Prosegue la nostra avventura nel mondo delle stagioni – se non dimenticate, per lo meno – sottovalutate dal grande pubblico.
Rubén Sosa 1992/1993 e Paulo Dybala 2015/2016
Ricordiamo ancora oggi la stagione 1992/1993 perché vede Van Basten volteggiare ad altezze siderali e poi precipitare in un abisso che ne stronca la carriera, perché il Divin Codino Roberto Baggio gioca un calcio superiore, idiosincratico, antico (spettri di Omar Sivori) e moderno (una velocità palla al piede da anni ’90) e porta a casa una Coppa UEFA da dominatore incontrastato, e anche un Pallone d’Oro indiscutibile; se volgiamo lo sguardo al mondo che ci circonda, pensiamo al Marsiglia del malefico Goethals che incarta il Milan degli Invincibili sul più bello, a Romário che trasporta nel calcio moderno il verso libero e l’istinto del Malandro, al Manchester United che torna a far sentire la sua voce dopo decenni di anonimato. Non viene sempre naturale associare la stagione che si conclude con la finale di Monaco a un centravanti uruguaiano che gioca a Milano, sponda nerazzurra; eppure tutte le graduatorie di rendimento dell’epoca lo incoronano come il miglior giocatore della Serie A, e con un certo margine persino sui titani rossoneri o su un certo Roberto Baggio. Dopo le quattro annate vissute a Roma, il campione celeste trasloca a Milano; se le sue qualità sono fuori discussione, nessuno però lo annovera tra i migliori giocatori in circolazione. E invece, soprattutto nella seconda parte della stagione, Rubén Sosa gioca come farebbe uno dei migliori giocatori del mondo: macina avversari, segna come un indemoniato e trascina un’Inter valida ma di gran lunga inferiore ai cugini rossoneri a 4 punti da un titolo parso “ingiocabile” per tutta la stagione. Il sinistro affilato di Rubén, la sua grinta e la sua continuità sparigliano le carte e nel girone di ritorno consentono all’Inter (una formazione valida, ma in cui militano quasi solo buoni giocatori come Battistini, De Agostini, Fontolan, Paganin) di superare il Parma che vince la Coppa delle Coppe a Wembley e la Juventus che supera il Borussia Dortmund in Coppa UEFA, dominando tutte le graduatorie di rendimento del miglior campionato del mondo.
Nel 2015/2016 il nostro calcio attraversa una fase diversa, decisamente meno ricca di soddisfazioni sui palcoscenici europei. La Juventus, reduce da quattro titoli consecutivi, smantella il centrocampo e come noto inizia la stagione zoppicando, tanto da ritrovarsi nelle retrovie. La sua rimonta nella seconda parte della stagione rende quel titolo forse il più bello del ciclo di Conte e Allegri, e porta la firma a caratteri cubitali di Paulo Dybala, che gioca un calcio superiore, ha piedi da dieci argentino (anche qui, Sivori sorride soddisfatto sotto la pioggia), segna come una punta pura (19 gol in 34 partite) e in generale fa la differenza in una lunga serie di partite importanti grazie alle sue qualità superiori. Chi scrive è convinto che quel Dybala sia il migliore della carriera e che meriti di accomodarsi in mezzo agli attaccanti più blasonati del mondo.
Roberto Filippi 1977/1978 e Damiano Tommasi 2000/2001
La classe operaia va in paradiso è il titolo di un celebre film di Elio Petri del 1971 e a mio avviso può anche essere il titolo che campeggia sulle stagioni 1977/1978 e 2000/2001.
Il Vicenza che fa sudare la Juventus nel 1978 si aggrappa al talento superiore del miglior Palo Rossi della carriera, ma ha anche un altro segreto, altrettanto importante: Roberto Filippi è un piccolissimo mediano (gli almanacchi del tempo lo accreditano di 163 cm), eppure ha sette polmoni e domina il reparto centrale del campo come pochissimi altri, forse nessuno nel corso della stagione 77/78, recuperando palloni su palloni alla stregua del miglior Kanté o di Makélélé, e risultando decisivo per l’epocale secondo posto del Vicenza. Filippi viene eletto per acclamazione il miglior giocatore del nostro campionato, porta a casa un Guerin d’oro del tutto inaspettato e incredibilmente sarà in grado di ripetersi. Per un breve e intenso momento, il piccolo Roberto merita di sedersi tra i migliori centrocampisti del pianeta.
Damiano Tommasi è uno dei pochi, veri “bravi ragazzi” del calcio italiano, e il suo ruolo di sindacalista è anche figlio delle sue qualità umane (oggi Damiano è sindaco di Verona). Sul campo, Tommasi si è dimostrato per diversi anni un ottimo tuttofare e recupera palloni, sia nella sua città d’origine che durante la lunga parentesi romana. La sua è stata una vita da mediano, in ogni senso, ma in mezzo a tanta sostanza c’è una stagione che spicca sulle altre e con un magine molto ampio, ed è quella dello scudetto del 2001: come Filippi 23 anni prima, Tommasi nel corso della stagione che culmina nel tricolore sempre posseduto da qualche spirito sacro, gioca con un’intensità e una qualità irripetibili, domina le graduatorie di rendimento stagionali della Roma e in generale le sue medie-voto sono vicine a quelle di Rui Costa, Roberto Baggio e altri grandissimi giocatori. Tommasi non sbaglia praticamente una sola partita e il suo contributo allo scudetto è di importanza centrale, tanto che non è una bestemmia considerarlo uno dei primissimi centrocampisti del pianeta, in quel momento, e forsse il miglior mediano in assoluto. La stagione successiva, il bravo ragazzo tornerà a essere un valido gregario, lontano però dagli standard di eccellenza del 2000/2001, quando la stampa specializzata evoca la gesta di Marco Tardelli se non addirittura di Johan Neeskens.