Quando un falso mito si radica nell’immaginario collettivo estirparlo diventa estremamente difficile. Capita anche nel calcio. Una delle critiche che vengono mosse più frequentemente per intaccare il mito di Pelé è quella che non abbia mai giocato in Europa, come se questo fosse un limite.
In realtà ai suoi tempi – e bene o male fino all’epoca moderna, fino all’introduzione della legge Bosman che nel 1995 ha stravolto completamente la geografia del calcio europeo – i campionati sudamericani non erano molto inferiori a quelli europei.
Anzi: ai tempi di Pelé erano forse persino superiori, come qualità individuali e proposta di gioco.
Ai tempi di Pelé i club europei potevano ingaggiare un numero limitato di calciatori stranieri (in Italia erano due, ma dopo la chiusura delle frontiere in seguito al flop del Mondiale inglese del 1966 divennero zero).
E spesso gli stranieri arrivavano da altri Paesi del Vecchio Continente. Questo significa che la stragrande maggioranza dei campioni sudamericani rimaneva a giocare nel proprio continente per tutta la carriera o quasi. I casi di Altafini o Sívori erano eccezioni, non la regola.
Se quelle norme fossero valide ancora oggi quasi tutti tra Agüero, Dybala, Neymar, Cavani, Suárez, Vidal, Lautaro Martinez, Di Maria e via discorrendo militerebbero in Sudamerica. E i rapporti di forza tra squadre europee e sudamericane cambierebbero notevolmente.
La dimostrazione è data dalle sfide dirette. Fino al 1995, fino alla famigerata legge Bosman, che tra le conseguenze ha avuto il fatto di trasformare i campionati del subcontinente in terra di conquista per le formazioni del Vecchio Continente, i club sudamericani vantavano 20 successi nella Coppa Intercontinentale contro i 14 delle europee. Dopo la “Bosman” l’Europa ha iniziato a dominare: al momento in cui scriviamo annovera 19 vittorie contro le misere 5 del Sudamerica.
Ma ai tempi di Pelé, appunto, il livello del calcio sudamericano era almeno pari a quello che si praticava nella vecchia Europa. Alcune partite di Coppa Libertadores – si veda ad esempio la finale del 1966 tra Peñarol e River Plate – erano uno spettacolo assoluto, con calciatori di livello clamoroso e giocate sensazionali, superiori a moltissimi match del periodo sul suolo europeo. La nostra visione eurocentrica del mondo ha finito con il condizionarci in modo pesante anche nel calcio. Così molti assi che all’epoca popolavano i campionati argentino, brasiliano e uruguaiano oggi in Europa passano per sconosciuti o quasi, quando in realtà il loro valore non era affatto inferiore a quello delle stelle che gremivano gli stadi al di qua dell’Atlantico.
Un Alberto Spencer, bomber principe del Peñarol, una sorta di Ronaldo brasiliano ante litteram per potenza esplosiva e tecnica in velocità, era forse il top del mondo nel ruolo di centravanti nel decennio ’60-’70. Pedro Rocha, che di quel Peñarol era il faro offensivo, era un regista dello stesso livello tecnico di un Gianni Rivera o di un Luis Suárez. Il valore di elementi come Elías Figueroa, Roberto Perfumo, Silvio Marzolini, Ermindo Onega, José Sanfilippo e diversi altri – in Europa appunto conosciuti solo a occhi particolarmente attenti – era pari a quello dei più celebrati campioni del Vecchio Continente.
Nel 1971 ho rifiutato l’offerta del Real Madrid per giocare nell’Internacional di Porto Alegre.
Elías Figueroa, uno dei più grandi difensori di tutti i tempi
L’ho fatto perché a quei tempi il campionato brasiliano era il migliore al mondo
La riprova ulteriore del valore dei campionati sudamericani arriva dalle nazionali.
Tra il 1958 e il 1970 il Brasile ha vinto 3 Mondiali in 4 edizioni, un record che nessun altro Paese nel mondo e in un nessuna epoca è stato più in grado di avvicinare. I giocatori che componevano quelle tre nazionali brasiliane militavano tutti in patria. Ma ancora in epoca più recente, l’Argentina che nel 1978 conquista il primo Mondiale della sua storia è formata solo da calciatori che giocano in Argentina, a parte Mario Kempes del Valencia. E i calciatori del Brasile di Telê Santana che nel 1982 incanta salvo poi uscire scornato contro l’Italia di Paolo Rossi militano tutti nel Brasileirão, ad eccezione di Dirceu nell’Atletico Madrid e di Falcão nella Roma.
I calciatori brasiliani che ai tempi di Pelé sceglievano ad esempio di venire in Italia – pensiamo ad Altafini, Jair, Cané, Nené, Dino Sani, Sormani – e che nel nostro campionato disputarono per anni partite e stagioni memorabili, in nazionale erano riserve o comparse. E questo fa capire più di tante parole il valore dei titolari…
Questo senza dimenticare le cifre. Quando Pelé ha affrontato le difese europee ha chiuso con uno score di 211 reti in 201 partite e con 41 reti in 38 partite quando ha giocato contro difese italiane. Quasi tutte amichevoli, d’accordo. Ma a quei tempi le amichevoli rivestivano un’importanza superiore a quella di oggi: senza internet e con la televisione ancora agli albori, le partite tra club di Paesi e continenti diversi erano il solo modo per vedere all’opera campioni lontani. E dunque fare bella figura era quasi un obbligo. Ancora negli anni ’80 uno dei match più epici nella carriera di Maradona fu un’amichevole, il 3-1 degli inglesi contro la sua Argentina a Wembley: quel giorno nonostante la sconfitta il 20enne Diego diede spettacolo.
E proprio a una gara amichevole è legato un altro falso mito tra quelli che circondano la figura di Pelé. La leggenda vuole che in un match del 1963 a San Siro tra Italia e Brasile, terminato sul punteggio di 3-0 per gli azzurri, Trapattoni lo abbia annullato. In realtà quel giorno – per ammissione dello stesso Trapattoni – Pelé scese in campo infortunato e solo per volere degli sponsor, ma dopo 26 minuti uscì. Quando Trapattoni e Pelé si incontrarono in un match ufficiale, vedi la partita di andata della finale di Coppa Intercontinentale tra Milan e Santos, Pelé ha segnato due gol, di cui uno dopo uno slalom ubriacante in cui ha umiliato la difesa rossonera.
All’epoca di Pelé i migliori campioni sudamericani rimanevano a giocare in Sudamerica: il Brasile tre volte campione mondiale dal 1958 al 1970 era composto da giocatori che al momento della conquista del titolo militavano tutti in patria.
In generale le squadre sudamericane erano molto più forti e i duelli contro le formazioni europee erano molto equilibrati.
Pelé quando ha affrontato le difese europee ha sempre fatto la differenze. Che fossero amichevoli o match ufficiali, nei club o in nazionale.
Senza contare che a quei tempi in Sudamerica giocavano difensori molto forti e nessun Paese al mondo sapeva difendere duramente come l’Argentina dell’epoca resultadista.
In sostanza: Pelé non aveva assolutamente bisogno di venire in Europa per dimostrare di essere il numero uno. Di quell’epoca e probabilmente di sempre…
Sfatiamo infine un altro luogo comune, ovvero quello che nel Sudamerica di allora le difese fossero all’acqua di rose. È vero che i difensori sudamericani non erano abituati come i nostri a difendere a uomo, ma il valore individuale di certi elementi non era affatto debole: giocatori come i già citati Figueroa, Perfumo e Marzolini piuttosto che Rattìn e Matosas, oppure in Brasile Zozimo, Mauro Ramos, Bellini, Orlando… erano tutto fuorché deboli. In Argentina poi erano gli anni del Resultadismo, ovvero di un calcio che aveva rinnegato i principi del bel gioco de La Nuestra per sposare un gioco chiuso, tattico, difensivo, difficile da perforare e anche agonisticamente violento. La “sacra trinità” del Manchester United – Charlton, Best e Law – fu fortemente limitata dall’arcigna difesa dell’Estudiantes nella finale Intercontinentale del 1968.
Pelé invece è stato capace di fare la differenza sempre e ugualmente, anche quando affrontava difese cattive e che cercavano di limitarlo con le buone e soprattutto con le cattive. Nella finale Libertadores 1963 contro il Boca Juniors, ad esempio, i difensori xeneizes costruirono una gabbia su misura per limitarlo. All’andata Pelé, di concerto con il suo tecnico Lula, riuscì a ingannarli giocando da regista: il Santos vinse 3-2 con O Rei nell’insolita veste di organizzatore di gioco, a conferma per altro di qualità tecniche, atletiche e mentali impareggiabili.
Al ritorno, nel catino ribollente della Bombonera, i difensori del Boca alzarono ulteriormente il livello difensivo, tentando di fermare Pelé con ogni mezzo, lecito e meno lecito. Come si vede dalle immagini a un certo punto gli strapparono persino i pantaloncini… Ma Pelé si dimostrò più forte di tutto e di tutti: servì l’assist dell’1-1 a Coutinho dopo aver attirato su di sé alcuni difensori. E poi siglò il 2-1 definitivo dopo aver irriso il connazionale Orlando con un fantastico gioco di gambe.
La verità è che Pelé non aveva bisogno di venire in Europa per dimostrare di essere un Gigante. E il fatto che abbia scelto di giocare quasi tutta la carriera in Sudamerica non rappresenta per nulla un limite. Se Pelé fosse venuto in Europa, avremmo dovuto usare il pallottoliere per vedere quante reti e di quale bellezza avrebbe segnato alle difese europee… Esattamente come successe al Benfica – 5 finali di Coppa Campioni in 8 anni tra il 1961 e il 1968 – nella finale Intercontinentale 1962, in quella che Peter Lorenzo, capo dello sport della BBC, ha definito «la più incredibile prestazione individuale di un calciatore nella storia».