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Il Mago Indolente – panegirico per il Mágico González

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La passione per un giocatore e/o per una squadra è irrazionale per definizione, e i corollari dell’irrazionalità – la fede cieca e incrollabile, l’adorazione – ci creano sempre qualche grattacapo o imbarazzo, perché in qualche modo privano di consistenza e di forza argomentativa le nostre valutazioni.

In alcuni casi, tuttavia, possiamo sorvolare sulla logica e abbandonarci alla semplice passione, nonostante i suoi limiti: e allora, concedetemelo, per una volta posso dire che il salvadoregno Jorge Alberto González Barillas è stato un giocatore meraviglioso e – soprattutto – infallibile. Se osservo la sua carriera con gli occhi del critico, vedo un cielo costellato di punti di domanda, di dubbi, di perplessità. La narrativa che lo circonda poi trabocca spesso di retorica un po’ superficiale – ah, il genio irregolare! – e dal fascino oramai dubbio e consunto, e inizialmente non mi ha aiutato ad apprezzarlo.

Neppure mi bastano le parole di Maradona – “il più forte giocatore di sempre”, “tecnicamente è più forte di me, non ho mai visto nulla del genere” , “Era mejor que yo. Yo vengo del planeta Tierra, él viene de otra galaxia (“Lui era più forte di me. Io vengo dal pianeta terra, lui viene da un’altra galassia”) – che mi hanno sempre affascinato ma anche convinto a metà, per quanto autorevoli.

Cosa rende quindi speciale il Magico, una figura che esiste a metà tra la realtà e la leggenda, come i detective selvaggi dei romanzi di Roberto Bolaño?

Per quanto mi riguarda, al di là della sua vita dissoluta, della sua fama di tombeur de femmes, delle fattezze da indio, della passione per la vita notturna e gli alcolici, della pigrizia elevata a unica vera regola di vita, del rifiuto dei vincoli e degli oneri che si porta appresso una maglia prestigiosa (come noto, Il Magico fu vicino al Barcellona di Diego, dopo aver disputato una tournée proprio con i catalani, e anche al PSG), ciò che rende il fantasista centroamericano quasi un esule, la vestigia di un mondo che già tra anni ’70 e ’80 era stato archiviato dalla storia, un personaggio perennemente in fuga come appunto i detective selvaggi di Roberto Bolaño (cileno diventato però grande in Messico), è la pura gioia che trasuda da ogni suo gesto tecnico.

C’è qualcosa di profondamente anacronistico e latino americano nel rapporto tra il Magico e il pallone, una sorta di creatività primigenia, irrazionale e anti-funzionalista che è appannaggio esclusivo di chi arriva da quella parte del mondo e che a noi, quasi sempre, risulta indigesta, o almeno indecifrabile e poco logica – se non porta un’utilità immediata ed evidente, una giocata non ci piace.

Pur se nato in una famiglia povera di El Salvador, uno dei paesi meno legati al calcio di tutto il centro e sud America, Il Magico è l’ipostasi di ciò che per i sudamericani, per lungo tempo, il calcio ha rappresentato, e in parte rappresenta ancora.

Poesia senza regole” ha detto una volta il nostro Tommaso Ciuti, e le sue parole descrivono alla perfezione il modo di giocare anti-europeo di Josè, la cui ricerca della giocata anti-funzionale diventa una religione (ma una religione primordiale, istintiva, atavica) più che un vezzo. Il Magico gioca per divertirsi – ed evoca il sorriso sornione di Ronaldinho che si produce in sortilegi, Garrincha che dribbla i fantasmi senza toccare la palla, o Neymar che dichiara “sto solo giocando a calcio“, quando l’arbitro lo ammonisce per una “bicicletta” che gli avversari avvertono come un affronto – e mette davvero ogni altro aspetto in secondo piano. Che poi questa ricerca insolente e pigra della giocata spesso porti risultati è per noi una sorta di sfida della storia e per loro, invece, la più naturale conseguenza della loro visione del gioco.

A noi europei un approccio di questo tipo pare del tutto controintuitivo, e anzi forse addirittura innaturale, una sorta di negazione dell’essenza dello sport, il cui fine unico e immediato è la vittoria: Il Magico invece sembra avere un fine più alto e astratto, sembra giocare perché è bello farlo e questo per noi è quasi insopportabile – anche se, di fatto, la sua sarabanda di invenzioni illogiche è il suo modo di cercare la vittoria.

Al di là della retorica sul genio maledetto, sul papabile fenomeno che non si consacra ai vertici perché, in fondo, non gli interessa farlo, ribadisco che la cosa che riempie di meraviglia i miei occhi è la pura gioia estetica che mi trasmette ancora oggi vedere le giocate del genio salvadoregno, uno dei giocatori tecnicamente più dotati e più imprevedibili di sempre (sì, sarà anche una considerazione irrazionale, ma ne sono profondamente convinto: il Magico era un talento sublime), e poco importa, nella mia prospettiva poetica, che abbia vinto poco, che abbia speso tutta la carriera europea o quasi nel piccolo Cadice – a proposito, nel 1984 disputa una stagione mitologica e nella Liga fa il vuoto, sfiorando anche il titolo di Pichichi, e lo fa da trequartista e da ala, perché per noi vincere significa andare dritti al “sodo”, per il Magico no, ma alla fine vince anche lui; per inciso, le stagioni di alto profilo in Spagna sono numerose.

«Riconosco che non sono un santo, che la notte mi piace da morire e che se me lo chiedete mi sento di raccomandarne una piccola dose ad ognuno, a patto che si combini qualcosa anche durante il giorno. So che sono un irresponsabile e un pessimo professionista, e che probabilmente sto sprecando l’opportunità della mia vita. Lo so, però ho una ‘locura’ nella testa: non mi piace considerare il calcio come un lavoro, Se lo facessi, non sarei più io. Io gioco solo per divertirmi».

Il Mágico González in un’intervista alla tv spagnola negli anni ’80

Un giocatore come il Magico mette in crisi tutte le convinzioni e le contrapposizioni tra “giochisti” e “resultadisti”, le archivia con la superbia che può permettersi qualcuno che volteggia ad altezze siderali e che dimostra come la gratitudine eterna di una città andalusa o di un paese difficile del centro America possano riempire il cuore meglio di un trofeo o di un nome sull’albo d’oro.

Che poi, a voler ben vedere, i risultati sono anche arrivati: la sua Cadice vive, grazie alle sue invenzioni rocambolesche, alla sua corsa ondivaga e imponderabile, ai suoi gol circensi ai suoi dribbling malandrini, i momenti più belli della sua storia, e lo stesso vale per la nazionale di El Salvador, che disputa grazie alle sue reti determinanti contro gli arcirivali del Messico i mondiali di Spagna, con il Magico che viene accreditato addirittura di una menzione in alcune formazioni ideali del torneo, e questo nonostante abbia giocato tre partite e le abbia perse tutte e tre, anche in malo modo, perché circondato da una banda di semi-dilettanti che nulla può davanti alle potenze del calcio mondiale. La squadra è fragilissima, ma il suo leader non lo è, e ci prova in ogni modo, e dimostra che lui vuole divertirsi, è vero, ma anche pensare al bene della squadra.

In Italia un giocatore come lui sarebbe presto diventato il bersaglio di tutte le varie fazioni che si contrappongono nel dibattito sportivo, anche odierno: lo immagino irriso dai breriani per la sua scarsa vena agonistica, incompreso dalla maggioranza di “pratici” e catenacciari perché senza ruolo e troppo impegnato ad amoreggiare con il suo pallone, detestato dalla solidissima fronda sacchiana perché indolente e spudorato nell’anteporre il bello all’utile – un giocatore come lui, con Arrigo Sacchi sarebbe durato meno di un bicchiere d’acqua, sia per motivi caratteriali che per ragioni tecniche (il calcio di Arrigo vedeva la poesia senza regole dei sudamericani come qualcosa di totalmente incompatibile con i propri principi).

Per sua fortuna, però. Il Mago salvadoregno, dopo aver incantato il suo piccolo paese, ha preso dimora in Andalusia, forse l’unica terra in Europa che avrebbe potuto accoglierlo e celebrarlo come meritava, e ha illuminato il calcio degli anni ’80 come pochissimi altri artisti. Tutto il resto, per quanto mi riguarda, è secondario.

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