Immagine di copertina: Giuseppe Rossi con la maglia del Parma.
In questa puntata dedicata alle grandi stagioni quasi dimenticate, ci si concentrerà sui grandi acquisti della sessione invernale, operazioni di mercato che nell’immediato hanno saputo sortire gli effetti sperati (e anche di più). Saranno quindi messi a confronto due mediani eccezionali che sono stati capaci di stravolgere positivamente gli equilibri di due top italiane, e successivamente due fantasisti mancini che hanno trascinato le proprie squadre ad una salvezza apparentemente impossibile.
Edgar Davids 1997/98 e Mark van Bommel 2010/11
Solitamente quando si pensa agli acquisti più impattanti di sempre tra quelli arrivati in piena sessione invernale, il primo nome a venirvi in mente è certamente quello di Edgar Davids. Non soltanto perché stravolse completamente gli equilibri del centrocampo della Juventus, ma perché per l’epoca rappresentò un vero e proprio shock vederlo impattare così bene dopo l’infelice prima metà di stagione 1997-98 con il Milan.
In rossonero, infatti, il “buon” Pitbull era apparso come l’ombra di se stesso, non riuscendo ad ambientarsi in una realtà decadente come quella del Capello-bis. Sembrava la coppia sbiadita del giocatore frizzante ed elettrico che si era visto nell’Ajax di Louis van Gaal. Come un’Araba Fenice, Edgar riuscì a risollevarsi in bianconero, riuscendo ad elevarsi come quel giocatore cardine del centrocampo di Marcello Lippi. In mezzo al campo, infatti, Davids trasmise quel senso di onnipotenza atletica, tecnica e tattica di cui la Vecchia Signora aveva bisogno.
Grazie ad un nuovo senso di leadership che nemmeno all’Ajax era riuscito a conseguire, Edgar Davids si impose di prepotenza come il miglior centrocampista della Serie A come rendimento e come impatto. Era pressoché impossibile assistere ad una brutta prestazione da parte sua in quel periodo, a riprova della sua continuità sconcertante. I suoi picchi performativi erano arrivati ad un punto tale da permettergli di prendersi occasionalmente la scena anche in partite in cui condivideva il campo con gente del calibro di Zinédine Zidane e Ronaldo.
Senza contare poi alcuni deliri di onnipotenza come quello contro la Roma allo stadio Delle Alpi, quando cancellò dal campo il malcapitato Cafu (sì, quel Cafu), per poi segnare su punizione al termine dell’ennesima prestazione eccezionale. Non sorprende poi che abbia proiettato questo rendimento straordinario anche in Champions League, risultando l’ultimo baluardo della Juventus nella sconfitta di Amsterdam contro il Real Madrid. Avrebbe poi concluso la stagione con il fantastico Mondiale in Francia, consacrandosi sempre di più come uno dei migliori centrocampisti del mondo dell’epoca.
Per quel che mi riguarda, Edgar Davids merita di essere preso in considerazione tra le primissime scelte del centrocampo ideale della storia della Juventus. In pochissimi hanno infatti avuto un impatto così immediato appena arrivati a Torino. Senza poi considerare la sua iconicità e il suo valore intrinseco, che lo elevano tra i centrocampisti olandesi più forti mai esistiti.
Il caso di Mark van Bommel è invece un po’ diverso rispetto a quello di Davids. Nonostante entrambi siano due mediani fatti e finiti, infatti, Mark non ha mai posseduto le proprietà atletiche ed agonistiche di Edgar Davids. E di sicuro non aveva le sue stesse capacità nello stretto. Sin dai tempi dei suoi anni al PSV Eindhoven, van Bommel si era distinto per la sua compostezza tattica, per l’ordine che metteva in mezzo al campo. Laddove invece Davids avrebbe avuto un approccio un po’ più “entropico”, per certi versi caotico (in senso positivo, ovviamente). Prediligeva i lanci lunghi ed era dotato anche di una gran conclusione dalla distanza, una dote che gli ha permesso di essere un grande realizzatore soprattutto con la maglia del PSV Eindhoven.
Non tutti se lo ricordano, ma già nel 2004/05 aveva dimostrato di che pasta fosse fatto anche in campo internazionale, segnando la bellezza di 19 gol in 48 partite, un’enormità per un giocatore che partiva da una posizione così arretrata. Anche con le maglie di Barcellona e Bayern Monaco confermò il suo innegabile carisma, dimostrandosi ancora una volta come un calciatore capace di reggere il peso dei grandi palcoscenici. Non sorprende dunque che il Milan decise di puntare su di lui per aumentare il livello del suo centrocampo nel 2010/11.
La squadra di Massimiliano Allegri, infatti, aveva certamente conquistato la vetta della classifica, ma si ritrovava anche in un equilibrio piuttosto precario in mezzo al campo. I continui guai fisici di Andrea Pirlo, il calo di intensità di Gennaro Gattuso e Massimo Ambrosini e la generale idea di dover ricostruire il centrocampo rendevano necessaria la presenza di un nuovo leader nella mediana. A rappresentare un boost straordinario per i rossoneri fu dunque Mark van Bommel, il cui rendimento fu da subito scintillante in mezzo al campo.
Grazie a Mark, il Diavolo poté fare quello step definitivo in termini di solidità difensiva, riuscendo a consolidarsi in maniera definitiva ai vertici della Serie A. Da subito van Bommel divenne leader di quella squadra, come già lo era stato nel corso della sua carriera, riuscendo a farsi largo in mezzo ai senatori del Milan. Al termine di quella stagione, i rossoneri poterono festeggiare il 18° scudetto della loro storia, un trionfo passato anche attraverso le prestazioni straordinarie di Mark van Bommel.
Le sue prove di forza furono tali da non fare rimpiangere nemmeno Andrea Pirlo, ormai prossimo all’approdo alla Juventus dopo il mancato rinnovo. Ancora oggi i tifosi del Milan hanno un ricordo splendido di van Bommel, a riprova di quanto sia riuscito ad entrare nel cuore di tutti grazie al suo carisma, al suo valore in mezzo al campo e al suo attaccamento alla causa nonostante un solo anno e mezzo di permanenza.

Mark van Bommel festeggia lo scudetto 2010/11 del Milan dopo lo 0-0 contro la Roma [https://bollettinomilan.wordpress.com/]
Álvaro Recoba 1998/99 e Giuseppe Rossi 2006/07
Nonostante la doppietta shock contro il Brescia in occasione del suo debutto in Serie A nel 1997-98, Álvaro Recoba non riuscì ad incidere con continuità nel corso del suo primo anno e mezzo all’Inter. La concorrenza era troppa per potersi ritagliare uno spazio e già si intravvedevano i primi segnali di quella discontinuità tipica del Chino nel resto della sua carriera. Nell’inverno del 1998-99, i nerazzurri decisero quindi di mandarlo in prestito al Venezia, una squadra che aveva disperato bisogno di un leader tecnico per uscire da una situazione di classifica a dir poco disastrata.
In 15 partite, infatti, i Lagunari avevano collezionato a malapena 11 punti, ritrovandosi ben lontani dalla zona di classifica necessaria per la salvezza. Anche il suo teorico bomber, Filippo Maniero, faticava a trovare la via del gol, essendo fermo a 2 soli centri nella prima metà della stagione. Con l’arrivo di Álvaro Recoba, il Venezia cambiò completamente marcia. Non era più quella squadra sfiduciata, che non faticava enormemente a trovare la via del gol (solo 7 segnati nella prima parte della stagione). Era una squadra rinata, trascinata dal genio, dall’estro e dal talento di un campione mancato, col senno di poi.
Perché nel corso di quei sei mesi a Venezia non furono soltanto i numeri ad essere formidabili per l’uruguagio (10 gol e 9 assist in 1535 minuti giocati), ma anche quel senso di responsabilità che non avrebbe più fatto suo di ritorno all’Inter negli anni successivi. Álvaro era il leader tecnico ed emotivo di quella squadra disperata, apparentemente condannata alla retrocessione, che riuscì a salvarsi grazie alle sue straordinarie gesta calcistiche. Le punizioni disseminate nel corso di quel periodo, gli assist illuminanti e le parabole dipinte dal suo magico sinistro fecero risalire quel Venezia, capace di collezionare quei 31 punti decisivi per la salvezza nelle restanti 19 partite. Un ritmo da Europa, più che sufficiente per ottenere la permanenza in quella Serie A ultra-competitiva.
A beneficiare della partnership con Recoba fu lo stesso Pippo Maniero, capace di segnare 10 gol nel girone di ritorno e di acquisire una fiducia tale da consentirgli di segnare un gol di tacco volante contro l’Empoli. Purtroppo la carriera del Chino non riuscì più a replicare certi apici individuali con quella continuità, ritrovandosi inghiottita nell’incostanza e nei rimpianti di un qualcosa che non si è mai concretizzato. Storiche in questo senso si rivelarono le sue partite nei derby contro Juventus e Milan, spesso poco convincenti e perfettamente in linea con le aspettative puntualmente disattese.
Ciò che è certo è che in quei sei mesi a Venezia il buon Alvaro Recoba giocò da autentico campione, entrando per sempre nella storia del Venezia. Sei mesi a dir poco poetici, ben rappresentati da quella tripletta eccezionale contro la Fiorentina di Giovanni Trapattoni.
Come Álvaro Recoba, Giuseppe Rossi è un altro calciatore che alimenta non pochi rimpianti tra gli appassionati. Mancino come il Chino, Pepito si ritrovò catapultato in giovane età in una realtà apparentemente condannata alla retrocessione. Esattamente come il Venezia 1998-99, infatti, il Parma 2006-07 era sostanzialmente spacciato, complice quel tremendo handicap dei soli 12 punti collezionati in 19 partite nel girone d’andata. Serviva una scossa importante, ed in questo senso i gialloblù tentarono il tutto per tutto con un classe ’87 di belle speranze, che già aveva fatto parlare timidamente di sé in quelle poche apparizioni al Manchester United.
Alla sua prima grande occasione in un campionato nazionale di spicco, Giuseppe Rossi segnò un gol a dir poco straordinario già nel suo match di debutto, stendendo il Torino con un gol d’autore di una bellezza sconfinata. Un’ulteriore scossa per il Parma arrivò con l’approdo di Claudio Ranieri, arrivato al posto di Stefano Pioli per tentare l’ennesimo miracolo da Manny Tuttofare tipico del suo repertorio. Non serve nemmeno che vi spieghi che ci riuscì, cavalcando al meglio la coppia Budan-Rossi verso una salvezza apparentemente impossibile come quella del Venezia raccontata poc’anzi.
I numeri di Giuseppe Rossi furono un po’ inferiori a quelli del Chino Recoba, ma sarebbe scorretto non tenere in considerazione un bottino da 9 gol e 5 assist in 1526 minuti giocati. Numeri notevoli per un attaccante che a soli 20 anni era chiamato a dare il massimo per arrivare ad una salvezza quasi proibitiva. E Pepito Rossi lo fece, con giocate degne dei migliori fuoriclasse con il suo magico sinistro. La sua partnership con Igor Budan stregò l’Italia intera, con Rossi ad illuminare i suoi tagli e ad approfittare degli spazi creati dal croato.
Come nel caso del Chino, occorre ricordare i punti collezionati dal Parma nel corso del girone di ritorno, ben 30. Un bottino più che sufficiente per conseguire la salvezza, in sella ad un Pepito Rossi sempre più lanciato verso la sua futura ascesa con la maglia del Villarreal. Occorre però precisare anche un altro dato, che da solo rende perfettamente l’idea del peso specifico delle giocate di Giuseppe: quando Rossi segnava e/o faceva assist, il Parma non perdeva mai. Una statistica straordinaria, perfetta rappresentazione di quei sei mesi magistrali del classe ’87 di Teaneck.
A differenza di Recoba all’Inter, Giuseppe Rossi riuscì a prendersi la scena con la maglia del Villarreal, imponendosi da subito come una delle stelle più luminose di un campionato straordinario come la Liga dell’epoca. Purtroppo però, come nel caso dell’uruguaiano, noi italiani ci ritroviamo a rimpiangere Pepito per tutto ciò che non è riuscito ad essere. E se non furono i suoi problemi caratteriali a fermarlo, lo fu il suo fisico, flagellato in continuazione da quegli infortuni che ci hanno privato di un autentico fuoriclasse. Un rimpianto incolmabile, doloroso ed impossibile da accettare.


