Diciamo tutti la verità, uno dei motivi – forse addirittura il principale – per cui adoriamo la Coppa América e le vetrine che il calcio sudamericano offre è la possibilità di scovare talenti esotici, sconosciuti alla maggior parte del pubblico europeo, che sogna la possibilità di portarli nel Vecchio Mondo, dove – non senza una punta di snobismo – si dà per certo che si giochi “il calcio che conta”, affermazione che, per quanto tranciante sia, non mi sento di smentire: competitività, organizzazione, completezza, copertura mediatica e, non ultime, le disponibilità finanziarie rendono il calcio europeo la stella polare del calcio mondiale.
Arrivo al dunque. Se avete costantemente seguito negli anni le edizioni della Coppa America, non può esservi sfuggito il nome di Jorge Valdivia, diez della nazionale cilena vincitrice dell’edizione del 2015 contro l’Argentina, trionfo bissato l’anno successivo contro il medesimo avversario, in una fantastico biennio che ha mandato in paradiso il Cile e all’inferno la Seleccion.
Valdivia, dicevo: quel trequartista che galleggiava tra le linee e dettava i tempi di gioco, costruiva l’azione come un vero e proprio architetto del rettangolo di gioco e irrideva gli avversari a suon di tocchi beffardi – il suo tunnel a Fucile nei quarti contro l’Uruguay fece il giro dei social a tema “pallonaro” – è stata forse la gemma più bella di quell’annata, che gli ha conferito quel fascino e quella magia che allo stesso modo ci pervade quando pensiamo al giocatore tutto genio e sregolatezza tipicamente sudamericano.
Mettiamo subito le cose in chiaro: la caratura di Jorge Valdivia non può essere quella di un fuoriclasse. Troppe pause, troppe flessioni di rendimento, quando non veri e propri buchi, hanno scandito le fasi della sua carriera. Persino nella storia continentale del calcio sudamericano per club a parer mio occupa posizioni ben lontane dai vertici: non ha quell’aurea mistica che ha legato Juan Roman Riquelme al Boca Juniors, con cui ha scalato il continente e poi il mondo; non ha quella dominanza tecnica che ha portato Carlos Vanderrama ad essere premiato individualmente per due volte come miglior calciatore sudamericano; senza scomodare le divinità Neymar e Zico e quello che hanno rappresentato rispettivamente per Santos e Flamengo, affermerei senza troppi dubbi che la sua caratura è lontana anche da quella di Robinho – piccolo “malandro” che da noi passa per incompiuto ma che in Sudamerica ha vissuto anni di successi da protagonista e da vero e proprio crack.
Il suo nome è principalmente legato al Colo-Colo, in un campionato non certo di prima fascia, e al Palmeiras, dove è stato tanto amato da essere poi anche mal sopportato, come in quelle storie d’amore dal retrogusto agrodolce. Il resto è quasi dimenticabile: un’esperienza da fantasma a Madrid alla corte del Rayo Vallecano e un’altra molto fugace in Svizzera, al Servette (che nel 2005 andò in bancarotta e retrocesse, costringendo il nostro a tornare in patria). Errori di gioventù, si dirà. E come chiamiamo, invece, le esperienze in quel calcio senza colore nella terra degli Emirati Arabi Uniti (Al-Ain prima, a 26 anni e Al-Wahda poi, a 32)? E il malinconico crepuscolo alternato tra diverse mete del Messico e il suo nido del Colo-Colo, fino al ritiro ufficiale di luglio 2022?
Un carattere difficile – per usare un eufemismo – gli ha procurato non pochi guai. Amante del vino e dei piaceri della carne, non si è mai distinto per dedizione professionale. Diversi sono stati gli scandali che hanno segnato la sua carriera: il Puertordazo nel 2007 in piena Coppa América – Valdivia e compagni festeggiarono il passaggio del turno ai quarti devastando l’hotel in cui la squadra era in ritiro, lanciando prosciutti e marmellata, venendo anche accusati di molestie sessuali. Tre giorni dopo il Cile venne asfaltato 1-6 dal Brasile e la compagnia si beccò 20 giornate di squalifica dalla Federazione, in seguito commutate in dieci – e il Bautizazo del 2011, dal copione simile: il diez cileno e altri compagni si presentarono all’allenamento in enorme ritardo e con i postumi da sbronza, dovuta a (diciamo così) qualche brindisi di troppo per festeggiare il battesimo della figlia Augustina. Altre dieci giornate di stop.
Già alle prime partite da professionista, nel Colo-Colo, venne squalificato per sedici partite, a causa di un episodio di aggressione nei confronti di un arbitro. Quando giocava, però, regalava magie: dribbling irriverenti, assist al bacio, precisione millimetrica nei lanci, come un prestigiatore, anzi un mago: O Mago.
Dopo il prestito all’Universidad de Concepciòn e le fallimentari esperienze europee summenzionate, Valdivia iniziò a mettersi veramente in mostra nei campi del Sudamerica, con la maglia dei Cicaque: nel 2005-2006 vinse il campionato cileno, Apertura e Clausura, attirando su di sé gli sguardi dei migliori club argentini e brasiliani, a causa del suo contributo decisivo alla causa. Segnava, ma soprattutto faceva segnare, con uno stile di gioco ed una qualità che – su ben altri livelli – sembrava appartenere a Manuel Rui Costa: geniale e allo stesso tempo pulito, privo dei barocchismi circensi brasiliani. Ogni finta, ogni atto era funzionale al raggiungimento dello scopo, ossia mandare il compagno in porta.
Nella stagione successiva arrivò la grande chiamata dal Palmeiras, e con il club albiverde fu subito amore. Il suo cartellino costò otto milioni di real – circa tre milioni e mezzo di dollari – e divenne presto una stella, anzi “La stella”. Come disse Pelè in un’intervista di giugno 2008: «È il giocatore più forte che abbiamo nella nostra nazione, è la stella del campionato brasiliano
Nella stagione successiva arrivò la grande chiamata dal Palmeiras, e con il club albiverde fu subito amore. Il suo cartellino costò otto milioni di real – circa tre milioni e mezzo di dollari – e divenne presto una stella, anzi “La stella”. Come disse Pelé in un’intervista di giugno 2008: «È il giocatore più forte che abbiamo nella nostra nazione, è la stella del campionato brasiliano». Tre anni dopo, mentre il fantasista cileno era nell’esilio dorato arabo, O Rei aggiunse altre parole di stima: «Lo vorrei assolutamente nel mio Santos. Se fossi il presidente, lo comprerei». Immaginatevi solo che intesa avrebbe avuto con Neymar…
Con Tite ebbe un rendimento molto elevato, con prestazioni di livello – spicca un 3-1 al Botafogo all’esordio – e anche diverse assenze dovute ad infortuni, ma fu con l’arrivo dell’allenatore Caio Junior alla Palestra Italia che O Mago si consacrò come uno dei migliori giocatori in circolazione in Brasile: maglia numero 10 sulle spalle, Valdivia venne riconosciuto come uno dei migliori calciatori del continente americano, figurando nella Equipo Ideal de America del quotidiano uruguaiano El Paìs. Carlos Valderrama, in estasi forse per un senso di auto-proiezione che lo portava a rivedere se stesso nelle movenze di quel fantasioso cileno, lo definì esagerando «uno dei migliori cinque giocatori del mondo». Al successo individuale si accompagnò il successo di squadra, con la vittoria del campionato paulista da parte del Palmeiras.
Le sue scorribande notturne erano note e la sua tendenza all’infortunio, dovuta anche ad uno stile di vita poco consono al calcio professionistico, era sopportata dalla tifoseria, almeno per il momento. Poco importa che sia pazzo, dicevano i tifosi, l’importante è che mostri i suoi sprazzi di follia con la palla tra i piedi. La stagione seguente vide un brusco calo di rendimento, dovuto ad una sfilza di infortuni muscolari. Si fece largo tra i tifosi il soprannome di chinelinho – letteralmente ciabatta infradito – termine usato con un retrogusto beffardo ai limiti del disprezzo per bollare quei giocatori fisicamente inaffidabili che saltano più partite di quante ne giocano e che per questo sono assenti nei momenti caldi. A fine stagione arrivò bruscamente lo strappo. Dalla terra dei sogni – in quel Sudamerica del sogno e del folclore selvaggio dei racconti di Borges – Valdivia passò al calcio senza sale e senza storia delle dune del deserto.
“…come tutte le più belle cose, vivesti un solo giorno, come le rose…”.
Fabrizio De Andrè, “La canzone di Marinella”
Valdivia tornò al club albiverde nel 2010, ma l’amore travolgente dei primi anni stava lentamente trasformandosi in una storia travagliata, tra pochi alti – la Copa do Brasil 2012, vinta con i suoi gol agli ottavi, in semifinale e in finale, quest’ultima condita con l’immancabile espulsione – e diversi bassi, tra le mancate convocazioni per i soliti fastidi muscolari, i problemi disciplinari dentro e fuori dal campo (Valdivia fu anche protagonista di un breve rapimento, fortunatamente risoltosi subito nel migliore dei modi) e le polemiche. Ci fu anche la retrocessione del Palmeiras a causa di guai finanziari, con il paradosso di giocare contemporaneamente la Serie B e la Coppa Libertadores (il Palmeiras venne eliminato agli ottavi per mano del Tigre), guadagnata grazie al trionfo in Copa do Brasil dell’anno precedente.
Persino la tifoseria era ormai spaccata: c’era ancora chi lo amava a prescindere, non per le magie che faceva, ma ormai per quelle che si sperava che facesse; c’era anche la fronda dei contestatori, che gli rimproverava le reiterate assenze e la sua totale indisciplina, oltre ad un approccio approssimativo in diverse partite. Dopo un’altra annata dai colori bui, in cui gli spettri della retrocessione sul campo tormentavano le notti albiverdi, Valdivia lasciò per la seconda volta il Palmeiras, dopo una sudatissima salvezza, nel 2014. Cominciò un lungo peregrinare tra Emirati Arabi, Messico e ben due ritorni al Colo-Colo, prima di appendere le scarpette al chiodo e cominciare una carriera presso le emittenti televisive messicane.
Oltre al Valdivia dal retrogusto agrodolce della sua stralunata carriera nei club, c’è stata anche una sua versione dalle tinte rosse che ha creato nell’immaginario collettivo degli spettatori europei l’idea del mito. Molteplici sono state le occasioni, con la maglia della nazionale cilena, in cui il prestigiatore ha estratto il coniglio dal cilindro, diventando un nome di culto per i calciofili.
Prima di ripercorrere i suoi tornei con la Roja è importante sottolineare un aspetto: la generazione dei giocatori del Cile che ha giocato insieme a Valdivia era costituita in buona parte da giocatori solidi che hanno avuto successo nelle grandi squadre in Europa: dal centrocampista Arturo Vidal che ha fatto le fortune del Bayer Leverkusen, della Juventus e del Bayern Monaco in primis al folletto Alexis Sanchez che si è fatto una nomea tra Udinese, Barcellona e Arsenal, senza dimenticare Mati Fernandez, Gary Medel e Mauricio Isla, tra gli altri. I ct cileni hanno saputo esaltare al massimo le qualità di Valdivia, affidandogli le chiavi del gioco. Il suo estro era la scintilla per innescare i tagli in profondità, gli affondi, gli inserimenti e le corse dei compagni, che a loro volta proteggevano e nascondevano i limiti di Jorge, uno tra tutti la poca continuità atletica (sono diverse le partite in cui gioca solo un tempo o poco più).
La Coppa América 2007 è stato sicuramente il torneo meno brillante: giocò solo tre partite, di cui due contro il Brasile con due sconfitte nette: 3-0 la prima e 1-6 la seconda, a seguito dello scandalo di Puerto Ordaz di cui ho scritto poc’anzi. L’unico successo fu la vittoria per 3-2 contro l’Ecuador al debutto: prestazione ordinaria, in cui i risolutori furono altri.
Il momento-chiave, che preparò le condizioni per mettere Jorge Valdivia al centro del gioco del Cile, ci fu durante le qualificazioni per il Mondiale 2010, in una gara in trasferta contro la Colombia. Dopo essere andato in svantaggio, El Loco Bielsa decise di fare un azzardo, con una sostituzione che rispecchiava perfettamente il suo soprannome: fuori Mati Fernandez, dentro Valdivia, che diventava il nuovo faro del 3-3-1-3. Era solo la prima mezzora di gioco, ma la mossa si rivelò decisiva: una pennellata sulla testa di Waldo Ponce per l’1-1; un passaggio d’esterno delizioso, di una bellezza quasi stordente, che portò all’assist per il 2-1 di Humberto Suazo; un piattone destro vincente; un altro assist, delizioso tra le linee, che mise Orellana a tu per tu con Ospina per il quarto gol. La partita finì 4-2 ed il Cile staccò il pass per i mondiali in Sudafrica, dove fu sorteggiato nel gruppo della Spagna campione d’Europa in carica, la Svizzera e l’Honduras.
Fu senza dubbio contro quest’ultima la miglior partita del Mago, premiata dai giornali il giorno dopo con una sfilza di voti oscillanti tra il 7 e il 7,5 (finì 1-0 per la Roja, risultato stretto per l’enorme mole di occasioni non concretizzate), anche se la giocata più bella del suo mondiale fu il geniale invito in profondità al compagno Paredes sul filo del fuorigioco che ha crossato per il vantaggio firmato dalla capocciata di Mark Gonzalez, nella seconda partita del girone , contro gli elvetici, in cui partì dalla panchina. Contro la Spagna che parlava il linguaggio del tiki-taka e del fraseggio tecnico per mezzo dei piedi di Xavi e Iniesta, giocò senza sfigurare – anzi, fece un paio di verticalizzazioni di classe pura – la prima metà della gara, mentre nella partita decisiva contro il Brasile agli ottavi entrò solamente ad inizio secondo tempo, sul 2-0 per i verdeoro, senza incidere.
L’anno seguente fu la volta della Copa América in terra d’Argentina, che come sappiamo vide il trionfo dell’Uruguay, che venne sorteggiato in un girone con Messico, Perù e Cile. La prima partita del Mago fu proprio quella contro i futuri campioni (saltò interamente la prima contro i messicani), dove subentrò dalla panchina a mezzora dal termine e cambiò l’inerzia della gara, portando in campo il fosforo necessario alla Roja per trovare verticalità e profondità: cambi di gioco, dribbling, falli preziosi conquistati ed una geniale intuizione in profondità – una iniestata ante litteram, per dire – che portò al pareggio del Nino Maravilla Alexis Sanchez, dopo il vantaggio della Celeste firmato da Pereira, futura conoscenza a tinte nerazzurre del nostro campionato.
Subentrò a gara incontro anche nella sfida con il Perù, sbloccata solamente nei minuti finali dopo un assedio tutto di marca cilena, mentre nei quarti di finale contro il Venezuela si accomodò inizialmente in panchina, per poi schierato da Bielsa a inizio secondo tempo. Il suo senso dei tempi di gioco e della capacità di trovare i compagni tra le linee lo videro grande protagonista dell’immensa mole di gioco prodotto dalla Roja, che riuscì a concretizzare solo una volta con Humberto Suazo, mentre la Vinotinto con un cinismo invidiabile riuscì a colpire due volte nei rari momenti in cui riuscì ad affondare. Ancora oggi la tifoseria cilena considera questo torneo come uno dei più brucianti e ingiusti, per come è maturata l’eliminazione ma soprattutto per la qualità di gioco espressa.
Se durante i Mondiali brasiliani del 2014 ebbe poche occasioni per brillare – siglò un grande gol nella prima partita contro l’Australia vinta per 3-1 con un gran destro sotto l’incrocio su invito di Sanchez, ma contro Olanda e Spagna giocò pochissimi scampoli di partita e negli ottavi contro il Brasile non giocò affatto – fu la Copa América 2015, disputata in casa, l’apice massimo della sua carriera, il torneo in cui fece brillare gli occhi all’intero mondo “calciofilo” e che contribuì alla nascita del “mito del Sudamerica” in un pubblico che generalmente conosceva poco di quello che accadeva laggiù: tre assist vincenti e una serie di prestazioni deluxe, una dopo l’altra – sublimi quelle contro Uruguay e Perù tra quarti e semifinale – premiate con voti alti e giudizi lusinghieri dai quotidiani sportivi sudamericani ed europei.
L’onda lunga delle giocate di Valdivia, veicolate da un fiume di clip e di video che presto invasero i profili social di tutto il mondo, ed il trionfo storico del Cile (bissato l’anno seguente) crearono il mito del diez genio e sregolatezza, a cui tutto si poteva perdonare, perché in grado di regalare magie e di scomodare paragoni pesanti, con geni ben più affermati: da Riquelme a Pirlo, da Rui Costa a Modric.
In sintesi: cos’è stato Il Mago Valdivia, che ancora oggi divide in Sudamerica, ma anche qui da noi? La sua poca dedizione alla vita professionistica, con tutto quel che ne consegue, e gli evidenti limiti di tenuta atletica non possono essere ignorati – se si osserva con attenzione, si evince che sono state davvero poche le partite disputate per novanta minuti, anche in nazionale. Sarebbe potuto essere diverso con un’altra testa ed un’altra attitudine? – ed allo stesso tempo non si possono ignorare le schiere adoranti di seguaci, non pochi, che con quel velo di saudade tutta sudamericana lo ricordano come un giocatore bellissimo da vedere nei “momenti sì” e di entusiasmare la platea.
Possiamo concludere, non senza un pizzico di amarezza, che Jorge Valdivia ha avuto una carriera da giocatore quasi normale, come ce ne sono stati tanti in Sudamerica senza la possibilità di esibirsi nelle vetrine delle competizioni internazionali con la maglia del proprio Paese, pur avendo qualità non comuni che avrebbero meritato di essere sfruttate in ben altro modo.