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Le 5 migliori squadre europee dal 1996 al 2000

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Ci avventuriamo nella seconda metà degli anni ’90, un periodo che anche lo scrivente ricorda alla perfezione perché coincide per lui con gli anni della scuola superiore. La supremazia del calcio italiano sull’Europa rimane una sorta di assioma, ma qualcosa comincia a scricchiolare, e il futuro getta un’ombra sinistra sul Belpaese, destinato a essere sorpreso dalla storia con lo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999.

1995-1996

La stagione che si chiude con la finale di Roma mi ha creato più di un grattacapo, perché fino a primavera la sensazione diffusa è che l’Ajax sia ancora la squadra da battere. Le lezioni di gioco impartite al Real e alcune esibizioni in grado di far luccicare gli occhi trasformano l’Ajax in una squadra adorata dagli esteti, ma anche nello spauracchio di tutte le avversarie in Champions. La Juventus inizia il campionato in modo meno tambureggiante rispetto agli olandesi, ma cresce di colpi nel corso dell’anno e disputa una delle Champions più spettacolari della sua storia. La finale è all’insegna dell’equilibrio nei primi 45 minuti, ma vede la Juventus prevalere in maniera abbastanza netta sul piano del gioco nella ripresa e durante i supplementari, e per una volta la lotteria dei calci di rigore fa giustizia. Fosse anche solo per la finale, voto quindi la squadra di Marcello Lippi, che trova in Vialli il capitano coraggioso e in un Del Piero ispiratissimo il giocatore più decisivo – e, probabilmente, il miglior calciatore italiano in assoluto, in quel momento.

L’Ajax, in ogni caso, è la squadra più bella del mondo, una formazione composta da pittori fiamminghi (così la definì l’avvocato Agnelli), e il fiatone della finale toglie poco-nulla al suo valore e alla sua forza. Litmanen è ancora un candidato al pallone d’oro ed è attorniato da giocatori di prima fascia e da un grande collettivo.

Il Milan sogna in grande, perché Roberto Baggio e George Weah hanno traslocato a Milanello e il suo Presidente pregusta le meraviglie del tridente formato dai due palloni d’oro e dal suo pupillo, il Genio Savićević; durante l’estate, sulla stampa è tutto un rincorrersi di teorie e di paragoni tra il tridente rossonero, quello della Juventus e quello allestito dai signori Tanzi a Parma – tridente composto da Gianfranco Zola, il numero uno del nostro calcio nel 1994/1995, da Mr. Follia Faustino Asprilla e da un altro pallone d’oro, Hristo Stoičkov. Purtroppo, come ricorderà chi c’era, il tridente rossonero fatica a trovare la giusta alchimia, anche perché Roberto è spesso in infermeria e gioca ai limiti della sufficienza, al contrario dell’ispirato Genio e di un Weah in versione numero uno al mondo, e quindi solo di rado i tre giocatori coesistono e rendono al meglio. I rossoneri, in ogni caso, si dimostrano una squadra solidissima e portano a casa il quarto titolo in cinque anni, un titolo di fatto mai in discussione, e il dominio imposto sul campionato più complicato del pianeta gli vale una citazione doverosa.

In Inghilterra, il Blackburn Rovers vorrebbe ripetere il capolavoro dell’annata precedente, quando ha superato a sorpresa il Manchester United, ma deve fare i conti con il desiderio di rivincita di Alex Ferguson e soprattutto di Eric Cantona, che dopo aver annunciato il ritiro cambia idea e disputa forse la stagione della vita, alla guida di una banda di ragazzini che i più pronosticano come incapaci di giocarsi subito il titolo, e che invece lo portano a casa con pieno merito. Il double con la FA Cup, ottenuta superando il Liverpool a Wembley grazie all’ennesimo capolavoro stagionale di King Eric, è la ciliegina su una delle torte più gustose del mondo.

Il PSG ha venduto la sua stella, il pallone d’oro Weah, al Milan, e – come accade più spesso di quanto non si creda – vince a sorpresa il primo titolo europeo della sua storia. A sorpresa, ma fino a un certo punto, perché i parigini sul piano tecnico sono uno squadrone, in cui brilla il genio anacronistico, cadenzato e impareggiabile di Raí e in cui matura definitivamente un talento cristallino come quello di Djorkaeff. In Coppa delle Coppe, i parigini domano il Parma dimostrandosi una squadra superiore ai pur fortissimi emiliani, quindi hanno la meglio del Deportivo e in finale del Rapid Vienna.

1996-1997

La Juventus più bella degli anni ’90, forse la più bella di sempre, soccombe nella inverosimile finale di Monaco, una finale che come ha detto qualcuno possiede qualcosa di lynchano, è un inganno contorto e senza soluzione, un “doppio sogno” come quello di Mulholland Drive. Per gli juventini la finale di Monaco è una ferita aperta anche a ventisette anni di distanza, una ferita che sanguina anche più copiosamente di quella di quattordici anni prima, perché tutto sommato ad Atene l’Amburgo prevale con merito, mentre il 1997 è uno scherzo della storia, che toglie il sorriso ai tifosi bianconeri, ma che toglie davvero poco-nulla alla grandezza della squadra di Lippi, forse il miglior collettivo post-sacchiano di sempre: infarcita di gregari di lusso che giocano una stagione lunare, ispirata da un Vieri bomber a tutto campo, da un Del Piero che quando è in salute è un artista della veronica e dell’uno contro uno, e soprattutto da un certo Zinédine Zidane, che come il suo antesignano Platini inizia con il broncio e poi illumina il firmamento bianconero con la sua classe, specialmente in Europa, la Juve colleziona scalpi di lusso (lo United ridotto quasi all’impotenza, il PSG e il Milan seppelliti di gol, il River Plate superato non senza soffrire con merito, l’Ajax letteralmente cancellato dal campo), esprime un calcio all’italiana modernissimo e offensivo, ma si incarta proprio a un metro dal traguardo.

Dopo i sorteggi dei quarti di finale, tutta Europa pregusta una finale tra Juventus e Manchester United, e del resto la banda di Ferguson sta maturando, con la stella da rotocalco Beckham che si dimostra anche un grande campione, un Giggs nel pieno delle sue forze e King Eric ancora sulla breccia, per l’ultimo grande ballo. In Premier League il Manchester supera un Newcastle milionario e ostico, e in Europa finalmente riesce a raggiungere le semifinali e pure da favorito, ma le api tedesche gli giocano uno scherzo inatteso e doloroso che lo priva della finale di Monaco.

In Spagna si assiste a un Clasico lungo un anno, con le due grandi che macinano calcio, record e prestazioni da applausi. Alla fine, la spunta il Real Madrid di Fabio Capello, una squadra ricchissima di stelle: Predrag Mijatović gioca un calcio siderale e a fine anno finisce secondo nella graduatoria del pallone d’oro, ma anche Carlos e Raúl diventano due stelle planetarie, e Don Fabio è ancora nella fase taumaturgo, non soddisfa in pieno le esigenze estetiche del pubblico madrileno ma costruisce una squadra solidissima e in grado di far male in molti modi diversi.

Sul piano strettamente tecnico, non è da meno il Barcellona di Bobby Robson, che dopo un paio di stagioni in chiaroscuro consacra tra i grandi Figo e il Piccolo Buddha Iván de la Peña, e più di ogni altra cosa si trova tra le mani un Ronaldo in versione plutonica, una sorta di proiettile sparato sul terreno di gioco a velocità futuribili, dotato di una tecnica sullo stretto con pochi eguali e di un senso del gol da bomber puro. In Europa, Ronaldo è l’uomo chiave del Barcellona che vince la Coppa delle Coppe, e nella Liga fa semplicemente un altro sport rispetto a tutti.

Si può discutere a lungo del valore tecnico del Borussia Dortmund del 1996/1997, una squadra di reduci e di “scarti” della Serie A che in Bundesliga non ripete il successo dell’anno precedente e che in Europa raggiunge le fasi finali come sparring partner; il fatto è che il Borussia ha la meglio sia del Manchester United che della Juventus, in entrambi i casi (e soprattutto nel secondo) in maniera difficilmente comprensibile, e che una Champions League rimane un trofeo troppo importante per essere trascurato.

1997-1998

Ancora un’annata superlativa e ancora una serata stregata, una notte maledetta e causa di imperituri dolori per i tifosi juventini: come l’anno prima, anche se con meno verve e meno adrenalina, la Juventus gioca come si conviene al collettivo più rodato d’Europa, e rispetto al 96/97 può schierare anche il miglior Del Piero della carriera, colto al meglio delle sue enormi possibilità tecniche e fisiche. Inzaghi, inoltre, porta in dote i gol “sporchi” mancati l’anno prima e in mezzo al campo Edgar Davids corre per due e recupera palloni per tre: tutto sembra apparecchiato per la rivincita europea, per la terza coppa in grado di far dimenticare lo strascico infinito di polemiche con cui si chiude la lotta scudetto, ma come noto anche Amsterdam diventa una maledizione per i bianconeri, perché nella città olandese a trionfare, nel maggio del 1998, è il Real Madrid.

Dopo 32 anni di digiuno, i Blancos si riprendono infatti ciò che avevano di fatto inventato e lo fanno un po’ a sorpresa, perché l’Europa intera vedeva nella Juve la squadra favorita. Appoggiati sulle spalle spalle solide di Hierro e ispirati dal calcio cerebrale, sofisticato di Fernando Redondo, i madrileni vantano anche un attacco stellare e se nella Liga non brillano, finendo addirittura quarti, il successo europeo, arrivato dopo alcune grandi prestazioni, mi obbliga a una menzione.

In Spagna il Barcellona, nonostante abbia ceduto a peso d’oro Ronaldo all’Inter, domina il campionato: Rivaldo completa il suo lungo processo di maturazione e diventa un fuoriclasse di caratura planetaria e un titolare inamovibile della nazionale verdeoro. Figo e il ricco parterre di giocatori di spessore che circondano il brasiliano sono il segreto di un Barcellona che gioca più come una squadra, rispetto all’anno precedente, e che incamera anche Coppa del Re e Supercoppa Europea.

Il derby d’Italia lungo un anno e foriero di polemiche come non si era mai visto e, fortunatamente, non sarebbe più avvenuto, vede come seconda protagonista naturalmente l’Inter di Gigi Simoni, di Moratti e soprattutto del Fenomeno. Chi scrive ritiene che le due letture che sta per proporre non cozzino tra loro: da un lato, senza Ronaldo l’Inter del 1998 non si sarebbe giocata lo scudetto e probabilmente non sarebbe uscita trionfante dal complicato cammino di coppa UEFA, perché sono le prodezze in serie del brasiliano, un giocatore del futuro sbarcato per caso nel mondo degli anni ’90, a fare la differenza in innumerevoli momenti difficili (penso al gol di Mosca, quando il brasiliano si smaterializza tra i due difensori russi); d’altro canto, sarebbe ingeneroso dimenticare che l’Inter del 1997/1998 è una collezione di nazionali, da Pagliuca a Bergomi, da West a Moriero, e che giocatori come Zamorano, Djorkaeff, Simeone e Winter sono titolari inamovibili di squadre di profilo medio o alto. La leggenda della squadra di scarpari è quindi a mio parere una clamorosa bufala, ma questo nulla toglie alla grandezza quasi preternaturale del Ronaldo ammirato in Italia nel corso dell’annata 97/98.

Da ultimo, una menzione per la Lazio che sta diventando grande, per il miracolo del Kaiserslautern di Otto Rehhagel, un tecnico che ha riempito l’autobiografia sotto la voce miracoli, e soprattutto una menzione doverosa per l’Arsenal di Wenger, a mio avviso la quinta formazione che deve essere ricordata quando si pensa al 1997/1998. Il tecnico alsaziano, dopo un paio di stagioni di rodaggio, trova la formula magica, e così l’Arsenal decolla definitivamente, interrompendo la lunga serie di successi dello United e riportando a Londra il titolo dopo nove anni di attesa. In una squadra che pratica un calcio quasi indecifrabile, a suo modo già proiettato verso il nuovo millennio alle porte, brilla come non mai la luce dei Dennis Bergkamp, che gioca un calcio straordinario, coronato da un grande mondiale. Ronaldo è un marziano, Del Piero gli va vicino, ma quando rifletto sul 1997/1998 io penso soprattutto a Mr. Class e ai suoi giochi di prestigio.

1998-1999

Per chi scrive sembrano siano passati pochi giorni dal termine della stagione 98/99, forse in assoluto quella da lui vissuta con maggiore intensità e anche quella che in qualche modo chiude l’epoca d’oro del nostro calcio.

Come spesso accade, il meraviglioso ciclo della Juventus implode senza preavviso: l’infortunio di Del Piero, le prestazioni svogliate e senza guizzi di Zizou e un Davids più ombre che luci privano la Juventus dei suoi fari, e così la squadra lentamente scivola lontana dai vertici della classifica, e la fine della sua epoca viene certificata dal 4-1 subito in casa dal Parma di Malesani.

Ecco quindi che, dopo un triennio di dominio, la Juventus cede il passo al Manchester United di Sir Alex Ferguson, una squadra (come di consueto) tecnicamente spettacolare ed esaltante, che trova però anche la lucidità e la cattiveria necessarie nei momenti cruciali: come un puglie che dà il meglio quando si trova all’angolo e pieno di lividi, lo United ribalta situazioni complicate in serie, su tutte la finale di Barcellona, e il suo leggendario treble mi impone di regalargli il primo posto. Il centrocampo dei Red Devils è il migliore del mondo e in attacco i Calypso Boys sono una coppia dotata di un affiatamento da tridente kloppiano. Tutti i titoli arrivano sul filo di lana, ma davanti a un treble non si può che togliersi il cappello.

La finale di Barcellona è un trauma per il Bayern Monaco che contende in ogni senso al Manchester la palma di squadra di riferimento del continente: in Bundesliga i bavaresi riscattano le incertezze del campionato precedente e demoliscono letteralmente la concorrenza, distanziata di quindici punti. In Europa, pur se privi di fuoriclasse conclamati (i giocatori di maggiori talento sono Supermario Basler e Mehmet Scholl, oltre al quasi quarantenne Lothar) si dimostrano un collettivo quasi insuperabile, prevalgono sul Barcellona nel girone della morte e perdono la Coppa per questione di millimetri e di secondi.

A proposito di Barcellona: il girone della morte con United e Bayern gli è fatale, anche qui per questione di millimetri, ma nella Liga i catalani sono uno spettacolo, forti di un Rivaldo in versione miglior giocatore del mondo e di un Figo siderale. La Spagna osserva ammirata il calcio del Barça e pregusta successi europei che però tarderanno ad arrivare. Al posto del Barça potrebbe benissimo esserci la Dinamo Kiev, che fa sudare il Bayern ed esprime a tratti un calcio spettacolare: posso dire che si tratta di un ex aequo, anche con le due squadre italiane sotto citate.

La stagione delle sette sorelle è una delle più indecifrabili della storia del nostro calcio: mai si era vista, forse, tanta qualità così equamente distribuita, e mai si era vista una serie a in cui sette squadre partono con l’ambizione di vincere lo Scudetto.

Al termine di un campionato pazzo a vincere è il Milan di Zaccheroni, forse, Roma esclusa, in assoluto la meno quotata delle sette, ma chi scrive reputa che siano più degni della cinquina il Parma di Malesani e la Lazio di Erkisson.

I gialloblu schierano, forse per la prima e unica volta nella loro storia, una delle prime 3/4 rose d’Europa. Buffon, Thuram, Cannavaro, Sensini, Dino Baggio, Fuser, Boghossian, Veron, Crespo, Chiesa, FIore, Balbo, Asprilla: anche oggi, rileggere i nomi del Parma 98/99 fa una certa impressione, e il mesto quarto posto finale in Serie A non rende giustizia a quello che a tutti gli è effetti è un all star team. Il trionfo in UEFA, giunto al termine di alcune prestazioni straordinarie (6 gol al Bordeaux, 3 ai Rangers, 3 a Madrid, 3 al Marsiglia in finale) e la Coppa Italia strappata alla Fiorentina, in ogni caso, riscattano e rendono indimenticabile l’annata parmense.

Non è da meno, anzi, la Lazio allestita da Cragnotti, un altro all star team in cui brillano un Nesta incommensurabile e Pavel Nedvěd, da tempo uno dei massimi centrocampisti in circolazione, così come un Bobo Vieri che quando è in salute sposta gli equilibri del campionato. Lo scudetto scivola tra le dita dei laziali per qualche episodio sfortunato, ma la squadra di Eriksson si riscatta in Europa con la Coppa delle Coppe, e si consacra tra le grandi italiane del decennio.

1999-2000

La stagione che chiude il secolo breve apre gli occhi al sonnolento calcio italiano, che perde improvvisamente tutte le proprie convinzioni e deve mettere da parte la propria presunzione: dopo anni di supremazia, infatti, tutte le squadre italiane in Europa faticano e all’orizzonte si profila il dominio di spagnoli e inglesi.

Non è facile decretare quale sia la squadra di riferimento del 99/00, ma sommando tutto io opto ancora per il Manchester United: in Inghilterra, i Red Devils si scoprono pressoché imbattibili, distanziano l’Arsenal di diciotto lunghezze ed esprimono un calcio di pregevole fattura. In Europa, tuttavia, i ragazzi di Sir Alex inciampano sul solito Real Madrid, che espugna l’Old Trafford con una prestazione magistrale delle sue stelle (Il taconazo di Redondo!) e vengono eliminati un po’ a sorpresa.

Il Real Madrid sembra navigare a vista per mesi, tanto che chiude la Liga con un mesto quinto posto (per quanto a soli sette punti dal Deportivo campione), ma in Champions, come quasi sempre gli capita, vede la luce: il capolavoro dell’Old Trafford prelude al successo sul Bayern Monaco delle semifinali e alla passeggiata della finale. Redondo è il giocatore chiave della squadra e viene nominato numero uno della Champions, ma il vero fuoriclasse è probabilmente un sempre più maturo e decisivo Raúl, che si avvicina ai campionati europei da numero uno d’Europa.

La finale di Champions è un derby spagnolo che vede contrapposto al Real Madrid il sorprendente Valencia di Cuper, una squadra che fa della velocità di circolazione del pallone e del pressing collettivo le sue armi vincenti, e che nel corso dell’anno si esibisce in un crescendo rossiniano che esplode nelle sonore lezioni inflitte alla Lazio e al Barcellona, entrambi seppelliti di reti e dominati in lungo e in largo. In finale, i mediterranei pagano il fiato corto e l’inesperienza, ma restano il collettivo più in palla del momento, e Mendieta disputa una stagione strepitosa.

In Italia è l’anno di Perugia e della Lazio di Eriksson, che in attacco non ha moltissime frecce a disposizione e che però può vantare il centrocampo migliore del mondo, United permettendo, un centrocampo in cui Juan Sebastián Verón fa uno sport diverso da tutti e i colleghi giocano in ogni caso come meglio non potrebbero. In difesa, Alessandro Nesta si candida di prepotenza alla corona di difensore centrale più forte in circolazione. Il Valencia supersonico e il suo calcio veloce mettono in crisi una Lazio ancora profondamente anni ’90, nella concezione, ma nel complesso i biancocelesti sono una delle formazioni europee di riferimento.

La cinquina viene completata dall’onnipresente Bayern Monaco: la terribile scoppola del Camp Nou lascia il segno, ed è inevitabile che lo faccia, ma i bavaresi, come da loro tradizione, non si perdono d’animo, vincono la Bundesliga e raggiungono la semifinale di Champions, anche se soccombono contro il Real Madrid. Si tratta, sulla carta, di una delle versioni del Bayern meno ricca di stelle, ma anche di uno dei collettivi più ostici e difficili da affrontare che si ricordino.

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