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Gasp! – Gian Piero Gasperini, l’alchimista che non smette di stupire

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Proseguendo nella nostra carrellata di allenatori, tutt’altro che completa e scevra da ogni velleità scientifica, è venuto il momento di occuparci di una figura emblematica e anomala allo stesso tempo come Gian Piero Gasperini. L’essere sia un emblema che un’anomalia ne fanno, nel solco perfetto delle figure che mi affascinano, un personaggio ossimorico. Anzi, essendolo per eccellenza, possiamo dire che la sua emblematicità risulta ulteriormente acclarata: Gasperini è un allenatore emblematico alla seconda potenza.

Allena squadre di adulti da oltre vent’anni, ha vissuto tre periodi di successo incredibile, due distinti nella Genova rossoblu e uno tuttora in corso all’Atalanta, ha sfornato decine di giocatori che ora sgambettano sulle erbe di mezzo mondo, svezzandone tantissimi e sgrezzandone altrettanti. E con ciò permettendo alle sue società, specialmente la Dea bergamasca, di raggiungere un livello di autofinanziamento tale da permettersi di affrontare costi di gestione da squadra che viaggia nella top class del calcio europeo con una continuità ormai acquisita per diritto e aspettative.

Ma l’aspetto che caratterizza maggiormente la carriera di Gasperini, ancora oggi dopo quasi un decennio di risultati incredibili in nerazzurro atalantino, è che ogni impresa risulta ancora sorprendente e che gli elogi che riceve da colleghi ben più noti e remunerati di lui, sembrano quelli rivolti a un vecchio amico che si diletta, a uno zio un po’ strano che vince qualche scommessa. Eppure Gasp di vittime illustri ne ha fatte, in Italia e all’estero, un’infinità e quando Pep Guardiola ha coniato qualche anno fa quella frase geniale per cui «Affrontare l’Atalanta di Gasperini è come andare dal dentista», frase talmente ripresa da essere oggi quasi inflazionata, il mondo ha guardato questo omino canuto e agitato come a un piccolo stregone di passaggio più che a un esperto del settore, autorevole quanto vincente.

Stregone o no, Gasp è uomo dotato di una dote rara se non unica nel suo ambiente. Ha infatti l’umiltà di studiare, la qual cosa abbinata all’intelligenza per imparare in fretta e alla straordinaria capacità, questa sì quasi alchemica, di trasformare l’apprendimento in insegnamento, ne fa un affabulatore di imprese che disegna trappole vincenti invece di usare la poesia. Ultimo ingrediente di questo cocktail veramente unico e forse irreplicabile è il dono di trasmettere, di farsi capire, di ottenere, di vedere trasformate in azioni, azioni spesso dal marchio inconfondibile, le proprie idee, singolari o collettive che siano. Nel Genoa d’oro e nell’Atalanta dalla bellezza irraggiungibile di prima del Covid, sembrava di vedere in campo un unico essere pensante, una sorta di delfino gigantesco o di balena felice muoversi con un eleganza priva di ogni automatismo, scevra del più piccolo inciampo e che finiva spesso per stritolare gli avversari, prigionieri delle proprie convinzioni.

Qualcuno sostiene che Gasp sia un allenatore rigido, un talebano del modulo 3-5-2 applicato con la marcatura a uomo in fase di non possesso, ma personalmente non vedo questa rigidità se non in qualche suo allievo come Juric. Viceversa, credo di averlo già scritto, penso che quella Dea del 2019-2020 avesse nella sua imprevedibilità tattica un’arma micidiale sul piano dell’esito quanto sublime su quello dello spettacolo. In un 3-5-2 classico, e in quegli anni il maestro in tal senso era indiscutibilmente Antonio Conte, la presenza nel telaio di un giocatore anomalo, un fantasista, un dispari svincolato dalle corde che lo legano ai compagni, è praticamente impossibile da collocare. E mentre il leccese all’Inter tiene in panchina uno di questi, il “suo” Eriksen, quasi un anno e mezzo per poi riutilizzarlo solo quando il danese avrà imparato a giocare mezzala, Gasp a Bergamo ne sguinzaglia due, Papu Gomez e Josip Ilicic, che disegnano iperbole calcistiche sul campo, didascalie mobili al manifesto della felicità nello sport.

Eppure, pur tra mille elogi stupiti e miriadi di notti incantate regalate ai propri popoli, quello rossoblu ligure e soprattutto quello nerazzurro orobico, la carriera di Gian Piero Gasperini non è mai riuscita a svincolarsi da un abbraccio provinciale e ad approdare da prim’attore su una ribalta sfarzosa, sul proscenio di un grande teatro. Solo un volta nella sua vita di allenatore una società di prima grandezza, l’Inter nel 2011, gli ha offerto questa occasione, ma le cose in quella circostanza sono andate nella maniera opposta rispetto alle aspettative di tutti. Il Biscione, ancora vedovo di Mourinho che subito dopo il Triplete era fuggito da Madrid a… Madrid, aveva pensato a questo giovane emergente che aveva fatto miracoli a Marassi proprio con Milito e Thiago Motta, anche per dimenticare la costosissima e infruttifera esperienza con un Rafa Benitez più sudato che mai.

Milito e Gasperini ai tempi del Genoa

Il soggiorno milanese del Gasp dura però pochi mesi in cui riesce nella poco invidiabile impresa di non conseguire nemmeno una vittoria e ancora oggi molti di noi si chiedono imbarazzati il motivo di quel roboante insuccesso. A mio parere, più che il mancato arrivo dei giocatori richiesti per giocare di nuovo a uomo dopo anni e anni di desuetudine, è contato il fatto che per inculcare nella squadra la sua mentalità di gioco, il tecnico di Grugliasco ha bisogno di lavorare con i giocatori per un tempo che una compagine di vertice non può o non vuole permettersi. Del resto, anche all’inizio di questo suo luminoso ciclo atalantino i risultati non erano convincenti ne tantomeno copiosi e la sua panchina ha scricchiolato più volte. Ma in provincia, si sa, la pazienza a volte prevale…

In ogni caso, però, il disastro dell’esperienza interista di tredici anni fa, non sembra proprio sufficiente a giustificare il fatto che a Gasperini, nonostante qualche sussurro e neppure tante voci, non sia mai stata offerta un’altra opportunità di un certo livello. Stupisce in particolare, appunto, che il suo nome non venga neanche mai accostato alle varie panchine prestigiose e vacanti che via via si susseguono. Tant’è che molti sono portati a pensare che sia lo stesso Gasperini a chiamarsi fuori dai giochi, ma lo stesso tecnico ha più volte dichiarato apertamente che le cose non stanno affatto così. E non crediamo nemmeno, per chiudere l’argomento, che sia l’assenza di successi finali in qualche competizione a spiegare in qualche modo quella che rimane un’anomalia di mercato, se non un vero e proprio mistero.

Non posso concludere questo sommario ritratto del più talentuoso tecnico di calcio contemporaneo in Italia senza citare di nuovo l’annata 2019-2020. Lo faccio per due aspetti, tre ribadendo la bellezza struggente di quell’Atalanta. Il termine struggente non è usato a caso: il 2020 è stato in tutto il mondo l’anno del Covid, di un virus che ha costretto l’umanità intera a difendersi rinunciando a quasi tutto sotto l’aspetto sociale. E tutti, dappertutto, sanno che una delle prime zone ad essere colpite a livello planetario fu proprio la bergamasca, la casa dell’Atalanta.

Per fortuna, e anche per le misure di profilassi messe in atto dalle varie federazioni, non abbiamo notizie di vittime di calciatori almeno di un certo livello, né a Bergamo né altrove, ma rimane l’amara convinzione che quella squadra fantastica e irripetibile, quel gioiello del Gasp, sia rimasta in qualche modo impigliata in quella brutta avventura. E che la rimonta subita con due gol oltre il 90’ nella semifinale Champions contro il PSG di Neymar, Mbappé, Verratti abbia sancito nel modo più triste, ancorché beffardo, la fine ingiusta di una stagione bella e giusta come poche. Possiamo forse dire che il Covid-19 ha spento una squadra che non potrà riaccendersi mai più.

Tutta quella squadra, tranne lui. Incredibilmente lui, Gasperini, perse una dopo l’altra tutte le sue pedine, ognuna per ragioni diverse, si è messo impastare di nuovo e a tirar di sfoglia. Nuove facce, nuove scommesse, nuovi fallimenti altrui rigenerati da far invidia, nuove incredibili imprese (citofonare Klopp), e lui sempre lì, marinaio di terra sotto la pioggia, a menar sorprese e vittorie inaspettate. Come se quello di vincere non fosse, da vent’anni e sotto qualunque cielo, il suo antico mestiere.

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