Totò Schillaci ha vissuto da intruso in un mondo di stelle osannate e lo ha fatto, fin che gli è riuscito, senza modificare la sua indole e il suo comportamento, schietto e ruvido. Figlio del Sud più a Sud che si possa immaginare, quello dei borghi di periferia di una Palermo che, nel 1964 in cui nacque, doveva fare i conti con l’acqua corrente che nella case arrivava due ore al dì a giorni alterni e in cui al centro delle vie strette tra case vocianti e panni stesi, invece che la linea di mezzeria, scorreva il rigagnolo della fogna a cielo aperto, Schillaci con tutta probabilità aveva imparato a tirar di pallone su quei terreni poco asciutti e poco sani.
Lui ebbe la fortuna di imparare alla svelta e di aver quel talento che lo sottrasse, almeno in parte, ad altri destini cui i suoi coetanei, figli come lui del poco e del niente, ad altre carriere molto meno nobili e lusinghiere. Erano gli anni in cui Palermo, evidente ganglio di interessi di malaffare e coacervo di scontri tra famiglie di potenza occulta ma totalizzante, scoppiavano automobili, perlopiù Giuliette Alfa Romeo, come mortaretti. Ad avvisare, a rimarcare, a zittire. E i quartieri come quello in cui venne al mondo Schillaci Salvatore erano terreni di reclutamento per i futuri picciotti, quelli che avrebbero dovuto far cambiare pelle all’organizzazione trasformando la vecchia e desueta richiesta del ‘pizzo’ nel ben più remunerativo commercio di sostanze stupefacenti.
Il tutto finalizzato non solo e non tanto ad arricchirsi, quanto a reperire fondi per avviare attività pulite, belle e inappuntabili in tutta Italia, imprese anche molto importanti e ligie al centesimo e alla virgola verso le leggi fiscali. Totò ai primi anni settanta era già un mago del pallone, faceva serpentine intorno ai rigagnoli, sempre quelli, e nessuno sapeva fermarlo. Quando il suo destino lo mise in un campo vero, anche se spelacchiato e perlopiù quasi sabbioso, il suo talento non passò inosservato.
Fu ingaggiato con fratello e cugino da una piccola squadra locale, la Amat Palermo, diversi operatori parlavano in città di lui come futura stella rosanero del Palermo vero. Invece, la sua storia operaia lo portò in C2 al Messina dove, riuscendo ad apprendere e ad affinare carattere tecnica non accontentandosi quindi del solo talento, è riuscito a rendere ancora più luminosa la sua luce e ad attirare l’attenzione del Calcio che conta. Il quale Calcio da un lato gli ha aperto le porte più prestigiose, come Juve, Nazionale ai Mondiali e Inter, mentre dall’altro non gli ha mai risparmiato diffidenza e perfino un certo distacco, ponendo più l’attenzione sui certi suoi atteggiamenti naif e considerati fuori luogo che sulla bontà del suo gioco e sull’incredibile efficacia sotto rete.
Schillaci in maglia Juventus e in maglia Inter
Senza volere approfondire troppo, si può tranquillamente sostenere che ciò che per altri giocatori ha costituito quasi un elemento di distinzione o, comunque, un lato importante e caratterizzante il proprio personaggio e il proprio cliché, a Totò non è stato perdonato. E quando i casi nella vita l’hanno portato a confrontarsi con colleghi altrettanto famosi, capitavano sempre due cose anomale nel Calcio dell’epoca, e anche in quello attuale: l’episodio, anche privato, da spogliatoio, veniva sempre alla luce e Schillaci immancabilmente soccombeva.
Eppure, era stato l’eroe popolarissimo dell’Italia dei Mondiali del ’90, il picciotto dagli occhi spiritati che sembra giocare a pallone in dialetto siculo, me che segna sempre, che segna un gol a partita e ci porta quasi in finale. Capocannoniere, eletto miglio giocatore del torneo e, fine anno, vice Pallone d’Oro dietro Matthaus. ‘Miii e cu è ‘sto ccà? Nu picciuotto di nosti?’ (Ehi, ma chi è questo? Uno di noi?). Sì, anche con tanti allori, Totò era rimasto uno legato a se stesso e questo, forse a ragione forse a torto, ha finito per scavargli un vuoto intorno, almeno qui in Italia.
Allontanato dall’Inter prima della fine del secondo campionato in nerazzurro per ragioni rimaste oscure, Schillaci è emigrato in un Giappone ancora molto acerbo, ma molto affamato, di Football. È il 1994 quando Salvatore Schillaci, detto Totò, lascia l’Italia, solo quattro anni dopo aver sfiorato la gloria senza confini ed è lì, a nostro avviso, sulla scaletta dell’aereo per Tokio, trent’anni fa, che Totò ha avuto la certezza della fine e che il fato ha cominciato a rosicchiargli gli organi. Quelli di un umile ragazzo di borgo palermitano, compagno di giochi e di rischi di chi, come lui, va in Paradiso, ma ci rimane un giorno solo.
Oggi Totò ha terminato quel viaggio e magari, negli ultimi bagliori della sua memoria, si è rivisto picciriddu in canottiera e mutande, a piedi scalzi nel vicolo con il rigagnolo in mezzo, a scartare tutti e a battere i tedeschi in finale.