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Paul Merson, una storia di talento e di depressione

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«Eccoli questi giovani, il peso è sulle loro spalle»

Queste le prime parole di “Decades”, il brano che chiude “Closer”, il celeberrimo secondo e ultimo album dei Joy Division, e Ian Curtis, profeta suo malgrado di una giovane generazione di inglesi, all’alba dell’epoca di Margaret Thatcher sembra quasi presagire il destino dei suoi fratelli minori, di quelli che diventano maturi a metà anni ’80 e che, se la fortuna è dalla loro parte, possono anche affermarsi come calciatori professionisti.

Fratelli minori che, come Curtis, spesso devono combattere contro un demone terribile annegato invano nell’alcol, ovvero la depressione, e il fatto che questi giovani recitino di frequente la parte del clown conferma solo che la depressione in molti casi indossa un sorriso sul suo volto.

Tra i “fratelli minori” più celebri, nel mondo del football, ricordo tra gli altri Tony Adams, lo statuario centrale dell’Arsenal, e soprattutto due dei talenti puri più dotati nati in Gran Bretagna, Paul Gazza Gascoigne, che non ha bisogno di presentazioni, e Paul Merson, che a conti fatti era proprio una specie di Gazza minore, un giocatore dotato di classe e inventiva in dosi industriali, ma oppresso dagli stessi demoni che oscuravano le vallate interiori del più celebre fenomeno di Dunston (leggi qui il pezzo sui giocatori genio&sregolatezza d’Oltremanica).

Ho conosciuto Paul Merson una sera di inizio maggio del 1994: il Parma, la squadra per cui avevo deciso di simpatizzare senza una ragione precisa che non rispondesse al nome Gianfranco e al cognome Zola (aggiungete, se proprio, il fatto che il Parma stava sfidando le grandi storiche del nostro calcio, che mi stavano poco simpatiche per principio, che avevo undici anni etc..), aveva raggiunto per il secondo anno consecutivo la finale di Coppa delle Coppe, e a sfidarlo c’era una squadra inglese di cui sapevo poco nulla, perché al tempo la neonata Premier League si era da poco risvegliata dal letargo post-Heysel e le sue formazioni, con poche eccezioni, erano per noi italiani un grosso enigma. Quella squadra era l’Arsenal di George Graham, che in patria possedeva già i crismi della leggenda, ma che per noi italiani era composta per lo più da carneadi.

Boring Arsenal, scrivevano al tempo i giornali d’Oltremanica, e in effetti i londinesi erano lontani parenti della squadra spettacolare, a volte più bella che concreta, che avremmo ammirato durante il lungo regno di Wenger. Per di più, era una squadra formata quasi solo da giocatori britannici, con tre soli scandinavi, tre riserve, a scalfire la sua autoctonia quasi bilbaoana. Sappiamo tutti come è finita quella finale: il Parma, favorito e tecnicamente superiore, viene punito da una distrazione difensiva e non riesce più a recuperare, e così la Coppa finisce a Londra, ed è uno dei primi trofei che prendono la strada della Gran Bretagna dopo il 1991. Il gol che decide la finale di Copenaghen lo segna A. Smith, ma il mio occhio viene catturato da un centrocampista che parte defilato da sinistra e che palla al piede pare avere una qualità diversa da quella dei compagni: in una formazione che conosce e recita a memoria il copione del kick and run, combattiva e “cattiva” come ci si aspetta che siano le inglesi dei primi anni ’90, c’è un centrocampista biondo con l’espressione persa, la faccia un po’ strana, da “dannato” più che da bello, che ogni tanto si inventa veroniche con il pallone e che è la classica scheggia impazzita, il giocatore cui è consentito muoversi fuori dallo spartito, e si tratta naturalmente di Paul Merson.

Boring in campo, forse e non sempre (nel 1994 elimina con merito Torino e PSG), l‘Arsenal era decisamente meno “noioso” fuori dal rettangolo verde, anche se la sua energia extracampo non poteva purtroppo essere intesa in senso positivo: di fatto, la squadra era una sorta di riunione degli alcolisti anonimi, come avrei scoperto alcuni anni più tardi. Una coalizione di talenti il cui rapporto con sua maestà l’alcol era nella migliore delle ipotesi conflittuale, nella più severa un vero e proprio dramma personale: il peso del mondo, nell’Inghilterra “ripulita” da Iron Lady, era davvero sulle spalle di questi giovani della classe operaia, la cui ascesa nel mondo delle star, dei più o meno milionari, non era evidentemente sufficiente a cancellare un passato doloroso, da emarginati, vissuto nelle periferie tutte mattoni e pioggia battente immortalate da Ken Loach.

Paul Merson, londinese e tifoso del Chelsea, il ragazzone che aveva un pochino addolcito la delusione per la sconfitta del mio Parma, nel 1994 aveva ventisei anni e barcollava da tempo sull’orlo del baratro, come avrei saputo tempo dopo. Aveva debuttato con la maglia dell’Arsenal, tradendo il proprio tifo, quasi dieci anni prima, da talento precocissimo delle giovanili che arriva in prima squadra e dopo un paio di stagioni diventa titolare. Le sue qualità palla al piede e una certa tendenza alla follia lo rendono subito il beniamino di tifosi e tabloid, che lo accostano al nemico/rivale Gascoigne, suo vero e proprio alter-ego che però, per doti complessive e impatto, gli sarà sempre un passettino davanti. Nel 1988/1989, a soli vent’anni, Paul si consacra campione: in campo è sempre più maturo, mette a segno dieci gol e regala alcune “magate” che fanno spellare le mani dei tifosi di Highbury.

A fine campionato, arriva il titolo più incredibile di sempre e Paul viene eletto giovane dell’anno: l’Inghilterra comincia a parlare di lui come del futuro, lo vede come il più classico dei creativi tutti “genio e sregolatezza” e confida che possa convivere con Gazza per riportare la nazionale di Sua Maestà tra le grandi del mondo. La convocazione in nazionale però non arriva, anche perché, come gli addetti ai lavori già sanno, Paul è entrato da tempo nel tunnel dell’alcol, insieme a numerosi compagni di squadra (si racconta che la media delle pinte consumate nel dopo partita sia di quindici a testa), e le Notti Magiche esigono invece la massima lucidità.

Nel 1991 Paul si riscatta festeggiando il secondo titolo e anche la sua stagione migliore, impreziosita da 13 reti e numerosi colpi da antologia che lo annoverano tra i massimi talenti del suo paese, e questa volta, nonostante i problemi extracampo, la nazionale non gliela toglie nessuno: debutta contro la Germania nel 1991 e sembra subito a suo agio con la maglia dei tre leoni, ma il suo rapporto con l’Inghilterra, e questo vale per molti connazionali del tempo, sarà sempre complicato, o nella migliore delle ipotesi agrodolce.

Nonostante i problemi con l’alcol (e le complesse vicissitudini familiari) siano noti, Paul con l‘Arsenal, pur se con qualche alto e basso, fino al 1994 si conferma un giocatore di alto profilo, tanto da decidere la finale di FA Cup del 1993 e, l’anno dopo, da vincere da titolare e protagonista la Coppa delle Coppe, il tutto mentre è quasi sempre titolare in nazionale. Nel frattempo si vocifera che alle birre in quantità industriale si siano aggiunti la cocaina e poi, come se non bastasse, il gioco d’azzardo (qualche anno fa, Merson ha confessato di aver dilapidato oltre sette milioni di sterline nei suoi vizi), ma il CT Graham Taylor non rinuncia alle sue doti e lo porta con sé in America, nel 1993, per un torneo che gli inglesi sperano sia solo il preludio al mondiale di un anno dopo, e che invece è la loro prima e ultima trasferita nel Nuovo Mondo, in quegli anni. Negli USA, Merson conferma ai tabloid inglesi, sempre assetati di sangue, di essere in preda ai suoi demoni come forse mai gli era accaduto in precedenza: durante una notte, ubriaco fradicio si aggira per le vie di Chicago e cerca di sventare una rissa, in qualche quartiere malfamato, e solo la buona sorte gli consente di uscire illeso dalla violenta scazzottata.

L’episodio inaugura una serie di fatti di cronaca poco lusinghieri che lo vedranno protagonista per tutto il 1994 (processi per atti osceni e guida in stato di ebbrezza, tra gli altri): dopo il successo in Coppa delle Coppe, cui contribuisce in maniera essenziale, Merson torna a barcollare sull’orlo dell’abisso e sprofonda in una grave crisi depressiva; nell’autunno del 1994 sembra già un ex giocatore, disputa con la nazionale alcune partite indecorose, tanto da essere sommerso dalle critiche di tutta Inghilterra, e la sua dipendenza dall’alcol e dalla cocaina è diventata un problema insuperabile, come lui stesso confessa al Daily Mirror, lanciando un accorato grido d’aiuto che però rimane quasi inascoltato. La tragedia, a quel punto, è davvero dietro l’angolo, anche perché in casa le cose non è che vadano molto meglio; e così, nel corso di una gelida giornata di novembre, Paul, alla guida della sua auto, si schianta a 140 km/h contro un muro e solo per miracolo possiamo parlare oggi di tentato suicidio, e non di suicidio vero e proprio.

«Ho dilapidato tutto, mia moglie mi dà una paghetta e mi controlla il telefono»

Paul Merson e le dipendenze: dalla bottiglia al gioco d’azzardo

La Federazione, a quel punto, lo indirizza e supporta in un programma di recupero e l’Arsenal, con pazienza, come si fa con i figli problematici, decide di aspettarlo. Paul, toccato il fondo, prova a risalire e lo fa egregiamente, tanto da tornare in campo nell’ultima parte della stagione e da giocare da titolare un’altra finale di Coppa delle Coppe, questa volta perdendola ai supplementari contro il Real Saragoza. Da allora in avanti, il mago che si è conquistato il cuore dei londinesi si vedrà in campo solo di rado, e al suo posto ci sarà un grande talento un po’ statico e oramai, per tutti, “bollito” o di categoria. Nel 1997, dopo il primo anno di Wenger (anno in cui regala qualche preziosismo e sporadiche apparizioni in nazionale, anche contro l’Italia a Wembley nel 1997), Paul viene spedito incredibilmente in First Division, per una cifra folle e da record, per quello che sembra il definitivo crepuscolo della sua carriera. Lascia l’Arsenal dopo oltre 300 partite e 78 gol, e dopo diversi titoli nazionali e internazionali, come uno dei giocatori più amati e controversi della storia dei Gunners, votato ancora nel 2008 come uno dei venti massimi talenti della storia del club.

Sembra davvero che si possa scrivere la parola fine sul libro della sua carriera e invece, contro ogni pronostico, Merson in qualche modo risorge dalle ceneri, trascina il Boro al trionfo in seconda divisione, raggiunge incredibilmente la finale di Coppa di Lega (persa ai supplementari contro il Chelsea di Zola), si guadagna il soprannome di The Magic Man e viene addirittura convocato a Francia 1998, diventando l’unico giocatore di seconda divisione che abbia mai partecipato a un mondiale con la maglia della nazionale inglese. Non che i vizi siano proprio acqua passata, anche perché a Middlesbrough Paul ritrova l’amico/rivale Gazza, come ci ricorda una foto scattata ai due negli spogliatoi prima del mondiale;

Merson e Gascoigne nel 1998

ciononostante in Francia Merson ci va, anche se da riserva di lusso, e quando entra fa il suo dovere, come contro l’Argentina agli ottavi: Paul fa ingresso in campo nei minuti finali, sostituendo Scholes, e non tradisce la fiducia del tecnico alla lotteria dei calci di rigore, pareggiando la rete della Brujita. Dopo aver dimostrato di essere ancora delle partita, Paul trasloca all’Aston Villa, oramai quasi maturo e in qualche modo “ripulito”, e vive le stagioni più serene della sua vita sportiva: benché meno imprendibile e dirompente che negli anni giovanili, si conferma un signor creativo del centrocampo, ancora capace di autentici colpi di genio, e nel 2000, dopo alcune prestazioni eccezionali, riceve anche il premio di giocatore del mese di febbraio della Premier.

Il vero crepuscolo della sua carriera arriverà negli anni seguenti, spesi a scodellare magie nelle categorie inferiori, quasi da fermo, mentre prova a scacciare i fantasmi che l’hanno torturato per tutta la sua giovane e tribolata esistenza.

Non è mai diventato quel campione assoluto che avrebbe potuto essere e condivide il destino con molti altri giocatori, in primis con il suo fratello putativo Gascoigne: l’incompiutezza gioca un ruolo chiave nel delineare il fascino di questi personaggi “maledetti”, ma posso dire che oggi mi piace ricordare Paul Merson soprattutto per ciò che ha dato in campo, come quel giocatore tutto invenzioni estemporanee, pallonetti impensabili e spunti da funambolo che ho visto per la prima volta nel 1994, e associarlo non solo alle tragiche parole di Ian Curtis sui giovani inglesi della sua generazione, ma anche alle note più serene (“Waterfall” degli Stone Roses) che accompagnano le sua gesta in questo splendido video-omaggio.

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