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«Non si possono fare paragoni». Ma è davvero così?

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Il mondiale mediorientale in corso ha soffiato nelle trombe di un paragone che da quindici anni circa divide gli appassionati di sport di tutto il mondo.

Da una parte ci sono i fan di Lionel Messi, coloro che strabuzzano gli occhi davanti ai suoi numeri, alle sue gesta, ai suoi traguardi: Messi era una stella nascente ai mondiali di Grosso e 16 anni più tardi figura ancora tra i primi giocatori del pianeta, e nel corso di questo lunghissimo lasso di tempo si è guadagnato stuoli di ammiratori.

Magie di Leo

Dall’altra parte ci sono i nostalgici, coloro che amano perdutamente un’altra epoca e un’altra visione del mondo, un’epoca che è stata in larga misura riscritta a posteriori (come accade sempre, ogni volta che raccontiamo il passato, provando a decifrarlo, ci addentriamo in un lavoro che è molto più creativo di quanto non ci rendiamo conto) e durante la quale l’Italia e il calcio italiano erano al centro del mondo, o almeno si sentivano tali; un’epoca che si identifica con numerosi fuoriclasse, ma che vede chiaramente in Diego Armando Maradona il suo portabandiera più illustre, celebre e celebrato; un decennio che non era stato ancora ricalibrato e ridefinito dalla concezione digitale del mondo, e che paradossalmente viene rimpianto oggi soprattutto attraverso i canali social, e quindi in quel mondo virtuale che al tempo stesso viene denigrato in quanto inautentico.

Magie di Diego

Tra le due fazioni, ci sono una marea di sospetti, occhiatacce e accuse reciproche, tutti comportamenti opachi all’evidenza della matrice ereditaria della grandezza di Maradona e Messi, che certo sono giocatori in parte diversi e figli di mondi diversi, ma che: indossano la maglia numero 10, non raggiungono i 170 cm, sono mancini, sono argentini, sono fenomenali e saltano gli avversari come birilli; è quindi inevitabile che sin dai tempi della poderosa progressione che lo porta a bucare la porta del Getafe, capace di evocare gli spettri del gol del secolo e le urla di un Morales in estasi, Lionel venga paragonato al suo illustre connazionale di Lanus.

Nel corso della rassegna iridata che si concluderà domani, le notevoli prestazioni e le giocate determinanti di Messi hanno ulteriormente alimentato il dibattito, polarizzando le fazioni, e hanno anche forgiato un nuovo mantra ad hoc, che da giorni circola sui social e nei bar e negli ambienti di lavoro: “Non si possono fare paragoni”, frase lapidaria che contraddice un quindicennio di fuoco e che peraltro viene declamata come fosse un dogma religioso, a corredo di quella operazione di riscrittura agiografica che coinvolge da molto tempo il fenomeno che ci ha salutati due anni fa (e che si manifesta in forme analoghe anche con Messi).

Chi scrive ritiene che l’affermazione “non si possono fare paragoni”, oltre a essere letteralmente sbagliata (i paragoni evidentemente si possono fare perché nessuno li vieta, semmai sono inopportuni o difficili), sia anche del tutto priva di fondamento.

Provo a spiegare la mia posizione.

Se fosse impossibile paragonare tra di loro le squadre o i giocatori, dovremmo desumerne che non è possibile stabilire chi sia più bravo tra Maradona e Giovinco, tra Franco Baresi e Bonucci, tra Pelé e Richarlison. E invece nessuno di noi ha dubbi di sorta in merito ai nomi citati, chiaro sintomo del fatto che il confronto tra due giocatori, per quanto spesso sviluppato al “lordo” di mille variabili, è concretamente fattibile.

In secondo luogo, spesso chi sostiene che i confronti sono impraticabili, si trincera dietro la fantomatica distanza tra le “epoche”, ma non riesce a definire cosa intenda per “epoca”. Se assecondiamo l’intuito, quando parliamo di epoca alludiamo a due eventi che si collocano in un due momenti tra loro distanti, e quindi la finale di Monaco di Baviera del 1974 appartiene a un’altra epoca rispetto alla finale di domani 18 dicembre 2022. Ma quando è finita l’epoca dei mondiali di Germania e quando è iniziata l’epoca oggi in corso? E quando finirà? Paolo Maldini in qualche epoca è stato un giocatore professionista, avendo debuttato nel 1985 ed essendosi ritirato nel 2009? E Peter Shilton, che ha esordito subito dopo che la sua Inghilterra era diventata campionessa del mondo e si è ritirato quando Buffon si guadagnava un posto in nazionale?

La mia impressione è che tendiamo a confondere l’epoca con la parabola sportiva di alcuni dei giocatori più dotati e rappresentativi del mondo: l’era di Ronaldo e Zidane, l’era di Maradona e Platini, l’era di Messi e di Cristiano Ronaldo. Posso accettare l’approssimazione, purché si ammetta che di questo si tratta: di una convenzione di comodo, utile a identificare uno specifico lasso di tempo, all’interno del quale tuttavia le situazioni cambiano, le regole pure, compagni e avversari idem, la stessa percezione delle competizioni, dei meriti etc.. lo fa. C’è tutta una serie di regole di analisi non scritte che muta con il tempo senza che ce ne rendiamo conto: l’approccio statistico oggi in voga, mutuato dalla NBA e a mio parere decontestualizzato, è sicuramente uno strumento di analisi utile, che sfronda i discorsi dalle opinioni che collidono con i fatti (“Xavi segnava poco”: se però i numeri ti dicono che ha segnato più di Iniesta, Modric e Pirlo, evidentemente siamo noi a non avere una piena consapevolezza della carriera di Xavi), ma che è in uso da pochi anni e cui si dà un peso effettivo da pochi anni, tanto che per i decenni che precedono il nostro i dati a nostra disposizione sono infinitamente meno completi.

Pirlo e Xavi a Euro 2012

Fermo restando quanto sopra, ovvero che il confronto è sempre teoricamente fattibile, ci sono a mio parere alcuni elementi che lo rendono estremamente complicato, a volte non praticabile, e che in ogni caso ci impediscono di limitarci alla “conta delle mele”.

La prima variabile che complica in maniera a volte irrimediabile l’analisi comparata tra due squadre e/o due giocatori è la diversa quantità di dati a disposizione, e questo secondo me è il problema essenziale. Se ci focalizziamo su Messi e Cristiano Ronaldo, possiamo snocciolare i loro numeri, ricordare le loro stagioni e prestazioni migliori, analizzare il loro impatto sul gioco in maniera dettagliata (gol, assist, dribbling, passaggi chiave, numero di reti decisive, titoli di squadra, titoli individuali) e ripetere l’operazione per quindici stagioni. Nel loro caso, inoltre, è decisivo il contributo di quello che gli analisti NBA definiscono “eye test”, e che misura tutto ciò che la statistica non può fotografare: le giocate che non entrano nei tabellini, il momento in cui vengono confezionate, la centralità nel progetto di gioco di una squadra, l’impatto sulle vittorie o sulle partite clou etc.. Il test visivo (“Nulla come i miei occhi”, dice il nostro Niccolò Mello) è una componente essenziale, perché ci racconta il giocatore al di là dei numeri e ne completa la descrizione.

Messi e Cristiano Ronaldo ai tempi di Barcellona e Real Madrid

L’operazione che conduciamo da molti anni con Messi e Cristiano Ronaldo, tuttavia, non viene sviluppata in maniera altrettanto completa e articolata per molti altri campioni che non sempre sono stati nell’occhio del ciclone (quanti di noi saprebbero descrivere in maniera precisa come ha giocato Ronaldinho a Parigi nel 2002/2003, o anche solo la splendida stagione di Neymar sempre a Parigi nel 2017/2018, o magari l’impatto di Vieira sull’Arsenal nel 2001/2002? Rispondo io: quasi nessuno), e questo asciuga il giudizio su questi altri giocatori, riducendolo al ricordo di alcuni momenti cruciali, particolarmente noti o anche solo apprezzati da tutta l’Italia sportiva in televisione (“Kakà e la semifinale con il Manchester United”, “Van Persie e il capolavoro acrobatico contro la Spagna nel 2014”).

Questa dinamica “monca” si gonfia come una spugna gigante quando facciamo uno o più passi indietro nella storia e siamo chiamati a ricostruire nel dettaglio le stagioni di giocatori degli anni ’50, ’60 o ’70, specie se non parliamo di stelle di primissima grandezza: in questo caso, la costruzione della nostra conoscenza assume una dimensione pressoché puramente dossografica, che può essere supportata dal test visivo, ma spesso per un numero contenuto di partite, e in ogni caso quasi mai addentrandosi nella specificità di un singolo momento. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi sa descrivere in maniera precisa la stagione 1956 di Garrincha o la stagione 1965/1966 di Johan Cruijff, e stiamo parlando di pesi massimi, non di giocatori di nicchia, e per colmare la lacuna servirebbero/servono fonti e documenti in abbondanza e il tempo da dedicare a questi documenti.

La seconda variabile che rende ulteriormente intricato ogni discorso è il contesto: per poter decifrare e in qualche modo “misurare” una squadra o un giocatore del passato, come dice un grande appassionato e amico di Game of Goals, bisogna sedersi sulla sedia del passato.

Non sempre si riesce nell’opera di immedesimazione: ho sentito diversi appassionati rimproverare ad Antognoni di aver militato per tutta la carriera in una squadra di secondo piano, dimenticando completamente che prima del 1995 questo succedeva spesso; ho sentito molti appassionati celebrare il miracolo sportivo di alcuni singoli fenomeni, senza tuttavia considerare che in alcuni periodi certi “miracoli” erano quasi all’ordine del giorno, in quanto il grande equilibrio favoriva l’emersione e a volte anche il trionfo di formazioni sulla carta non eccezionali, e quindi si registravano molti più casi Leicester 2016 di quanti non se ne registrino nella contemporaneità.

Sul Sudamerica potremmo poi aprire un capitolo a parte: a mio parere anche nel corso del nuovo millennio abbiamo maltrattato e sottovalutato l’altra metà del cielo sportivo, il suo fascino, le sue particolarità, e siamo annegati nella nostra boria eurocentrica e italocentrica senza neppure accorgerci di farlo. Se però rimane vero che, negli ultimi trent’anni circa, quasi tutti i migliori giocatori sudamericani hanno militato e militano in Europa, e che quindi la complessiva superiorità del calcio europeo è difficilmente confutabile, questa regola non vale per i decenni precedenti, e quindi Maradona poteva essere il giocatore più grande del mondo anche con la maglia dell’Argentinos Juniors, o il Brasile poteva incamerare la Coppa Rimet con giocatori che militavano solo nel suo campionato.

Il Brasile del 1970. Per molti la nazionale migliore di sempre. E tutti i giocatori di quella squadra militavano… in Brasile

Cerco di chiudere il discorso, anche perché c’è una finale di Coppa del mondo che ci aspetta: contrariamente a quanto recita l’adagio che ha spopolato nelle ultime settimane, il paragone tra squadre e giocatori è (quasi) sempre fattibile, ma a mio avviso, per avere un senso, deve essere sviluppato con intelligenza, prudenza e tenendo conto delle due variabili suddette (l’effettiva conoscenza della carriera del giocatore e il contesto in cui questo si è mosso), cui dovrebbe aggiungersi come minimo anche la variabile squadra (è banale dirlo, ma spesso lo si dimentica: non si gioca da soli), e poi anche l’ambiente, l’allenatore, gli avversari, gli specifici trofei, le condizioni fisiche etc…

Un’operazione sincretica di questo tipo, a mio avviso e con tutti i distinguo del caso, è l’unica che possa in qualche modo consentirci di avere una visione d’insieme di un atleta e/o di una squadra, e questo anche e soprattutto al di fuori dell’ottica comparativa. Accantoniamo quindi la fretta e l’esigenza di pronunciare sentenze definitive dopo ogni singola giocata o prestazione, rallentiamo e cerchiamo di ragionare e di essere anche – mi permetto di suggerirlo – più umili e meno legati a una visione delle cose strettamente soggettiva e declinata in chiave sentimentale.

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