A cavallo tra fine anni ’60 e inizio anni ’70, in Germania sbocciano numerosi movimenti artistici che strizzano l’occhio all’avanguardia, e lo fanno in maniera peculiare. Non è questa naturalmente la sede per un’analisi approfondita, ma il cosiddetto kraut-rock (Faust, Neu!, Can, Ash Ra Tempel etc..) è una derivazione spuria della musica psichedelica, di cui radicalizza il linguaggio e la sintassi, portandole alle conseguenze più estreme sul piano concettuale, e abbandonando deliberatamente l’aria più disinvolta e molto californiana delle sue origini.
Chi ha studiato la storia del jazz europeo sa che i musicisti tedeschi portano a compimento un percorso simile in tema jazz: le innovazioni formali che arrivano dal Nuovo Mondo vengono asciugate, private della loro consistenza tattile ed espressiva afroamericana e della loro estrema libertà strutturale, per approdare a esiti più radicali. Chiunque si sia cimentato con i lavori di Conrad Bauer, Albert Mangelsdorff, Peter Brötzmann, si trova al cospetto di complesse strutture foniche che sbriciolano i fragili confini tra musica e rumore e che però vanno oltre il “caos organizzato” degli americani, per approdare a esiti più rigorosi, in cui anche l’improvvisazione deve rispondere a regole puntuali e in cui il livello di astrazione cresce in maniera esponenziale.
Chiudo la breve premessa da musicofilo e passo allo sport per evidenziare che i risultati di rock più evoluto e jazz tedeschi (ho trascurato peraltro tutto ciò che è avvenuto a Darmstadt, la patria dell’avanguardia post-weberniana) non sono casuali, ma sono a mio parere l’esito più naturale del confronto tra la cultura tedesca e le novità che la stessa importa e assimila, e che questo è accaduto e sta avvenendo oggi sotto i nostri occhi anche quando si parla di football.
La Germania è la patria dell’idealismo e di gran parte delle dottrine sociali e filosofiche più radicali degli ultimi secoli, l’ombra di Hegel si staglia tuttora sul pensiero tedesco e ha contribuito a forgiare figli e figliocci vari (a partire dal marxismo). La Germania ha portato colonialismo e fascismo ai loro esiti più parossistici (il nazismo) in preda a una sorta di fanatismo che sembra tassello essenziale del suo modo di concepire il mondo.
Nel calcio, questa tendenza si è manifestata e si manifesta oggi in un fenomeno che vorrei chiamare eretismo idealista, in omaggio a Gianni Brera (che parlò di eretismo podistico, dopo aver visto all’opera gli olandesi degli anni ’70). Il lungo percorso di rinnovamento del calcio tedesco avviato con il nuovo millennio e giunto a piena maturazione quando Guardiola, il profeta del “nuovo calcio”, ha traslocato a Monaco, sta regalando oggi i suoi esiti più radicali, in una sorta di delirio idealista che sarebbe impensabile nel calcio italiano e che invece è l’arché del pensiero tedesco – un idealismo che si è inserito con disinvoltura in quello già in voga, la lunga tradizione renana culminata in Klopp.
Proprio l’assimilazione del guardiolismo, e uso un brutto neologismo per alludere al calcio che ha dominato il mondo a cavallo tra anni zero a anni dieci, un calcio che ha rimesso la tecnica di squadra al primo posto, e che ha alzato notevolmente il baricentro delle squadre rispetto a quanto visto nell’epoca delle tonnare, testimonia quanto sia profondo il solco che separa il nostro modo di rapportarci con le novità da quello dei tedeschi (mi perdonerete qualche generalizzazione di troppo).
Il guardiolismo, in Italia, si è innestato in un contesto radicalmente trasformato da Sacchi e dal suo Milan, ovvero in un contesto dominato dai gregari di lusso, il fiore all’occhiello di quella concezione del calcio. La nuova ossessione per il fraseggio di prima è andata quindi a inserirsi in un ambiente che da tempo aveva bandito la pura tecnica come vezzo e che esaltava invece la straordinaria funzionalità dei gregari di lusso, basti pensare alla lunga epopea della Juventus di Lippi, la squadra di gregari più grande di ogni epoca. Le novità più radicali che arrivano dal resto del mondo, d’altra parte, in qualche modo si annacquano e soccombono sempre rispetto all’esigenza primaria del calcio italiano, ovvero al suo estremo rigore tattico e alla sua necessità di massimizzare i risultati: la parola d’ordine è pragmatismo, o meglio pragmatismo all’italiana.
Siamo quindi agli antipodi dell’idealismo, ciò che invece caratterizza da sempre i tedeschi, o almeno una parte importante della cultura tedesca, tanto da produrre conseguenze molto più ampie di quelle viste in Spagna: il calcio di Guardiola, che è una riproposizione aggiornata di quello di Cruijff, non trasforma infatti le idee di base del calcio spagnolo. In Spagna esisteva da decenni una fronda cruijffista che è sopravvissuta a Guardiola, ma che non è mai diventata egemone né maggioritaria, e che anche in nazionale ha introdotto vari correttivi e aggiustamenti per aggiornarsi.
In Germania, invece, l’impatto di Guardiola è stato più imponente e ad ampio raggio, contro quelli che potevano essere i pronostici della vigilia, pronostici che però sottovalutavano terribilmente l’idealismo dei tedeschi: ciò che per Cruijff e Guardiola rappresenta il modo migliore per gestire il campo e sfruttare le qualità tecniche dei propri giocatori, in Germania diventa improvvisamente un ideale quasi religioso, un dogma che rasenta il fanatismo, come era accaduto anche negli anni ’70 quando il calcio renano ha assimilato quello olandese per proporne una versione ortodossa e più rigida.
Lo “scienziato pazzo” Julian Nagelsmann (che non a caso non perde occasioni per tessere le lodi di Guardiola, ma anche anche di Klopp) è l’esito più radicale della versione parossistica del guardiolismo in voga in Germania: il suo Bayern, in totale controtendenza rispetto alla propria tradizione prudente e orientata al puro risultato, nel corso dell’ultima stagione è sceso in campo con formazioni per cui in Italia invocherebbero la riapertura dei manicomi – penso alla follia, peraltro pagata a caro prezzo, di schierare sei attaccanti di fatto contro il Villareal.
Ma Nagelsmann è solo la punta dell’iceberg: la Bundesliga abbonda di formazioni che prevedono due trequartisti dietro due punte pure, con terzini di spinta, e partite folli come l’ultima tra Borussia Dortmund e Werder Brema sono solo uno dei tanti esempi di cosa può produrre il “nuovo calcio tedesco”, ovvero un calcio che ha trasformato il guardiolismo in una scienza (i tedeschi sono per natura meno inclini al vezzo, alla giocata “inutile”, al ghirigoro) e al tempo stesso in una forma di idealismo quasi hegeliana.
Proprio l’eretismo idealista evidenzia la persistente distanza dal calcio dei brasiliani, che schierano ancora oggi, nonostante tutto e tutti, anche quattro o cinque anarcoidi in campo in contemporanea, spesso senza una vera prima punta.
In Brasile, benché l’influenza europea pesi da molto tempo, ragionano ancora in termini di “schieriamo in campo tutti i talenti che possiamo schierare, senza preoccuparci troppo del resto“, e così vediamo un attacco in cui convivono Vinicius Jr., Neymar e Antony, supportati da Paquetà e a volte anche da Richarlison e/o dalla riserva Coutinho. In Germania non si arriva a risultati di questo tipo perché si devono far coesistere i talenti, ma si schierano tutti gli attaccanti perché questo impone il nuovo idealismo dominante, perché questo appare oggi l’approccio più redditizio e “giusto”.
L’Italia è lontanissima da entrambe le visioni, da noi Nagelsmann, per l’appunto, durerebbe due giorni, mentre l’eccessiva presenza di anarcoidi sarebbe bollata con un anacronismo inaccettabile e controproducente rispetto all’unico fine utile (il risultato).
Il radicalismo un po’ folle di kraut rockers e jazzisti tedeschi, in sintesi, si rispecchia oggi in una concezione altrettanto idealista e ai limiti del fanatismo del calcio ed è secondo me parte essenziale delle cultura tedesca.