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Samba do Brasil: i 10 brasiliani più forti dell’epoca televisiva

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Alziamo subito le mani: selezionare i dieci migliori giocatori della storia di un paese che ha sfornato un centinaio buono di fuoriclasse capaci di lasciare un solco profondo nella propria era (e probabilmente ci stiamo tenendo bassi) è un’impresa improba, un giochino le cui controindicazioni surclassano i vantaggi (già sentiamo soffiare nelle trombe il vento delle polemiche).

Poco male: trattandosi di giocare con l’eccellenza dentro l’eccellenza, diventa quasi tutto opinabile. Giusto per scremare un po’ la rosa dei candidati, abbiamo escluso i giocatori degli anni ’30, ’40 e dei primi anni ’50, che non si possono vedere se non in qualche sparuto fotogramma; abbiamo inoltre optato per escludere anche i giocatori ancora in attività, che possono scalare e/o perdere posizioni, nominandoli al più tra i rincalzi di lusso.

1) Pelé

Edson Arantes do Nascimento non ha bisogno di presentazioni. Reputato dai più il miglior calciatore di tutti i tempi, univa i piedi di velluto ad una prestanza fisica e atletica straripante, che lo rendeva un calciatore venuto dal futuro. Le giocate di Pelé diedero una dimensione di rilievo al Santos, fino a quel momento marginale nel campionato paulista nonché nel calcio brasiliano. Eppure è negli anni Sessanta che il Santos raggiunse prima la vetta più alta del Sudamerica (Coppa Libertadores 1962 e 1963) e poi del mondo (Coppa Intercontinentale 1962 e 1963). La prima firma in calce sotto questi trionfi è proprio quella di O Rei. Altrettanto epocale è stata l’avventura della Perla Nera con la maglia verdeoro della Seleçao, passata dall’essere una “cenerentola” che sul più bello si scioglie come neve al sole – il trauma del Maracanaço era ancora fresco – ad un Dream Team in grado di segnare la storia per vittorie e qualità di calcio: Pelé con il Brasile vinse tre mondiali (1958, 1962, 1970), di cui due da protagonista assoluto. Tarcisio Burgnich, che nella finale dell’Azteca venne sovrastato dal fenomeno brasiliano in occasione dell’ 1-0 disse: «Prima della partita, mi facevo forza per convincermi che Pelé fosse un essere umano in carne ed ossa come noi. Dopo la partita mi sono reso conto che mi sbagliavo».

Il debutto di Pelé e Garrincha in un Mondiale: Brasile-Unione Sovietica 2-0, Mondiale 1958

2) Garrincha

Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha, è uno dei pochissimi calciatori verdeoro che si possano nominare nella stessa frase con Sua Maestà Pelé. Se mai qualcuno ha canonizzato e portato alle conseguenze più estreme il concetto di malandro (per una disamina più approfondita, rimando al pezzo scritto lo scorso anno su Neymar), questi è l’ala destra più grande di ogni epoca, uno scherzo della natura che – per un po’ di tempo, prima del triste e prematuro epilogo a inizio anni ’80 – si fa beffe della natura stessa, sin dal celebre esordio al cospetto dell’Enciclopedia Nilton Santos. Un semianalfabeta malato di poliomielite che si scopre genio del dribbling e riscrive la storia, vincendo due mondiali da protagonista cardine, conquistando l’amore di Rio e dei tifosi del Botafogo, e l’ammirazione di tutto il Brasile, nonché di tutti coloro che, anche in Europa, hanno una concezione un po’ anarcoide e giocosa de calcio, una concezione affine a quel futebol moleque che nega la vocazione essenzialista predominante nel Vecchio Continente (si dice che Garrincha, in Europa, sia stato capito e amato fino in fondo solo dai francesi). Garrincha è un enigma incomprensibile e agli occhi degli europei vela un potente paradosso, perché pare letteralmente giocare per divertirsi, eppure è uno dei giocatori più decisivi mai apparsi sul pianeta. Concludo citando il grande scrittore brasiliano Ediberto Coutinho: «Il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno».

3) Zico

Soprannominato O Galinho per l’eleganza civettuola del suo gioco, Arthur Antunes Coimbra è tra i pochi giocatori che nel cuore dei tifosi verdeoro possono contendere il posto di Garrincha. Come Mané, anche Arturinho è figlio di un Sudamerica ancora funestato dalla piaga della malnutrizione, e sviluppa il fisico di un atleta solo grazie a dosi massicce di allenamenti e medicinali. Non sarà in ogni caso mai un colosso, e farà sempre leva sull’intelligenza e sul camoscio dei suoi piedi per sollevare il mondo, operazione che gli riuscirà divinamente soprattutto a cavallo tra anni ’70 e anni ’80. Superbo uomo gol, dotato della visione di gioco dei grandisismi, leggero eppure immarcabile, regalerà sprazzi di magia anche in nazionale, pur non vincendo nulla. Per chi scrive vederlo giocare è talmente bello che il suo gioco meritebbe di essere menzionato tra le cose per cui vale la pena vivere di cui parla Woody Allen in Manhattan, il gioco di Zico può accomodarsi tra le mele e le pere di Cézanne, Marlon Brando e L’educazione sentimentale di Flaubert.Prima del debutto nel campionato italiano, nel settembre del 1983, numerosi giornalisti storcono il naso e dubitano del suo impatto: è magrolino, è abituato alle temperature di Rio e all’amore incondizionato della tifoseria del Flamengo (il club cui ha dedicato quasi tutta la vita), ha sempre affrontato marcature allegre. Pronostico azzeccato: Zico debutta segnando due reti e facendo impazzire la retroguardia genoana. La sua stagione è poi una sorta di marcia trionfale, una serie di giocate e reti spettacolari appena velata da una saltuaria malinconia per la sua Rio. L’anno seguente i problemi fisici ne mineranno il rendimento, suggerendone il ritorno in patria, ma Zico continuerà a essere un giocatore valido fino al termine della carriera, quando (dopo un discreto mondiale in Messico) regalerà lampi di genio ai giapponesi. 

4) Romário 

Romário è l’anello di congiunzione tra Garrincha e Neymar e quanto a malandrite (mi si perdoni il neologismo) forse supera entrambi.Il centravanti brasiliano era un cobra, e forte di una fantasia brasiliana e di una superiore velocità d’esecuzione era capace di inventare soluzioni dal nulla. Spesso sonnecchiava per larghi tratti della partita e poi, seguendo l’ispirazione del momento, ne cambiava il volto, con un’irriverenza e una sfrontatezza che erano e restano merce rara nel calcio moderno.Bomber seriale sia in patria che in Olanda e durante la breve parentesi spagnola, Romario si consacra fenomeno soprattutto in maglia verdeoro, portando a casa da assoluto protagonista due Coppe America e un titolo mondiale,  all’esito di un torneo che lo vede esprimersi al meglio delle sue possibilità e dispensare invenzioni e giocate decisive in serie. Mi permetto di citare il noto e scomparso giornalista Franco Rossi, che celebrava il mondiale americano del Baixinho (così soprannominato per i soli 167 cm di altezza) come la rivincita di una persona nata e cresciuta dalla parte sbagliata della storia (esattamente come Garrincha): “Nato poverissimo nella favela Jacarezinho, la più miserabile di Rio, si ritrova, a ventotto anni, a essere l’idolo di centosessanta milioni di persone. Romario ha il sorriso triste, carico di disperata allegria, di chi è stato costretto, per sfuggire alla fame, il più implacabile dei nemici, a diventare adulto senza mai essere stato bambino”.Il crepuscolo dorato in Brasile gli consentirà di collezionare record e di vincere un pallone d”oro sudamericano, prima di dedicarsi alla politica.

5) Ronaldo

Luis Nazario da Lima è un’icona degli anni Novanta, come Michael Jordan per il basket e Bret “The Hitman” Hart per la WWE. Più di tutti ha segnato un’epoca nella quale ci si preparava – nel calcio come nella vita – a varcare le soglie del nuovo millennio, in una sorta di futurismo post litteram. Ronaldo era proprio questo: un giocatore bionico venuto dal futuro, che abbinava eccelsa tecnica ad una progressione fisica incontenibile e difficilmente arginabile. Il periodo che va dal suo sbarco in Europa del 1994 fino alla vigilia della finale di Francia ’98 lo vide protagonista di una crescita esponenziale che per qualità e decisività l’aveva reso il miglior giocatore in circolazione, nonché uno dei pretendenti al trono di Pelé. I gravi infortuni di fine decennio l’hanno fortemente ridimensionato e da giocatore totale quale era si trasformò “solo” in un grande centravanti finalizzatore e si tolse comunque la soddisfazione di vincere un mondiale con 8 reti all’attivo.

6) Roberto Rivelino

Nato da una famiglia di origini molisane, in provincia di Isernia, e idolo di Diego Armando Maradona, abbinava l’agilità di un gatto alla potenza di un elefante. Mancino dalla qualità tecnica sopraffina, non aveva il dono della velocità in progressione, ma aveva rapidità nel dribbling: le sue finte disorientavano l’avversario come in un gioco di specchi – a lui si deve la paternità del celebre “elastico“, emulato da Ronaldo, Ronaldinho e Neymar. La precisione e la potenza del suo tiro di sinistro gli valsero il soprannome di “Patada atomica” da parte dei tifosi messicani, in occasione dei mondiali del 1970, dove è uno dei cinque fantasisti che condussero il Brasile al terzo titolo mondiale. A differenza di altri colleghi non ha una bacheca abbondante di trofei: il suo Corinthians stava vivendo stagioni cupe e non lottava quasi mai per vincere, venne ceduto alla Fluminense – con la Tricolor vinse due titoli statali – e andò a svernare in Arabia Saudita. Al calcio europeo preferì il mare e le spiagge brasiliane, perché il calcio era per lui in primis un divertimento popolare, come il Carnevale, la samba e la sangria.

Finale del Mondiale 1970, Rivelino si esibisce nel suo famoso dribbling Elastico (o flip flap)

7) Didi

Valdir Pereira si è guadagnato diversi soprannomi eloquenti, nel corso della carriera: Mr. Football e Il Principe Etiope sono forse i più noti e ne esprimono a chiare lettere l’eleganza, una vocazione estetica che si sposa con un’efficacia sublime. Didì non aveva bisogno di dannarsi l’anima per cambiare il volto delle partite: le sue capacità di controllo e di gestione degli spazi e dei tempi della gara, simile a quella di tale Xavi, abbinata a una visione periferica sublime e a doti da preveggente degne di tale Andrea Pirlo (cui lo avvicina anche la Folha Seca), lo rendevano il giocatore chiave per lo sviluppo della manovra. Perno razionale della manovra di quel Botafogo in cui Garrincha era libero di lanciarsi in assoli irrazionali, Didì è stato un gigante soprattutto in magli verdeoro. Titolare già in Coppa America nel 1953, Didì si guadagnerà l’ammirazione dei palati più fini già in Svizzera nel 1954 e disputerà poi un torneo sublime in Svezia, quando sarà per molti il giocatore chiave di una delle squadre più belle e incontenibili di ogni epoca. Quattro anni più tardi, causa mobilità ridotta, sarà meno brillante ma comunque positivo. Poco fortunata, anche a causa di alcune incomprensioni con Sua Maestà Di Stefano, la breve parentesi madrilena.

8) Roberto Carlos

Più che un terzino, Roberto Carlos era una vera e propria ala aggiunta, sulla fascia sinistra affondava con la palla al piede come un coltello rovente nel burro, con percussioni incessanti e continue: dotato di uno straordinario sinistro con il quale scoccava tiri atomici e sciorinava cross al bacio per le punte, il terzino brasiliano è stato uno dei giocatori più rappresentativi del Real Madrid per un decennio, dove ha contribuito da protagonista alla vittoria di quattro campionati e tre Champions League (1998, 2000, 2002). In nazionale vince due volte la Coppa America (1997 e 1999) e il mondiale nippocoreano da primo attore, e non sarebbe stato peregrino premiarlo a fine anno con il pallone d’oro, tenuto conto dei picchi di rendimento durante l’intero anno solare. Inspiegabilmente criticato da Roy Hodgson durante la sua breve avventura milanese «perché non sapeva fare la fase difensiva» (sic!), con gli anni migliorò tantissimo nelle letture difensive e nel senso tattico, tanto da fare dire a Fabio Capello in risposta all’allenatore inglese «bastava insegnargliela».

Il celebre calcio di punizione di Roberto Carlos contro la Francia nel 1997

9) Rivaldo

L’Extraterrestre Rivaldo non ha brillato per precocità né per longevità, racchiudendosi gli anni d’oro della sua carriera in un breve lustro che coincide con gli ultimi anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, ma durante quel quinquennio ha meritato il suo soprannome più celebre (appunto, l’Extraterrestre), volteggiando ad altezze proibitive per tutta la concorrenza e caricandosi sulle spalle un Barcellona in fase di transizione. Lungo, non molto veloce ma dotato della visione di gioco dei grandi numeri dieci e di una castagna da fermo con pochi (se non nessun) precedente, Rivaldo è stato per un paio di stagioni il giocatore più forte del pianeta, e pur non vincendo moltissimo con i club, si è ampiamente riscattato in maglia verdeoro.  Brillante, come secondo violino, già ai mondiali di Francia, l’anno successivo, reduce dalla miglior stagione della carriera, trascina il Brasile a un successo imperioso nel torneo del suo continente, esibendo doti da rifinitore puro abbinate al senso del gol dell’attaccante classico, del quale possedeva anche la mole e la forza fisica. Negli anni successivi, sempre sulle Ramblas, Rivaldo si conferma una stella planetaria e anche in Europa confeziona prestazioni da tramandare ai posteri, su tutte una tripletta che ammutolisce San Siro e una gara da leader e uomo chiave in occasione di una rimonta contro il Chelsea. Nel 2002, in Estremo Oriente, Rivaldo è (parole di Solari) il giocatore cruciale della manovra dei verdeoro, al cui successo contribuisce anche con cinque reti pesanti. Peccato che la Coppa del Mondo sia il suo canto del cigno: trasferitosi a Milano, sponda rossonera, dopo un paio di mesi discreti declina repentinamente, e di fatto non si riprende più, riciclandosi campione da calcio minore (il campionato greco).

10) Ronaldinho

Straordinario giocoliere dalle movenze circensi, sostenute da un fisico da corazziere, Ronaldinho ha rappresentato a pieno titolo il “futbol bailado” brasiliano, quello che univa il pallone alla samba: finte, doppi passi, dribbling ubriacanti, giocate estemporanee che sfuggono alla logica ed escono dallo spartito della partita, Dinho ha fatto innamorare tutto il mondo: dopo un periodo di apprendistato a Parigi, è a Barcellona che tocca il cielo e diventa un fenomeno, nel suo biennio 2004/06 è indiscutibilmente il miglior giocatore in circolazione. La sua genialità e capacità di improvvisazione, il suo istinto a fare cose impensabili con il pallone scomodano i paragoni con Maradona. Dopo il clamoroso flop del mondiale brasiliano scende dall’olimpo e torna tra gli umani, complice anche una vita non esattamente rigida in quanto a svaghi e divertimenti. In Italia lo abbiamo visto quando non era già più all’apice ma siamo rimasti ugualmente stupiti dalle sue giocate di classe infinita che partivano dal suo piede destro che trascinarono in campionato un Milan non irresistibile. Il suo canto del cigno nel 2013 lo vide trionfare in Brasile con l’Atletico Mineiro.

Come premesso in apertura, la selezione è stata ardua, ma non per questo abbiamo preteso di stabilire in maniera netta e categorica chi fosse meritevole o meno di stare in questa lista. Come per tutte le classifiche a tema calcistico, di oggettività ce n’è poca. Ci sono state esclusioni sanguinose di fuoriclasse che quando si parla di grandissimi brasiliani meriterebbero una menzione: da Paulo Roberto Falcão – straordinario regista completo e universale – al “Pelé bianco” Tostão, talento forse ancora più speciale e precocissimo, la cui carriera viene però bruscamente interrotta da noti problemi alla retina, provocandone il prematuro ritiro a soli ventisei anni, passando per la leggenda di San Paolo, Roma e Milan Cafu – che gioca tre finali mondiali di fila con la Selecao – e per l’eterno Dani Alves, vincente e decisivo ad ogni latitudine del globo. Nilton Santos, Djalma Santos, Carlos Alberto vanno assolutamente ricordati, così come Jairzinho e Gerson, poco celebrati in Europa ma che in Brasile nutrono di ben altra considerazione. Una citazione la meritano anche i contemporanei Thiago Silva, straordinario difensore centrale di classe ed efficacia, e Neymar, che si appresta a vivere quella che è molto probabilmente l’ultima fase della sua carriera ad alti livelli, alla ricerca della vittoria di un mondiale che comporterebbe la sua entrata di diritto in questa ristrettissima élite. I tifosi milanisti probabilmente avranno notato e storto il naso per l’assenza di Kaká, che consideriamo sicuramente un fuoriclasse travolgente nella sua versione migliore, ma con qualcosa di meno di altri se consideriamo i fattori di longevità, continuità e rendimento con la maglia della nazionale.

Con il contributo di FRANCESCO BUFFOLI

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