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Da Modrić a Leão, da Messi al “Papu” Gomez: tanti modi di essere… determinanti

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Immagine di copertina: Luka Modrić, stella del Real Madrid campione d’Europa

Elencare i giocatori più determinanti in questo momento nel mondo del calcio è un’impresa assai complessa per diverse ragioni. La prima è insita nello stesso contesto che si vuole attribuire al concetto di “determinante”: per cosa? Per vincere? O solo per avere un certo lignaggio, per aumentare in modo decisivo il valore o il rendimento della squadra in cui si milita? Se l’ambito è il primo, è sufficiente prendere i goleador di successo delle squadre vincenti: Benzema per la Champions ’22, Messi per il Mondiale, Leão per lo scudetto del Milan e via. Già snocciolando questi nomi, autorevolissimi per carità, ci accorgiamo che qualcosa non torna. Come sottacere infatti, per esempio, dell’assist inverosimile di Modrić per Rodrygo nella semifinale con il Chelsea in Champions o del salvataggio stellare di Martinez al 90’ della finale mondiale o ancora delle parate del rossonero Maignan in campionato? Per non parlare, per converso, della papera del nerazzurro Radu?

Messi, l’uomo determinante del Mondiale qatariota

Se invece proviamo a stabilire il calo di valore e di rendimento di una squadra, in termini assoluti, in base all’assenza temporanea o definitiva di un tal giocatore, allora il discorso cambia. Ma non per questo si semplifica, anzi! Facciamo un esempio e prendiamo in considerazione una squadra, il PSG, in cui militano numerosi calciatori considerati determinanti, decisivi, quelli che – per usare un’allocuzione talmente abusata che non se ne può più – fanno la differenza. Il miglior giocatore del mondo, il miglior fantasista del mondo, il miglior attaccante del mondo, il miglior centrocampista del mondo, la coppia centrale migliore del mondo, l’incontrista migliore del mondo, il miglior portiere del mondo, l’esterno migliore del mondo, e potrei continuare, giocano tutti a Parigi. Giocano in una squadra che, per ognuno di questi motivi, di queste militanze, è considerata illegale, inaffrontabile (detto per inciso, trovo orribile il termine “ingiocabile”, pur largamente usato. Ingiocabile può essere una partita, non un avversario).

Eppure, con tutto questo ben di Dio e con ulteriori clamorosi e pazzeschi innesti ogni estate, il PSG non vince nemmeno tutti gli anni il campionato francese, come fa il Rosenborg a casa sua, mentre in Europa ha raccolto solo delusioni cocenti in luogo dei tanto attesi, perfino scontati, trionfi. Le ragioni? Forse che la somma di giocatori, tanto più se stelle, non è detto faccia una squadra? Mah, può darsi, ma allora isulterebbe inspiegabile il valore di certe nazionali e lo spirito indomito che caratterizza certe squadre, al di là dei loro componenti. In ogni caso, queste considerazioni, ancorché cariche di sviluppi interessanti, ci porterebbero molto fuori rotta.

Tornando al punto: chi tra i calciatori parigini è veramente determinante? Quale assenza provoca un calo nella squadra in termini di gioco o di risultati? Quella di Mbappé? Messi? Verratti? Neymar? Donnarumma? La risposta è una sola: quella di nessuno. E tale risposta non deriva da un’opinione, ma dalla mera esperienza diretta, dalla cronaca nuda e cruda. Si potrebbe obiettare che la mancanza di uno o più di questi elementi venga sopperita dalla presenza degli altri fenomeni, oltre che dallo spessore non trascurabile dei sostituti, ma questa sì sarebbe un’opinione, confutabile come il suo opposto.

Insomma, per essere veramente determinanti nel calcio di oggi, come in quello di sempre, è necessario dimostrare la differenza di spessore collettivo tra presenza e assenza del singolo. O anche tra rendimento buono o cattivo del singolo. E continuiamo a ritenere estremamente complesso riuscire a individuare qualche nome interessante. Apro una parentesi: sarebbe un giochino più facile, perfino troppo, individuare un ruolo determinante e in questo caso è ovvio orientarsi su quello del portiere. Se ne hai uno scarso, puoi avere sei o sette fenomeni sul terreno e difficilmente vinci un trofeo; se ne hai uno fuori forma, perdi anche la singola gara. Parentesi chiusa e dimenticata, torniamo ai nomi. Cerca e rovista, uno me ne salta fuori. Ed è proprio Modrić del Real, anche se manca la controprova: l’indistruttibilità dei suoi muscoli e il proverbiale stellone del suo allenatore reggiano ne fanno un giocatore sempre presente oramai da un decennio e più. Provate però, tanto per accettare il punto di vista, a immaginare il Real o la Croazia senza di lui. Tutt’altra cosa, vero?

Ilicic e il “Papu” Gomez, uomini chiave nell’Atalanta di Gasperini di pochi anni fa

L’essere determinante in questo senso, va precisato, non garantisce la vittoria, ma è una obiettiva crescita collettiva di rendimento. E allora, proseguendo su questo solco, mi vengono in mente altri due nomi, per meglio dire: una coppia di nomi, di un recente passato italiano. Due che sono stati veramente decisivi per il valore del loro club e, in questo caso, esiste anche la controprova, più evidente che mai. Partiti loro, con modalità diverse ma entrambe drammatiche, il loro club è sceso verticalmente di bellezza e progressivamente anche di efficacia. Sto parlando del Papu Gomez e di Josip Ilicic, i due geni del calcio che hanno reso l’Atalanta di qualche anno fa una delle squadre più divertenti e intelligenti che io ricordi in assoluto. Forse Papu più dello sloveno, non sempre in campo e in costante lotta con se stesso, è stato il fattore in più di quell’irripetibile periodo. Uno senza vero ruolo, ma in grado di aiutare qualsiasi compagno in ogni settore del campo, perfino sotto porta, perfino pronto a stare sul palo nei corner contro.

Razionale sopraffino senza regole tattiche o capace, proprio come Modrić, di seguire una propria tattica senza apparente razionalità? Chi lo sa? Certamente non Gasperini, il più sacchiano degli allenatori italiani, che alla fine è sbroccato, un po’ come il suo maestro o come Allegri o Tuchel, tutti allenatori che diventano gelosi dei propri gioielli creativi fino a chiedere loro discipline assurde. Ilicic era quello che, in campo, lo capiva meglio e più in fretta e quando ci metteva del suo era capace di giocate imprevedibili e quindi inarrestabili. Forse solo Gomez lo intuiva per tempo, ma per fortuna sua e di tutta l’Atalanta quei due avevano la stessa maglia.

Concludiamo questo esercizio indisciplinato, tornando sulla proposta che avevamo fatto a questo nostro magazine: quella di occuparci, per ognuno dei quarti di Champions, dei fattori determinanti, dei quattro giocatori troppo pesanti per la bilancia avversaria. Ma mi sono mangiato quasi tutto lo spazio, per cui mi limito a parlare brevemente di uno solo di loro. Designo e dichiaro quindi come giocatore più determinante dei quarti di finale, come fattore più decisivo: Rafael Leão. Molteplici le motivazione, sia all’andata che al ritorno: a Milano entra in modo determinante nel gol di Bennacer ed è protagonista di un gesto di protesta plateale, facendo a pezzi la bandierina del corner, che l’arbitro gli perdona. Lo stesso arbitro che sanziona il partenopeo Kim per un gesto simile, da molti ritenuto perfino meno grave. A Napoli, il portoghese è addirittura protagonista assoluto: procura il rigore ai suoi che Giroud sbaglia, ne provoca uno per i partenopei che l’arbitro gli perdona e non concede, poi galoppa settanta metri saltando e abbattendo birilli in maglia azzurra fino a servire un assist che Giroud stavolta non sbaglia. Un vero fattore: determinante, bravo, veloce, a suo modo imprevedibile e, la cosa non guasta, ben voluto dagli uomini con il fischietto in bocca.

Rafael Leão, uomo in più del Milan


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