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Quando l’Utile incontra il Bello: Marco Van Basten

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Per capire un poeta, un artista, a meno che questi non sia soltanto un attore, ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista

Carmelo Bene – quello di Nostra Signora dei Turchi, quello di Un Amleto di meno, quello che a ventidue anni, dopo essere stato cacciato in malo modo da una nota accademia di arte drammatica, strappava un accordo informale a tale Albert Camus – era  un artista nel senso più alto del termine e nutriva una grande passione anche per il calcio – esattamente come l’amico Pier Paolo Pasolini. Sul campo, amava i grandi esteti.

Quando Marco Van Basten, nell’estate del 1995, ufficializza qualcosa che è nell’aria da tempo, Carmelo attribuisce all’evento (in fondo, soltanto uno dei tanti piccoli drammi dello sport) lo spessore e i colori della tragedia greca, proclamando “Il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora e mai si estinguerà” e legando così indissolubilmente il proprio nome, in ambito sportivo, a quello del più grande calciatore olandese e forse europeo degli ultimi quarant’anni.

Marco Van Basten era un artista, ma il suo paradigma era lontano anni luce da quello surrealista e barocco del suo geniale ammiratore: l’Airone (soprannominato così in omaggio alla sua grazia sovrannaturale) volteggiava ad altezze siderali, celebrando magici rituali di armonia, recitando come un attore dalle movenze e dalle fattezze raffaellesche (cito la splendida definizione di Sandro Modeo); il suo volto, così profondamente fiammingo, evoca quello di un altro poeta che ha visto la luce nella stessa area d’Europa, il cantautore belga Jacques Brel; come se non bastasse, sua madre, quasi intuendo che lo scricciolo che teneva tra le mani era destinato a muoversi in una dimensione diversa, preclusa ai più, riservata a chi fa della bellezza la propria ragione di vita, non l’aveva chiamato Marco, bensì Marcello.

L’arte di Van Basten era tutta grazia, compostezza e precisione; era la quintessenza di ciò che possiamo grossolanamente e latamente interpretare come Europa, nel calcio. Il gigante olandese era davvero un’anomalia, un alverare di apparenti contraddizioni che potevano coesistere e armonizzarsi solo dentro il corpo di un artista. 

Per prima cosa, la mole: Marco era (ed è) alto 188 cm e pesava 80 kg, esattamente come il compagno e amico Paolo Maldini, ma si muoveva con la rapidità e la naturale eleganza di un giocatore molto più piccolo; la sua forza fisica era proverbiale, gli consentiva di affrontare da pari a pari autentici marcantoni dalla scorza dura come Pietro Vierchowod (Quando marcava Van Basten, si sentivano rumori metallici e violenti – Gianluca Vialli) e Jürgen Kohler; la sua ossessione per la porta era altrettanto proverbiale, tanto che il rivale Maradona lo etichetterà come una macchina da gol impressionante, costretta al ritiro proprio quando stava per diventare la più forte di tutti.

Al tempo stesso, in modo ossimorico (l’anomalia appannaggio degli artisti più grandi), Marco aveva il passo del mezzofondista e la visione di gioco periferica della mezzala o del numero dieci; si librava in aria con una naturalezza inspiegabile, come se la gravità per lui fosse un problema relativo (solo Cristiano Ronaldo sarà degno dell’accostamento, sotto questo profilo), e dava la stessa impressione quando accelerava, correndo come se non toccasse il terreno; ancora, Marco saltava l’uomo con la stessa facilità dei giocatori che gli concedono quindici centimetri, da maestro della gestione del pallone negli spazi stretti, come se fosse un funambolo sudamericano e non un gigante nordeuropeo.

Come se un simile repertorio tecnico e atletico, degno di un eroe mitologico, avesse suscitato l’invidia degli dei (come aveva acutamente osservato proprio Carmelo Bene), ecco una fragilità congenita e forse non curata nel modo migliore, che ne stroncherà la carriera davvero troppo presto; la sua avventura in rossonero, come noto, avrebbe potuto anche non avere mai inizio, in quanto le caviglie di vetro erano un problema già sui campi olandesi, e l’operazione del 1987 (che scatenò sterili polemiche sulla stampa italiana, convinta che si trattasse di un pretesto meschino teso a velare la nostalgia di Amsterdam e la scarsa propensione alla lotta, requisito indispensabile per farsi valere tra i ruvidi marcatori italiani dell’epoca) rischiò di tarpare le ali di Marco ancora in fase di decello.

Van Basten era figlio del calcio olandese e il legame con Cruijff fu subito evidente: fu proprio Il Profeta del Gol a battezzarne l’esordio, nella stagione 1981-1982, indicando all’allenatore il ragazzino destinato a prederne il posto in campo e anche nell’immaginario dei tifosi europei; la versatilità era quindi parte del suo patrimonio genetico: pur essendo meno universale di Johan, così come di Neeskens o di Gullit, Marco non era solamente un centravanti, e forse neanche solamente un attaccante. Il passo da mezzofondista e il lancio illuminante avrebbero potuto traformarlo in un superbo centrocampista (osservare per credere la finale di Coppa delle Coppe del 1987, quando si posiziona da numero dieci, catapultando nella contemporaneità l’archetipo del nove di manovra mutuato dalla Grande Ungheria), se la facilità con cui bucava la porta avversaria non avesse suggerito il suo avanzamento nei pressi dall’area nemica. Non è tutto: la rapidità, l’ampiezza della falcata (che gli consentiva scarti direzionali degni proprio di Johan Cruijff) e la disinvoltura con cui si liberava dell’uomo avrebbero potuto addirittura indirizzarne la carriera verso la fascia (qualcuno ricorda il cross pennellato sulla testa di Rijkaard contro il Real Madrid, nel 1990?), ma anche quella posizione avrebbe castrato la sua predisposizione per il gol.

Johann Cruijff e Marco Van Basten: Maestro e Allievo.

Van Basten era bizzarro anche se catalogato, con tutte le forzature del caso, come centravanti puro; è vero che, dopo di lui, il nove di manora tornerà a dettare legge (Benzema, Higuain e Lewandowski sono figli della rivoluzione di Marco, anche se nessuno potrà eguagliarne la statura), ma se paragono Marco agli altri grandi centravanti la sensazione di trovarsi davanti a un fenomeno del tutto particolare non ne esce indebolita ma si rafforza. 

Marco non possedeva l’astuzia di Gerd Muller, il suo genio atipico, perché non cercava il gol con l’opportunismo e l’intuito, ma come il prodotto naturale della perfezione dei suoi movimenti, come la risultante delle sue coordinate magiche di precisione e mira.

Sandro Modeo l’ha poi visto come il rovesciamento simmetrico dell’altro grande marziano che ha indossato la maglia numero nove negli ultimi decenni, ovvero Ronaldo il Fenomeno: se il brasiliano combinava in maniera altrettanto enigmatica la forza pura di Mike Tyson, la velocità preternaturale di un centometrista e la tecnica sopraffina del rifinitore brasiliano, aprendosi varchi con strappi di intere metacampo che erano miracoli della fisica, Marco puntava tutto sulla sofisticazione, sul garbo. Marco Van Basten, come Roger Federer, riusciva a far coesistere Mozart e i Metallica e l’armonia per qualche ragione misteriosa era perfetta. 

Il suo impatto sul calcio olandese lo raccontano i numeri da capogiro: Marco debutta (subentrando proprio a Cruijff, che lo indica al tecnico come suo sostituto ed erede) a 17 anni, e nella stagione successiva al mondiale di Spagna si afferma come titolare e inizia a bucare con una certa regolarità le porte avversarie; ed è solo l’inizio: nel 1983-1984, l’Olanda inizia a strabuzzare gli occhi davanti alle magie del gigante olandese, che mette in porta 28 gol in 26 partite. L’Ajax alla lunga non regge il ritmo del Feyenood, che trascinato da un Cruijff a fine carriera e dalla prepotenza atletica di un Gullit in rampa di lancio porta a casa un titolo storico, ma per tutto il mondo il più bravo di tutti è già il diciannovenne Marco. Le stagioni successive saranno una collezione di gol e di giocate da fuoriclasse, con il giovanissimo olandese che mette in mostra il suo repertorio sconfinato, arrivando a un totale di 37 gol stagionali nel 1986 e segnando forse il gol più soprannaturale della sua carriera, quando mette il pallone nel sette con una rovesciata che sembra il più semplice dei gesti tecnico/atletici, se la mette in atto Van Basten. Nella grazia con cui sconfigge la gravità c’è tutta la grandezza di Marco.

La stagione successiva ne consacra per la prima volta la grandezza anche sui palcoscenici europei, che saranno casa sua per diversi anni: Marco, allenato proprio dal maestro Johann, diventa un calciatore totale, un numero nove che in alcune occasioni determinanti (penso soprattutto alla finale di Coppa delle Coppe, che decide con uno stacco imperioso, affermandosi definitivamente come uno dei più grandi calciatori in circolazione) arretra e agisce quasi da numero dieci classico, evocando le gesta di grandi centravanti di manovra come Pedernera e Hidegkuti. La finale di Coppa delle Coppe fu la sua ultima apparizione con la maglia dell’Ajax, perché nell’estate 1987 Marco si accasò nel club del presidente Silvio Berlusconi.

La prima stagione di Marco Van Basten al Milan rappresentò una sorta di anticipazione – condensata in un anno – di quella che sarà la sua carriera con la maglia del Diavolo: buio e luce, yin e yang, dolori e noie fisiche e al contempo momenti decisivi per suggellare il trionfo.

Dopo che ebbe scaldato i motori durante le prime battute della Coppa Italia e le prime giornate di campionato, la tremenda gara del secondo turno di Coppa UEFA contro l’Espanyol – peraltro quella gara fu cruciale per Sacchi e, a posteriori, per la storia del Milan: i rossoneri persero 2-0 senza sconti, i tifosi erano letteralmente inferociti e non erano in pochi a volere la testa, metaforicamente parlando s’intende, del tecnico di Fusignano – lasciò a Marco un infortunio alla caviglia. La sentenza fu spietata: operazione e sei mesi di stop.

Tornò giusto il tempo per dare al Milan, quell’anno trascinato da un superlativo Gullit, l’apporto decisivo per la vittoria dello scudetto, in un epico duello con il Napoli campione in carica di Diego Armando Maradona. Il 10 aprile tornò al gol contro l’Empoli a San Siro e dipinse un’opera d’arte delle sue. Ricevette palla sulla trequarti, tra le linee, e la addomesticò con il destro. Subito dopo, fece un movimento in cui sembrò quasi inciampare sul pallone e il difensore accanto a lui andò completamente a vuoto, lasciandogli un metro. La sua finta era andata a buon fine e si creò così il tempo e lo spazio per far partire un destro potente che si infilò sotto l’incrocio.

Il primo maggio, poche settimane, dopo ci fu lo scontro-verità: in un San Paolo gremito e assordante, che fece da contraltare ad una città deserta e silenziosa, il Milan di Sacchi sconfisse per 2-3 il Napoli di Maradona, in una partita dal secondo tempo vibrante. El Pibe de Oro rispose al vantaggio di Virdis con un calcio di punizione morbido e dolce che si infilò nel sette alla destra di Galli. Marco entrò nella ripresa al posto di Donadoni e non sbagliò il tap in vincente, servito da uno scatenato Ruud Gullit che con la 10 rossonera sulla schiena in quegli anni fu un degno avversario del Diez azzurro.

Il 15 maggio la classifica finale vide il Milan a 45 punti e il Napoli a 42. La squadra di Sacchi aveva appena cominciato a vincere e Marco Van Basten aveva dato solo un assaggio di quello che avrebbe fatto negli anni successivi.

L’annata seguente fu davvero magica per il cigno olandese: forte dell’Europeo conquistato da assoluto protagonista, alla fine del 1988 fu premiato con il suo Primo Pallone d’Oro, precedendo i compagni Gullit e Rijkaard, in un podio tutto Orange. Fu una stagione estremamente prolifica con numeri irreali: 33 reti stagionali in rossonero, di cui 10 – miglior marcatore – in quella Coppa dei Campioni che per gli appassionati e gli storici rappresenta l’apogeo del sacchismo.

Il killer dai guanti di velluto Marco Van Basten visse una stagione di profonda lucidità psicofisica: in campionato saltò solo una partita e nonostante la lotta scudetto fosse un affare tra Inter e Napoli, il cigno di Utrecht timbrò il cartellino per 19 volte, sempre con quell’eleganza raffinata mista ad una freddezza sotto rete che non lasciava scampo.

Il trionfo in Coppa dei Campioni nella finale del Nou Camp contro la Steaua Bucarest portò la sua doppia firma, di testa e di sinistro (oltre alla doppietta di Gullit), ma il capolavoro vero e proprio, la prova di forza che fece capire al mondo che una nuova era sarebbe iniziata, fu la doppia semifinale contro il Real Madrid: in un Bernabeu che tradizionalmente paralizzava di terrore gli avversari, italiani compresi – il famoso miedo escenico – il Milan dominò i madrileni nella loro tana. Nonostante ciò, i rivali andarono in vantaggio con Hugo Sanchez, ma il pareggio arrivò con una magistrale torsione in tuffo di Van Basten che spedì il pallone all’incrocio dei pali. La poca lucidità dei rossoneri al momento del dunque inchiodò Marco e soci sull’1-1, ma al ritorno a San Siro non ci sarebbe stata storia, con un 5-0 totale e senza appello, a cui ovviamente Van Basten contribuì. Per vedere nuovamente un dominio così netto sul piano del gioco di una squadra nei confronti dell’altra, vista la caratura di entrambe e soprattutto il contesto, ovvero le battute finali del torneo più importante d’Europa, il pubblico avrebbe dovuto aspettare venti anni, con l’avvento e l’apogeo del Barcellona di Pep Guardiola.

La bacheca dei trofei internazionali venne rimpolpata dai successi in Supercoppa Europea – contro il Barcellona vincitore della Coppa delle Coppe trascinato da un già grande Hristo Stoichkov, Marco segnò il gol dell’1-1 nella gara d’andata, mentre a Milano i rossoneri vinsero di misura – e nella Coppa Intercontinentale contro l’Atletico National: contro El Loco Higuita, portiere famoso per le sue bizzarrie in uscita dai pali, non segnò per una questione di centimetri ma ebbe ugualmente il modo di piazzare la giocata decisiva, venendo atterrato al limite dall’area dopo la sua ennesima accelerazione, dalla quale nacque la sassata di Chicco Evani che scaraventò la palla in porta e portò il Milan sul tetto del mondo. A fine anno venne nuovamente premiato con il Pallone d’Oro, davanti al suo compagno Franco Baresi.

La Coppa Intercontinentale dell’anno successivo andò ancora meglio per Marco: nello Stadio Nazionale di Tokyo, contro l’Olimpia Asuncion, il Cigno di Utrecht non finì nel tabellino dei marcatori, ma sciorinò una prestazione premiata con 8,5 e 9 dai maggiori quotidiani sportivi italiani: il dribbling morbido e avvolgente con cui liberò il sinistro che Stroppa ribadì in rete fu un’opera d’arte, così come lo strepitoso pallonetto dal limite dell’area che andò a sbattere sul palo (e che Rijkard spinse in rete a porta vuota per la doppietta personale).

Se dovessi fare vedere ad un giovane tifoso cosa significa “classe”, sceglierei questa partita, una delle più belle di Van Basten

Il suo 1990 fu uno splendido anno, almeno a livello di rendimento in rossonero, marchiato anche dalla seconda vittoria di fila in Coppa dei Campioni, nella quale – tanto per cambiare – Marco mise i timbri fondamentali: negli ottavi di finale con il Real Madrid siglò il rigore del 2-0 a San Siro, che risulterà decisivo ai fini del passaggio del turno, rendendo irrilevante la sconfitta per 1-0 a Madrid, partita in cui le caviglie di Van Basten furono oggetto di un trattamento speciale da parte dei madrileni. Marco fu decisivo anche ai quarti, quando ai supplementari nella gara di ritorno a Milano (l’andata a Bruxelles finì 0-0, grazie alle parate di uno strepitoso Galli) siglò il gol del vantaggio ai supplementari, bissato poi da Simone in contropiede.

L’ennesimo sigillo arrivò in semifinale con il Bayern, sconfitto per 1-0 all’andata (il ritorno terminò 2-1 per i bavaresi ai supplementari, permettendo al Diavolo l’accesso alla finale in virtù della regola del gol in trasferta per la prima volta in assoluto). In finale Van Basten non riuscì a trovare la via del gol, ma la fece trovare a Rijkard con una sventagliata di destro: il compagnò non sbagliò e il Milan di Sacchi fece il bis di Coppe. In campionato, dopo aver saltato per problemi fisici i primi mesi, bissò il numero di reti dello scorso anno (19), ma lo scudetto andò a Napoli, non senza polemiche (il famoso “scudetto della monetina”, dove il Napoli vinse a tavolino contro l’Atalanta a causa di una moneta che colpì l’azzurro Alemao, mentre il Milan pareggiò a Bologna, ma questa è un’altra storia…).

La stagione 1990/91 fu la meno brillante del mazzo: esclusi i bagliori accecanti della Coppa Intercontinentale e della Supercoppa Europea, il Milan arrivò completamente logoro ed esaurito, finendo secondo, dietro la Sampdoria di Vialli e Mancini. Arrigo Sacchi sembrò non avere più il controllo dello spogliatoio ed uno dei giocatori più scontenti ed esasperati dal calcio logorante proposto dal tecnico romagnolo fu proprio il Cigno di Utrecht, che segnò solo 11 reti stagionali. Van Basten voleva una maggiore libertà, voleva vedere meno schematismo nel calcio proposto dall’allenatore, il quale – a sua volta – non intendeva arretrare di un centimetro dalle sue posizioni oltranziste: il singolo deve stare al servizio della coralità di squadra, e non viceversa.

A fine stagione a Silvio Berlusconi venne posto l’aut aut: o Arrigo Sacchi o Marco Van Basten. Il Cavaliere scelse il secondo ed in panchina arrivò Fabio Capello, che guidò l’ultima grande annata di Van Basten, che tornò ai suoi livelli abituali grazie alla libertà tattica concessagli dal tecnico di San Canzian D’Isonzo , vincendo il suo terzo Pallone d’Oro nel 1992, nonché il premio come Fifa World Player. Lo scudetto tornò nella Milano rossonera, Marco segnò 25 reti e vinse il titolo di capocaconniere.

Gli infortuni e quella maledetta caviglia però non diedero tregua al 9 rossonero, che nel gennaio 1993 dovette di nuovo operarsi per la terza volta. Il rientro avvenne a fine aprile: il tempo di due sgambate per ritrovare gol e condizione, perché alle porte c’era la terza finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia. Van Basten strinse i denti e scese in campo, seppure con mobilità ridotta e in condizioni fisiche lontanissime dalla forma migliore, in una situazione non dissimile a quella che visse Roberto Baggio l’anno successivo all’atto finale dei mondiali americani. Van Basten si rese comunque pericoloso, ebbe un’occasione che in altri tempi avrebbe molto probabilmente buttato dentro, ma il dolore fisico era troppo forte e Capello lo sostituì a cinque minuti dal novantesimo. La Coppa andò al Marsiglia, Boli siglò il gol decisivo, ma il vero dramma del popolo rossonero – e degli amanti del calcio in generale – era non sapere che quella finale persa sarebbe stata l’ultima partita di questo sontuoso fuoriclasse.

Tra ulteriori operazioni e calvari senza fine, che non raccontiamo in queste righe perché esulano dal rettangolo verde e dal gioco del pallone, Marco Van Basten non scese mai in campo nei due anni successivi. Il 17 agosto 1995 il sipario calò definitivamente.

In nazionale: sul tetto d’Europa

L’immagine più iconica di Van Basten con la maglia nazionale. Il suo destro al volo all’incrocio dei pali rimane uno dei gesti tecnici più belli della storia del calcio

Il rapporto tra Marco Van Basten e la nazionale olandese fu senza dubbio trionfale, anche se non ebbe la stessa totalità e assolutezza che ebbe Johann Cruijff, che – nonostante non vinse nulla – illuminò le notti mondiali del 1974 con un calcio di una bellezza tale da rimanere impressa nelle pietre della storia. Il mondiale 1990 di Van Basten invece fu molto grigio: zero reti, tanti palloni persi ed un’imprecisione nei passaggi davvero non da lui, se contiamo che in quel momento stava vivendo le annate migliori della sua carriera.

Di tutt’altra caratura fu il suo europeo di due anni prima: 5 reti in tre partite, con tanto di tripletta all’Inghilterra, rete alla Germania e soprattutto il celeberrimo gol nella finale contro l’Unione Sovietica, con un destro al volo da posizione delicatissima che scavalcò il portiere russo e si inifilò all’incrocio dei pali opposto. Un capolavoro incredibile di coordinazione, tecnica, tempismo e velocità. L’apoteosi della Bellezza, di cui Marco è stato uno degli esponenti più rilevanti nel mondo del calcio.

Van Basten ebbe un’altra occasione per siglare l’ennesima opera d’arte. Ancora in maglia Orange, ancora agli Europei, stavolta in Svezia nel 1992, nella sfida contro la Germania: ricevette un cross dalla sinistra, mentre era perfettamente posizionato al limite dell’area. Con la bellezza di un airone in volo, colpì la palla al volo di sinistro: la sfera viaggiò veloce e superò il portiere, ma si schiantò sulla traversa. Ironia della sorte: lo stesso tiro venne fatto da Zinedine Zidane nella finale di Champions 2002 contro il Bayer Leverkusen e la palla finì nel sette.

Van Basten uscì nella sfida successiva, la semifinale contro la Danimarca: giocò bene, ma sbagliò il suo rigore ai tiri finali. Passò la Danimarca e in finale coronò il suo sogno, Van Basten non bissò il trionfo di quattro anni prima. La sua avventura in nazionale fu condita da 24 reti in 58 presenze.

Il “quasi gol” di Van Basten agli europei 1992 paragonato al gol di Zidane contro il Bayer Leverkusen

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