramma collettivo. Non è necessario in questa sede rinvangare le polemiche sugli allucinanti orrori arbitrali che noi italiani – e spagnoli – ricordiamo bene, orrori che ci hanno perseguitato fin dalla fase a gironi e di cui quell’arbitro dalle fattezze grassocce di nome Byron Moreno rappresenta solamente la punta dell’iceberg.
La tragedia sportiva coinvolse anche la Francia campione del mondo e d’Europa in carica mestamente eliminata ai gironi nonostante la ricca presenza di stelle in squadra, nonché l’Argentina a caccia di una vittoria al mondiale che mancava da 16 anni. Se tali premature eliminazioni furono roboanti, si può dire la stessa cosa riguardo al Portogallo, che fallì clamorosamente la qualificazione agli ottavi di finale, malgrado i favori del pronostico. L’atto primo fu l’incredibile superficialità con cui i lusitani affrontarono gli Stati Uniti, al loro esordio in una coppa del mondo: persero 3-2 e Luis Figo ai microfoni nel dopo-partita disse chiaramente «Abbiamo totalmente sbagliato l’approccio alla partita e abbiamo sottovalutato i nostri avversari, non ce li aspettavamo così».
La seconda partita, contro la malcapitata Polonia, fu la reazione rabbiosa dell’animale ferito: 4-0. L’atto secondo della debacle aveva il volto del santone Guus Hiddink e quello di un anonimo terzino destro sudcoreano di nome Song Chong-gug, che si prese la gloria di cancellare letteralmente dal campo il 7 lusitano, che provò a sfidarlo in uno-contro-uno per 12 volte, e per 12 volte perse il duello.
I portoghesi persero la testa e rimasero prima in dieci – rosso diretto a Joao Pinto per un’entrata criminale con il piede a martello – e poi in nove, per l’espulsione di Beto per somma di ammonizione. Il giustiziere, manco a dirlo, fu la futura conoscenza del calcio inglese Park Ji Sung, che abbatté la sua scure sul collo dei lusitani con un gol di pregevole fattura: sombrero con il destro e tiro a incrociare di sinistro sul palo più vicino.
Lo Special One

La debacle orientale non arrestò tuttavia il progresso del calcio portoghese, destinato a crescere ancora di più con l’arrivo di una figura, formatasi a luci spente nelle nebbie degli anni Novanta e destinata a brillare come non mai nel corso del nuovo millennio: José Mourinho, da Setubal.
Il futuro Special One centrò come tutti sanno una storica doppietta Coppa UEFA-Champions League nelle stagioni 2002-03 e 2003-04, lanciando nell’etere giocatori che segneranno il calcio europeo ai massimi livelli e il fedelissimo Ricardo Carvalho è uno di questi: difensore centrale, agile ed elegante nei tackle, quasi un Nesta portoghese, senso della posizione e tempismo perfetto, fedelissimo di Mou a tal punto da seguirlo nelle avventure al Chelsea e al Real Madrid. Le prestazioni del 2004 lo mettono in lizza per il Pallone d’Oro, nonché lo premiano come difensore dell’anno.
All’ombra di Carvalho, non va dimenticato il terzino destro Paulo Ferreira, compagno al Porto, al Chelsea e ovviamente in nazionale, in grado di affermarsi come uno dei migliori interpreti in quel ruolo nel primo decennio degli anni Duemila, mentre a fianco di Costinha si affermò il talento superiore di Anderson Luis de Souza, meglio conosciuto come Deco: uomo-chiave del Porto e mezzala di fantasia della nazionale brasiliana, vivrà l’apice della carriera in maglia blaugrana, diventando nuovamente Campione d’Europa e mettendo in ombra addirittura un certo Xavi.
In Italia abbiamo visto la sua versione appannata, ma anche Maniche, centrocampista di sostanza con un eccellente tiro dalla distanza, fu altrettanto decisivo nel Porto e nei tornei con la nazionale: il suo momento più celebre fu senza dubbio il gol all’Olanda negli ottavi di finale di Germania 2006, che consentì ai suoi di passare il turno ed approdare alla delicata sfida con l’Inghilterra, decisa ai rigori da Cristiano Ronaldo.
Euro 2004 e Mondiale 2006: la gloria è… solo sfiorata

Gli Europei 2004 e i Mondiali 2006, che videro pure piazzamenti importanti da parte della nazionale lusitana che arrivò in finale nel primo caso e si arrese solo in semifinale nel secondo, furono una porta, un “passaggio liminale” tra la O Geração de ouro – impregnata di saudade e di malinconia – cominciata negli anni Novanta e la nuova era targata Cristiano Ronaldo, destinato a duellare con un certo Lionel Messi per contendersi lo scettro di migliore giocatore del nuovo millennio.
Il futuro 7 madridista si mise in luce con sprazzi di grande calcio già in queste occasioni – la rete in semifinale contro l’Olanda, il già citato rigore contro l’Inghilterra due anni dopo, per dirne due – ma la stella principale è stata ancora il capitano Luis Figo, trascinatore a suon di assist e prestazioni in entrambi i tornei.
Abbiamo aperto il pezzo con il concetto di saudade, ossia la malinconia e il rimpianto per qualcosa che si è perso o forse addirittura non si è mai avuto. Se devo scegliere due momenti calcistici del Portogallo 2004-2006 che incarnano pienamente questa espressione, la mia risposta cade inevitabilmente su due episodi, in cui il protagonista è, manco a dirlo, il pallone d’oro del 2000.
Il primo riguarda la finale casalinga contro la Grecia, dal sapore amarissimo: come noto, Charisteas con un colpo di testa fu il boia che costò ai padroni di casa il titolo. Nell’assalto all’arma bianca nel finale di partita, alla ricerca del pareggio della speranza, Figo ricevette palla al limite dell’area, chiuso dai difensori greci. Il gioco di gambe, quasi da funambolo, che il suo genio gli dettò lo portò a ritagliarsi un piccolo spazio per concludere, ma il suo diagonale mancino passò a pochi centimetri dal palo e sfilò sul fondo, mozzando il respiro a tutti i tifosi greci.
Il secondo episodio è analogo: nella semifinale contro la Francia, Cristiano Ronaldo su calcio di punizione dalla distanza tirò un missile che Barthez smanacciò in maniera goffa, la palla arrivò a Figo che di testa dal limite dell’area piccola, ostacolato da un compagno, mise alto di poco. Sarebbe stato il gol del pareggio.
Cosa sarebbe successo, se almeno uno di questi due palloni fosse entrato, lo sa solo il destino. Forse sarebbe arrivata una coppa, forse non sarebbe successo nulla, ma tra il rimpianto e la malinconia calava il sipario sulla Geração de ouro.