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“What if?”: 10 giocatori la cui carriera è stata rovinata da problemi di salute

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Immagine di copertina: Stojkovic e Prosinecki

Mutuiamo un’espressione dalla pallacanestro USA (“what if?”, ovvero “cosa sarebbe successo se”, e la connessa frase congiuntiva di solito contiene la descrizione di uno o più gravi infortuni) per avventurarci nel mondo dei campioni che non hanno reso come avrebbero potuto, o che hanno visto la propria carriera subire un brusco e repentino ridimensionamento, a causa di problemi di natura fisica, endogeni o esogeni ha poca importanza.

Non è sempre facile decidere se e quando un giocatore abbia subito un ridimensionamento a causa di un infortunio, o in quale misura i guai fisici abbiano penalizzato la sua carriera, anche perché la mannaia del malanno fisico ha colpito anche fuoriclasse conclamati come Van Basten, Ronaldo, Roberto Baggio etc..

Riteniamo tuttavia di dover escludere dal novero dei protagonisti di questo articolo giocatori come i sopracitati perché, nonostante la buona sorte abbia spesso voltato loro le spalle, abbiamo avuto la fortuna di ammirarli all’opera, più o meno al meglio delle loro possibilità, per un lasso significativo di tempo. Le dimensioni del “what if”, pertanto, nel loro caso si rimpiccioliscono, mentre per arruolarti nella legione degli sventurati, a nostro parere, devi aver espresso, nella migliore delle ipotesi, il 50% del tuo potenziale. Ci sono in lista un paio di nomi “di confine”, come avremo modo di illustrare, ma per il resto ci siamo focalizzati solo su campioni che hanno potuto esprimersi al meglio per meno, a volte molto meno del 50% della loro carriera e che, spesso, dopo aver subito uno o più gravi infortuni sono diventati quasi degli ex giocatori (anche questa è una scriminante decisiva).

Tra i giocatori “di confine”, meritano a nostro avviso una citazione, tra i tanti che potremmo nominare: Paul Gascoigne, che prima di immolarsi a sua maestà l’alcol ha pagato dazio alla fortuna subendo un gravissimo infortunio al ginocchio, seguito da una ricaduta che assomiglia a una crudele premonizione (Paul si rompe la seconda volta, quando è in via di guarigione, durante un litigio in un pub); Carlo Ancelotti, centrocampista prodigio della Roma che si rompe quando sta decollando e che, pur consacrandosi comunque comunque campione, non sarà mai, probabilmente, ciò che avrebbe potuto essere; El Pajaso Aimar, elettrico trequartista argentino che come noto è stato l’idolo del giovane Messi, un gran bel giocatore che tra River e Valencia si afferma come campione di livello internazionale, ma che dopo una serie di problemi fisici non sarà mai in grado di recuperare del tutto la sua miglior condizione; Paulo Futre, sinistro superbo e qualità in sovrabbondanza, il Baggio portoghese riempie di meraviglia gli occhi dei suoi connazionali e dei tifosi del Porto e a fine anni ’80 viene largamente considerato uno dei maggiori talenti in circolazione, ma di fatto si inabissa verso un’aurea mediocrità dopo alcuni eventi traumatici (chi scrive lo ricorda, mesto e inquieto, mentre indossa la maglia della Reggiana); talento precocissimo ma incapace di consacrarsi anche a causa delle ricorrenti rogne fisiche, merita una menzione anche il Piccolo Buddha Iván de la Peña, verticalizzatore spagnolo che rappresenta il prototipo delle grandi mezzeali che verranno, un regista capace di esaltare le doti da Superman di Ronaldo il Fenomeno prima di rompersi ripetutamente e di svanire nel nulla nel giro di poche stagioni.

Visto che non possiamo inserirli in lista perché nessuno di noi ha avuto la fortuna di vederli in campo, citiamo anche due italiani dell’anteguerra che restano due giganteschi punti di domanda: il primo è Felice Borel, una sorta di Paolo Rossi ante-litteram; agile, leggero e imprendibile, dotato di una velocità di esecuzione unica e di un’eleganza impareggiabile che lo fanno soprannominare Farfallino, Felice Borel è il terminale offensivo dela Juve che domina l’Italia nei primi anni ’30, ma i ricorrenti problemi di natura fisica, legati a un ginocchio maledetto, gli strappano la leggerezza che lo rendeva immarcabile e ne stroncano la carriera dopo due sole stagioni al top, impreziosite da due precoci titoli di capocannoniere; il secondo è Virgilio Maroso, il terzino con l’anima da artista (era un ottimo pianista), uno dei fuoriclasse del Grande Torino che, già penalizzato da gravi inconvenienti fisici, muore a 24 anni a Superga.

Robert Prosinečki

Innamorato del pallone, forse un pochino capriccioso e bizzoso nello stile di gioco, Robert a cavallo tra anni ’80 e ’90 finisce comunque sul taccuino di tutti i club più importanti del mondo, e con pieno merito: a diciannove anni, titolare a sorpresa della rampante Stella Rossa, ha fatto ammattire Rijkaard e Ancelotti, a 21 si è guadagnato l’ammirazione del pubblico vincendo il premio di miglior giovane di Italia 1990 e, dulcis in fundo, a 22 anni è stato il giocatore chiave della Stella Rossa che ha strappato la Coppa dei Campioni al Marsiglia di Tapie in quel di Bari (leggi qui). Una lunga serie di guai muscolari, una condanna per molti giocatori jugoslavi del tempo, gli impedisce tuttavia di affermarsi come quel fuoriclasse che è nel Real Madrid, e gli regala una maturità agrodolce, spesa tra la capitale spagnola e le Ramblas confezionando cioccolatini e declamando poesie con il pallone tra i piedi, ma senza più avvicinare la dimensione occhieggiata nei primi tre/quattro anni di carriera. Per intenderci: se non fosse stato per quei guai fisici, il primato assoluto di Modrić tra i connazionali potrebbe essere messo in discussione (per approfondire leggi qui), a mio parere. Dopo il trasloco in Spagna, ai noti problemi di salute si sono aggiunti alcuni vizi che fanno a pugni con le esigenze della vita di un professionista (“Se non fosse stato per lo Spritzer sarei stato il più grande giocatore del mondo“), vizi che hanno suonato la campana a morto sulla sua carriera al top. Per concludere, un aneddoto personale: chi scrive ricorda Robert incantare il pubblico di Fratton Park, seconda divisione inglese, Portsmouth, nel 2002, in quella che fu l’ultima pennellata di un artista eccentrico, sfortunato e meraviglioso.

Dragan Stojković 

Qui entriamo in un territorio di confine, perché Piksi in realtà si è consacrato quale grandissimo giocatore, e a inizio anni ’90 era probabilmente il numero dieci puro più decisivo in circolazione: due volte giocatore jugoslavo dell’anno, dotato di una sferzata quasi senza pari e di una sensibilità nel piede destro appannaggio dei grandissimi, Piski ubriacava il mondo con le sue finte ed era anche un giocatore decisivo, sia in patria che in Europa (leggi qui); lui e il Genio erano lo yin e il yang di una squadra lunatica e fantasiosa, di un movimento che stava per salire sulla punta del sole giusto un attimo prima che la terra crollasse sotto i suoi piedi, riportando sulle prime pagine dei giornali parole bandite dal vocabolario europeo da molti decenni (guerra, strage, pulizia etnica). Il problema è che l’ascesa di Piksi verso il Paradiso dei Fuoriclasse si è interrotta sul più bello, intorno ai venticinque anni, e che il suo discusso trasferimento a Marsiglia, nel 1990, l’ha privato della soddisfazione più bella, e proprio per mano di quella che era stata per un lustro la sua squadra. Dopo Italia ’90, in sintesi, a causa di un grave infortunio si spegne una delle stelle più luminose del firmamento mondiale e una carriera straordinaria si trasforma in un calvario, appena addolcito da qualche sporadico acuto (penso ad alcuni lampi da vecchio Piksi a Francia 1998, o alle magie in maglia veronese che inducono Fascetti a dichiarare “Stojković impartiva lezioni di calcio con una gamba sola“). Troppo poco, però, per un giocatore che sembrava destinato a riscrivere la storia e non solo quella del suo paese. Ecco perché, nonostante almeno quattro stagioni da fenomeno, Dragan rimane almeno in parte un What If.

Francesco Rocca

Noi italiani non siamo celebrati nel mondo per le nostre straripanti doti atletiche, eppure vantiamo alcuni degli atleti più anomali e grandi di sempre, da Fausto Coppi a Pietro Mennea, vero e proprio UFO che non veniva dall’Italia ma dal pianeta corsa. Il calcio non fa eccezione: tra gli abatini, i grandi portieri e i difensori ruvidi, ci sono anche gli atleti futuribili, e il primo nome che associo alla categoria è quello di Francesco Rocca, noto come Kawawaki – e il soprannome, nel suo caso, dice tutto. Atleta formidabile e dotato di una progressione che sembrava arrivare dal 2034/2035, definito dagli ammirati compagni una forza della natura, Rocca veste la maglia della Roma e ha un impatto atomico sul calcio italiano, tanto che dopo due stagioni da titolare, quando deve ancora compiere vent’anni, Bernardini lo convoca in nazionale e vuole farne il perno futuro della fascia (destra ma anche sinistra, se occorre), mentre Liedholm, a Roma, lavora sulle sue doti tecniche e lo fa maturare anche su quel fronte. Purtroppo, il grave infortunio subito in allenamento nel 1976 e quello sofferto contro il Cesena, quando Kawasaki ha solo 22 anni, sono il preludio a una serie infinita di grane che lo terranno fuori per intere stagioni, costrigendolo al prematuro ritiro nel 1981 (quando, di fatto, è un ex giocatore da cinque anni). Chi scrive ha pochi dubbi: se fosse rimasto in salute, Rocca si accomoderebbe al tavolo dei terzini più grandi della storia del nostro calcio.

Gianluigi Lentini

Maledetto fu il “ruotino”, protagonista suo malgrado dell’incidente che ha rovinato la carriera di un’altra forza della natura tutta Made in Italy, il piemontese Gianluigi Lentini, ala destra dotata di una straripante forza fisica e di una progressione incontenibile (uno dei preparatori del Milan del tempo disse che era impossibile stabilire chi fosse un atleta superiore tra Gullit e Lentini), è stato la giovane stella del Torino che primi anni ’90 sfiora la coppa UEFA, nonché il protagonista di uno degli affari più cari e discussi della storia del calcio italiano (all’epoca i 20 miliardi ufficiali fecero scandalo). Lentini avrebbe potuto e dovuto essere uno dei perni della grande nazionale azzurra degli anni ’90: dopo la brillante ascesa in maglia granata, che lo rende celebre anche in Europa, Lentini trasloca a Milano e diventa titolare del Milan degli Invincibili, giocando trenta partite e segnando diversi gol d’autore, ma soprattutto seminando ripetutamente il panico nelle difese avversarie con il suo incredibile cambio di passo, degno di quelli di Gullit e Kakà, e con le sue notevoli doti tecniche, specie come crossatore. Il terribile incidente del 2 agosto 1993, che lo lascia in coma per diverso tempo, è però purtroppo e di fatto la pietra tombale sulla sua carriera di fuoriclasse: Lentini si risveglia e piano piano si riprende, ma non tornerà mai lo stesso giocatore di inizio carriera, anzi chiuderà con il pallone in modo malinconico, facendo la spola tra Torino e Cosenza, spesso in serie B (chi scrive l’ha visto al Rigamonti, proprio in B, nel 1999) prima di giocare in Eccellenza e in Promozione.

Michael Owen

Come e più di Piksi, anche Wonder Boy Michael Owen si colloca al crocevia tra compiuti e incompiuti, perché obiettivamente tra 1997 e 2001 c’è poco di incompiuto nella sua breve e fulgida parabola: Owen, attaccante anomalo per gli standard inglesi, visto che gli almanacchi gli accreditano generosamente 172/171 cm, in gioventù è una sorta di miracolo della natura, perché corre con una leggerezza che ha qualcosa di astratto, sembra quasi che i suoi piedi non tocchino il terreno mentre supera il diretto avversario e si invola verso la porta avversaria. Il capolavoro inventato contro l’Argentina ai mondiali di Francia lo trasforma in una star planetaria, e nelle stagioni successive Michael diventa uno dei giocatori più importanti d’Inghilterra e vince anche alcuni trofei internazonali con il Liverpool, trofei che gli valgono un discusso ma tutto sommato legittimo pallone d’oro. Purtroppo, nonostante un numero di presenze ancora significativo, tra 2001 e 2002 Owen comincia a soffrire di ricorrenti problematiche fisiche che con gli anni gli impediranno di replicare le gesta di inizio carriera e di diventare un fuoriclasse vero e conclamato, relegandolo nei pressi della folta schiera dei What If.

Pato

Quando il 13 gennaio 2008, Alexandre Pato atterrò sul pianeta Milan, in una fredda notte a San Siro contro il Napoli, ebbi la sensazione di trovarmi davanti ad un prodigio. Vedevo un ragazzetto esile, con il viso da adolescente, che faceva quello che voleva con la palla, ad altissima velocità: progressione, cambi di direzione, dribbling, tiro. La partita finì 5-2, ma la scena la prese lui. Un attaccante brasiliano a San Siro che andava al doppio degli altri evocava dolci ricordi. Per alcuni anni, in effetti, fu il Milan di Pato: fu grande protagonista della stagione 2008/09 e iniziò benissimo anche quella successiva, con reti importanti anche in Champions League, una tra tutte la rete decisiva per la vittoria del Milan al Bernabeu, prima di calare vertiginosamente nella seconda parte dell’anno a causa di reiterati infortuni, che di fatto gli costarono la convocazione al Mondiale 2010, dove avrebbe dovuto consacrarsi. L’anno seguente, nonostante una presunta incompatibilità con Ibra, riuscì a marchiare con il fuoco lo scudetto rossonero, con la celebre doppietta nel derby del 2 aprile, nella partita che più di tutte segnò la storia di quel campionato. Alla fine, le reti stagionali furono 16. È rimasto impresso nella memoria degli appassionati anche il suo gol-lampo al Camp Nou, contro il Barcellona dei marziani: 24 secondi dal via per penetrare come il coltello nel burro e infilzare il cuore della difesa blaugrana con un allungo stordente e un piattone tra le gambe di un incredulo Valdes. Fu uno degli ultimi grandi momenti del Papero, che nei due anni successivi entrò in un lungo calvario di infortuni, su cui si è detto di tutto e di più. Si è parlato di MilanLab, accusato di aver rovinato un campione facendogli mettere chili in più di muscoli che il suo scheletro non poteva sostenere; si è parlato della sua relazione con Barbara, la figlia del presidente Berlusconi, il quale lo adorava al punto da ritenerlo incedibile nonostante tutto e non lesinava “suggerimenti” tecnico-tattici (“perché dribbli verso l’esterno? Gioca più al centro e vicino alla porta“); si è parlato di una presunta scarsa professionalità, fatta di feste notturne e tentazioni carnali, secondo un luogo comune sui giocatori brasiliani a Milano. Tante ipotesi, ma un solo dato di fatto: Pato è sparito. Il suo girovagare quasi senza costrutto tra Chelsea, Villareal, Brasile, Cina e Stati Uniti è una triste nota di cronaca, come se fosse un discorso da non approfondire perché la ferita sanguina ancora. Se avessimo goduto del giocatore visto fino al 2010 per altri 5-10 anni, il Brasile avrebbe avuto qualche chance in più di portarsi a casa un mondiale, i tifosi brasiliani si sarebbero divertiti molto di più, e forse persino anche noi.

Giuseppe Rossi

Italo-americano di New York, ma arruolato e arruolabile con la maglia azzurra, Giuseppe Rossi rappresenta senza dubbio uno dei più grossi rimpianti del calcio italiano degli ultimi decenni, forse il più grosso, se parliamo di giocatori martoriati da infortuni che gli hanno impedito di ascendere tra i migliori. Basso di statura, veloce e rapido nei movimenti, mancino che non perdona, senso del gol da attaccante vero, Rossi dopo l’addio al Manchester United e un veloce apprendistato con la maglia del Newcastle si fa conoscere al pubblico italiano con la maglia del Parma, che – giocando appena mezzo girone, essendo arrivato nel parmense a gennaio – trascina ad una meritata salvezza con 9 gol in 19 partite da assoluto protagonista. Il calcio spagnolo, che si apprestava a dominare il continente, non se lo lascia sfuggire, il Villareal lo compra per 11 milioni di euro e Giuseppe Rossi matura, raggiungendo l’apice nella stagione 2010-11, con gol e prestazioni che lo consacrano tra i migliori attaccanti in un campionato dominato dagli alieni Messi e Cristiano Ronaldo. La sua definitiva consacrazione è attesa per gli Europei 2012, ma un infortunio gli toglie la possibilità di prendere parte al torneo, in un’annata che vede il Villareal – privo del suo giocatore migliore per quasi tutto l’anno – retrocedere nella serie cadetta. Nel 2013 a Firenze sembra arrivare la resurrezione, e le sue prestazioni tornano ad essere significative – clamorosa la sua tripletta alla Juventus padrona del campionato – ma la sfortuna si accanisce ancora e dopo pochi mesi ad altissimo livello, Pablito entra in un vortice senza fine. Una serie infinita di stop lo porta a girovagare alla ricerca di se stesso in Spagna tra Levante e Celta Vigo, poi a Genova, poi negli USA al Salt Lake City, poi alla Spal, persino in B. La cattiva sorte ci ha tolto un campione, se non qualcosa di più. Sono abbastanza convinto che sarebbe stato l’erede dei fuoriclasse italiani degli scorsi decenni.

Douglas Costa

I tifosi juventini concorderanno: uno dei più grossi “what if?” è proprio quel brasiliano mancino, quell’ala che sembrava una fusione tra un malandro funambolo stile Robinho – che tocca il pallone e lo ipnotizza con doppi passi, tocchi e giocate da Joga Bonito – e un’ala del Bayern, stile Robben – che punisce con la progressione e la verticalità come un cavallo in corsa. Il ricordo è recente, dunque non ho bisogno di andare troppo indietro con la memoria: Lokomotiv Mosca-Juventus, novembre 2019. La Juventus di Sarri è inchiodata sull’1-1 in mezzo al gelo moscovita, in una partita che i bianconeri non sembravano avere la forza di ribaltare. Cristiano Ronaldo è evanescente, Sarri osa sostituirlo per la seconda volta di fila, macchiandosi di lesa maestà e porgendo il collo alla scure delle polemiche. Douglas Costa allo scadere si inventa una giocata, che rievoca il Ronaldo del 1998 nella stessa città: in un terreno zeppo e pesante, il brasiliano si accende partendo da zero, prende velocità, triangola e segna, portando la Juventus agli ottavi. Un gol da Fenomeno, un gol che potremmo vedere giusto da Mbappé.
Purtroppo gli infortuni, reiterati, continui, senza tregua, rappresentano un vortice dal quale Douglas fatica ad uscire e la sua cessione – così come quella dal Bayern che precedette il suo arrivo sotto la Mole – è solamente una logica conseguenza. Con un Douglas Costa sano, in grado di disputare stagioni per intero senza infortuni, il calcio sarebbe cambiato? Probabilmente sì. I pochi gol nel carniere non lo avrebbero reso il miglior giocatore del mondo – palma che solitamente spetta a chi, tra le altre cose, riesce a garantire un notevole numero di gol – ma uno dei migliori interpreti in circolazione del suo ruolo assolutamente sì.

Nwankwo Kanu

Chi era un ragazzino a metà anni ’90 difficilmente ha dimenticato l’allampanato attaccante atipico di origini nigeriane noto come Nwankwo Kanu. Nonostante la sua statura da ala piccola nella pallacanestro, Kanu non è stato un centravanti classico ma una specie di tuttofare senza ruolo del reparto offensivo, più bravo con i piedi che nel gioco aereo, e più bravo nel fraseggio che quando si trattava di puntare la porta avversaria, tanto da non diventare mai un collezionista di reti. Ancora teenager, diventa uno dei punti fermi del grande Ajax di Van Gaal e si appresta e spiccare il volto verso l’empireo dei campioni, anche perché vince da protagonista una leggendaria medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta. Purtroppo, come noto, il suo cuore è affetto da un problema congenito che lo costringe a sottoporsi a una delicata operazione e di fatto gli impedisce di diventare un punto fermo dell’Inter di Moratti, squadra con cui disputa solo dodici partite in tre stagioni. A Londra, Kanu si riprende e diventa il dodicesimo di lusso dell’Arsenal degli Invincibili: con la maglia dei londinesi colleziona prodezze e giocate sopraffine, ma gli manca sempre la continuità per affermarsi come titolare inamovibile, e il suo problema al cuore, a lungo termine, non può che condizionarne il rendimento. Il finale di carriera lo vede scendere in campo con le maglie di West Bronwich e Portsmouth e chiudere in Championship nel 2012, a 36 anni. Benché Kanu si sia dimostrato un giocatore importante anche con la maglia dell’Arsenal, il grave problema cardiaco diagnosticato a Milano l’ha relegato in un ruolo di comprimario di lusso per quasi tutta la carriera, piuttosto lontano quindi da quanto aveva fatto intravedere negli anni dell’Ajax, dalle candidature al pallone d’oro e dai premi riservati al giocatore africano dell’anno.

Marco Reus

Quella di Marco Reus è sembrata a lungo e sembra tuttora una maledizione: Marco non ha mai saltato una stagione intera a causa dei problemi fisici, ma è stato colpito dalla cattiva sorte, una sorte di incantesmo, sempre sul più bello, ovvero un attimo prima di consacrarsi e di poter partecipare, con le stigma del protagonista, a un grande torneo internazionale. La lista delle sue defezioni è lunghissima: se a Euro 2012 il giovane Marco, già stella in ascesa del Borussia Dortmund, è un rincalzo di lusso, ai mondiali del 2014 lo si attende alla definita consacrazione, ma ecco che la caviglia lo frega, cedendo durante un’amichevole, e lo costringe a rinunciare al torneo. Ha tutto il tempo per riscattarsi, si pensa, perché nel 2016 si giocano gli europei: e invece, dopo due stagioni piuttosto problematiche, Reus si spacca di nuovo e quindi addio all’Europeo. Nel 2018, con la Germania a fine ciclo, Reus riesce finalmente a scendere in campo in un grande torneo con la maglia della nazionale, ma la maledizione in Brasile si manifesta sotto forma diversa, circondandolo con una squadra fragile che viene eliminata al primo turno. Nel 2022, forse, per la prima volta le stelle si allineeranno e Marco potrà dire la sua, anche perché il tempo comincia a stringere: e invece, ancora una volta, la caviglia maledetta lo azzoppa sul più bello. La carriera a Dormund è stata meno problematica di quella in nazionale, ma rimane vero che solo in tre occasioni Reus ha disputato più di trenta partite della Bundesliga, e, in ogni caso, la lunga sequenza di intoppi che ha frenato la sua carriera gli ha fatto perdere presto lo straordinario cambio di passo robbeniano di inizio carriera, e comunque gli ha impedito di essere al meglio della condizione con continuità. Nonostante questo, Reus, forse il teutonico più dotato della sua generazione, ha conquistato per due volte lo scettro di giocatore tedesco dell’anno ed è stato l’uomo in grado di fungere da detonatore nel gioco del Dortmund, aprendo le difese avversarie palla al piede e dimostrandosi anche un prolifico bomber: i barlumi di grandezza che ha fatto intravedere in alcuni momenti della carriera, specie nel corso delle stagioni 2012/2013 e 2013/2014, pertanto, non possono che alimentare i rimpianti di tutti gli appassionati di calcio.

con il contributo di TOMMASO CIUTI

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