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«Sa l’ha vist cus’è? Ho visto un Re!». Il mio incontro dal vivo… con il grande Pelé

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Immagine di copertina: Pelé in abiti borghesi

«Ho visto un Re!» urlava il genio di Enzo Jannacci con quella sua voce difficile da accostare al canto. «Sa l’ha vist cus’è?» gli rispondeva interrogativa l’eco milanese del coro (Che cosa hai visto?). Da lì prende avvio una delle più belle e taglienti canzoni del repertorio cultural popolare del cantautore e medico milanese, coadiuvato da quello, altrettanto salace, che il mondo dei guitti e cantastorie ha elevato a proprio faro e modello inimitabile: Dario Fo. Innumerevoli versioni, alcune strepitose altre discutibili, sono nate da allora di quella magica filastrocca teatralmusicale e anche io, nel mio piccolo, pur stonatissimo e privo di qualunque dimestichezza con il pentagramma, posso dire con voce stentorea e sicuro vanto: Ho visto un re!

Avendo comunque più familiarità con le crome e biscrome che con il sangue blu e molta più stima per le case popolari che per quelle Reali, dépendance comprese, mi aspetto altrettanto forte e stupito il coro che mi chieda lumi: Che cosa hai visto? (sa l’ha vist cus’è?). Eppure anche nel mio caso, come in quello di Enzo e Dario, non posso che ribadire il concetto e potrei aggiungere che io ho visto un Monarca assoluto, che era contemporaneamente una perla ed è tuttora un simbolo e un dispensatore di bellezza e gioia universale.
Era il giugno 1967 e chi scrive queste note stava per compiere 14 anni e navigava tra tempeste ormonali, scolastiche, ideologiche e sportive. Avevo appena finito di leggere ‘La nausea’ di Sartre tanto per rendermi la vita più semplice, avevo passato gli esami di terza media tanto per segnare una tacca sul futuro, ero incazzato per la guerra in Vietnam e avevo da qualche giorno visto dal vivo la mia Grande Inter abdicare, tanto per restare in tema…, il proprio scettro calcistico, disperso sull’erba del Martelli di Mantova, piegato per 1-0 dai biancorossi dispettosi di Giancarlo Cadè nell’ultima gara di campionato. Fu la fine del ciclo di Helenio Herrera, di Picchi, Suarez, Facchetti e compagnia che avevano dominato l’universo mondo per un lustro e che per una papera di Sarti, portiere di spessore ed esperienza, su un tiro innocuo di Di Giacomo, prestato ai virgiliani proprio dall’Inter, consegnò gloria al Mantova e lo scudetto alla Juve, sotto di un punto in classifica alla vigilia, sbarazzatasi nel contempo della Lazio.

Mantova-Inter 1-0 del 1967: errore di Sarti e scudetto alla Juve

La debacle di Mantova giunse appena sette giorni dopo quella di Lisbona, fine maggio, in cui i nerazzurri persero la finale di Coppa dei Campioni contro il Celtic e quindi, figlia o non figlia l’una dell’altra, nel giro di due giovedì l’impero nerazzurro e gli aforismi del Mago passarono dal fulgore più abbagliante alla più cieca delle oscurità. Ma, tanto per tenere ancora un poco con il fiato sospeso chi si domanda chi fosse quell’Altezza Reale e appurato che certo non appartenesse al decaduto mondo interista, voglio ancora un attimo soffermarmi su quel Mantova-Inter di giovedì 1° giugno 1967. Giovedì? Perché giovedì? Perché a suo tempo i milanesi, avendo da disputare la finale di Coppa a Lisbona appunto giovedì 25 maggio, Corpus Domini, chiesero di poter posticipare l’ultimo impegno di Campionato. La Lega glielo accordò, fissando la data per la partita contro i biancorossi per giovedì 1 giugno. La Juventus, avversaria diretta nella lotta per lo Scudetto, ovviamente si oppose appellandosi alla regolarità del torneo non volendo concedere agli avversari il vantaggio di giocare sapendo già il proprio risultato. La Lega ammise l’anomalia e decise di posticipare anche Juve-Lazio, ma a questo punto insorsero gli avversari dei romani nella lotta per la salvezza adducendo analoghi motivi. E così, fu deciso di posticipare cinque incontri al primo giugno, mentre gli altri quattro, ininfluenti sugli esiti della classifica, si disputarono, nella più stanca delle normalità, domenica 28 maggio 1967.

Quel primo giorno di giugno fu per me molto movimentato: prova di inglese per la Licenza Media al mattino, confronto con la famiglia a tavola su ‘do, don’t, are you? Yes, I’m etc etc.’ e adrenalina in saccoccia verso lo stadio per tempo, vista la probabile invasione di tifosi nerazzurri nel piccolo catino virgiliano, con fischietto d’avvio fissato su tutti i campi della penisola alle 16 in pacca. Come andò quella strana partita, tra una squadra appagata da una undicesima posizione in una classifica già d’oro, che faceva a pugni con le previsioni che la davano per sicura retrocessa, da una parte e una potenza mondiale ferita ma pur sempre fortissima e affamata dall’altra, lo sanno ormai tutti. Perfino la Storia con ogni sua possibile lettura. Quello che non tutti sanno è il fatto che il vero dramma agonico per l’Inter non fu il gol subito nel modo più assurdo e meno previsto, gol che arrivò peraltro nei primi minuti di gara, ma la assoluta mancanza di reazione della squadra allo svantaggio. Voglio dire che il disappunto mio e degli altri tifosi al gol subito era nettamente controbilanciato, con gli interessi, dalla fiducia nei tanti e tanto amati campioni al cospetto di un Mantova abbonato ai pareggi, tanto che alla fine se ne contarono 22 su 34 partite!, e quindi refrattario alle sconfitte ma anche alle vittorie. Passavano i minuti con una velocità da clessidra bucata, Giagnoni e compagni, compreso il gioiellino Volpi, si limitavano al compitino, senza barricate, senza palle in tribuna e senza neppure tentare possibilissimi contropiede. Ma dall’altra parte, calma piatta. Come se la sentenza del destino o della Storia fosse solo una formalità, dal momento che la condanna e pure l’esecuzione erano già avvenute. Il Mantova non vinse quella gara, fu la Grande Inter a perderla. E a liquefarsi.

Carlo Volpi, stella del Mantova del 1967

Quello in cui ho visto un Re fu un mese di giugno iniziato nel modo calcisticamente più infausto per me che si possa immaginare anche se, a dire il vero, nei giorni che seguirono quella settimana tellurica per il mondo del Biscione, non si aveva chiara l’impressione che quei rovesci dolorosissimi e giunti sul filo di lana prima del Trionfo decretassero anche la fine di un’era, l’abdicazione di un regno, appunto. Io ero un ragazzino alle soglie di un’estate di passaggio, con il cuore a volte in tumulto più per uno sguardo della biondina dirimpetto che per un foglia morta del Mariolino, più per un ciao ricevuto dalla medesima in modo gratuito e spontaneo che per un dribbling di Sandrino. Ma il dispiacere era forte, tremendamente forte. Un sentimento di vertigine da mancanza di terra sotto i piedi che sarebbe diventato consueto e provato poi enne volte (Bayern a San Siro, il 5 maggio, Radu a Bologna…), tanto da diventare tratto dell’interismo, del tifare neroazzurro.

Ma allora io non lo sapevo né lo sentivo ancora, e poi c’era la consolazione, in verità molto magra, che la squadra della mia città, quel Mantova che avevo seguito fin da piccolissimo e per cui, in assenza di uno scontro con l’Inter, il mio cuore batteva da sempre, aveva appena concluso un campionato fantastico, memorabile, storico, irripetibile. A quei tempi, la vittoria valeva due punti e chiudere il torneo con 34, frutto di 6 vittorie, i già citati 22 pareggi e 6 sconfitte, gli valse il nono posto assoluto in classifica, subito dietro il Milan e davanti alla Roma, scavalcata, come pure l’Atalanta, proprio all’ultimo respiro. Detto per inciso che oggi, con un simile score, difficilmente ci si salva, il miracolo di quel Mantova di Giancarlo Cadè fu amplificato dal fatto che i biancorossi erano neopromossi, che avevano fatto pochi innesti nella rosa pescando soprattutto in B e che, a detta degli esperti come già detto, alla serie cadetta erano destinati a tornare in modo repentino. È vero che Cadè era stato giocatore e allievo di Edmondo Fabbri che di miracoli a Mantova ne aveva in passato fatti a vagonate, ma a tutto c’è un limite..!

Giancarlo Cadé

«Ho visto un Re, seduto su un cavallo, che piangeva tante lacrime, ma tante che… bagnava anche il cavallo! Povero Re! E povero anche il cavallo!». In tribuna al Martelli, vidi Angelo Moratti e Peppino Prisco, ma erano seri, scuri in volto, e composti. Incazzati come bisce, anzi biscioni milanesi, ma composti. Nessuno di loro due era il Re che vidi da vicino quel giugno del ’67. E neppure il cavallo… Passarono un paio di settimane abbondanti, ottenni la licenza media, vidi la biondina della casa di fronte mano nella mano con un bullo della piazza, pure juventino!, e mi ritirai piano piano nella mia riservatezza riflessiva che era il mio guscio e il mio ostacolo, la mia sicurezza e il mio limite. In una parola sola, la mia solitudine.
Con quella per mano, entravo nell’adolescenza proprio come tutti. E come tutti avrei poi scoperto che quell’età si sa quando inizia, ma non si sa mai quando passa. Con quella nella testa, in attesa di altre voci femminili e fiducioso nella consueta magia delle imminenti vacanze, cazzeggiavo per la città disperdendo noia e incrociando ore inutili. Dove vanno i giovani d’oggi a esibire il loro fancazzismo? Tipicamente, nei centri commerciali. E dove si andava noi, giovani di allora, per nasconderci alla città? Nel centro commerciale ante litteram degli anni del boom: l’UPIM! Scaffali e giocattoli, biancheria e magliette, cancelleria e perfino frigo e lavatrici: il posto ideale per far finta di avere qualcosa da fare e farsi impacchettare, anche per pochi spiccioli, il nulla che ti era necessario. E poi c’era la meraviglia delle meraviglie, una scala che saliva lasciandoti fermo, che ti portava da sola al primo piano. L’unica fatica che dovevi fare era un saltino per impedire che ti riportasse giù, magari affettato o trasparente come una fetta di mortadella.

Bando alle ciance: il pomeriggio del 17 giugno 1967 io, Giuseppe Raspanti licenza media, pacifista e single, ho visto un Re all’Upim di Mantova mentre, accompagnato da un signore robusto e attempato, stava scegliendo tra confezioni di trenini elettrici. Non c’era ressa attorno a lui, come ci sarebbe stato invece da immaginarsi, tanto che io, Giuseppe Raspanti licenza med…, riuscii ad avvicinarmi fino a sentire la sua voce mentre si consultava con il suo accompagnatore. Mi tremavano le gambe e sentivo in bocca la lingua grossa e asciutta che mi impediva di parlare, di esistere. Pelé si voltò verso di me, preoccupato, forse curioso, certamente sorridente. Forse mi disse o mi chiese qualcosa, probabilmente mi stava offrendo un autografo, ma io rimasi inebetito e me lo vidi sfilare di fianco senza reagire. Era la Perla Nera, era già lo spettacolo che si fa bellezza, in attesa di divenire la bellezza che si fa spettacolo. Era un Re, senza corona e senza scorta, ma io non ero in Via del Campo e lui non bussò né una né tre volte. Il destino me lo stava sfilando via, con la consueta destrezza da baro e io, Giuseppe Rasp…, non potei far altro che guardarlo scendere le scale assieme al suo guardaspalle con cui confabulava fitto tenendo sottobraccio una scatola di treni e binari.

L’Unità riporta la notizia del Santos di Pelé a Mantova

Quella giornata continuò nel solito tran tran di piccola cittadina bella ma dimenticata dalle grandi vie di comunicazioni e sono sicurissimo che, come io ho raccontato all’universo mondo di questo incontro ravvicinato ma neutro con Pelé, o Rei, lui abbia fatto altrettanto raccontando come a Mantova, nel ’67, fosse riuscito a fare acquisti senza che nessuno gli romp… lo importunasse. Per quello che mi riguarda, quel pomeriggio corsi fuori volando e dicendo a tutti ciò che avevo visto fino a quando, entrato in un bar vicino casa, cercai le pagine sportive della Gazzetta, il giornale locale, che io, in lutto stretto dal due giugno, avevo da allora evitato con cura. Scoprii così che quella sera, al Martelli, si sarebbe disputata l’amichevole tra i biancorossi e il Santos di sua maestà Edson Arantes do Nascimento, meglio conosciuto come Pelé. In un pezzo di spalla, correlata da foto di Pelé a Borgo Angeli, mentre dà il calcio di inizio alla finale di un torneo notturno (leggi qui per le note sportive), la notizia che l’asso carioca ha lasciato subito dopo la località alle porte della città per tornare a unirsi con la sua squadra nel ritiro segreto sul Garda veronese. Per motivi di sicurezza, il Santos avrebbe raggiunto il Martelli solo pochi minuti prima della gara amichevole, vinta 2-1 dai brasiliani con gol e assist di Pelé. Proprio così!! Ma sapete qual era allora l’appellativo amichevole della Gazzetta di Mantova per noi virgiliani? La pettegola bugiardina…

E comunque, amici miei, io, Gius…, ho visto un Re!


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