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I migliori 10 giocatori scandinavi: dal Gre-No-Li ai big di Danimarca

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Il calcio scandinavo – e per Scandinavia intendo Norvegia, Svezia e Danimarca, escludo Finlandia e Islanda – ci ha regalato non poche perle, sin dagli anni Quaranta. Personalmente ritengo che a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, il movimento calcistico svedese non avesse nulla da invidiare agli ungheresi e gli slavi e il raggiungimento di una finale mondiale nel 1958 ne è la prova. La Danimarca invece ha avuto l’onore di fregiarsi di un titolo europeo nel 1992, in quella che è una delle migliori favole calcistiche della storia del calcio in Europa. Insomma, la tradizione scandinava non avrà la stessa ricchezza delle scuole centro-europee e sudamericane e forse nemmeno di quelle balcaniche, eppure ha sfornato nel corso degli anni numerosi grandi giocatori Io e Francesco Buffoli ne abbiamo scelti dieci e abbiamo dovuto fare esclusioni clamorose, una tra tutti il danese John Hansen, oppure il bomber attuale Haaland, ancora troppo giovane per essere inserito in questa lista, ma che in futuro ci sarà sicuramente. L’ordine è opinabile e andando sempre più indietro nel tempo abbiamo sempre più tenuto conto delle testimonianze “de relato” (per usare un gergo avvocatesco), delle opinioni di chi ha vissuto il periodo e delle impressioni dei maggiori storici del calcio.

1) Gunnar Gren

Nominato a fine millennio calciatore svedese del secolo, Gunnar Gren è stato tanto, anche troppo per la storia del calcio del suo paese. Mezzala e poi regista superbo, secondo l’amico e compagno Liedholm era una sorta di Maradona più arretrato e compassato: al netto di un pizzico di esagerazione, Gren cattura l’attenzione e l’ammirazione dei suoi connazionali già durante gli anni ’40 e a fine decennio, superata l’epoca buia del secondo conflitto mondiale, diventa una stella planetaria quando trascina la sua nazionale alla medaglia d’oro alle olimpiadi di Londra, dopo una finale in cui i gialloblu superano gli estrosi jugoslavi proprio grazie a due reti del loro uomo chiave. Gunnar ha già ventotto anni (ha esordito addirittura a metà anni ’30!), ma deve ancora dare il meglio: nel 1949 lascia l’IFK Göteborg e si trasferisce a Milano (la meta preferita degli scandinavi, all’epoca), dove diventa il trascinatore e il perno del gioco del Milan, esaltandosi anche come uomo gol (18 le reti della stagione d’esordio). Nel 1950-51 disputa la sua stagione migliore, abbinando la classe del regista puro alla concretezza che ci si attende da uno svedese, traformandosi sempre più in un superbo uomo squadra votato alla regia e all’apertura geniale (memorabili i suoi colpi di tacco). Lascia Milano nel 1953, dopo una mai chiarita incomprensione con la dirigenza, e nel 1953-54 regala ai tifosi della Fiorentina, che l’hanno accolto come il fuoriclasse che è, un’altra stagione superlativa, tanto che molti giornalisti lo eleggono quale miglior giocatore del nostro calcio per la seconda volta, privilegio riservato a pochissimi stranieri. Ai mondiali di Svezia, a dispetto della mobilità ridotta e dell’età avanzata (38 anni), Gren rivaleggia con Didì – quando si deve incoronare il miglior centrocampista del torneo – e si guadagna l’ammirazione del giovanissimo Pelè, disputando peraltro una finale da vecchio leone. La sua carriera da tecnico sarà meno gloriosa e fortunata. Anche su di lui sono costretto a raccontare un aneddoto, questa volta di natura personale: a settembre del 1995 siedo in tribuna a San Siro e al mio fianco c’è un uomo anziano, un veterano che segue i rossoneri da quasi mezzo secolo e che, dopo una lunga discussione prepartita, afferma con sicurezza che Gunnar Gren è stato il miglior giocatore che abbia mai vestito la maglia rossonera dal 1950 sino a quel momento, quantomeno sul piano puramente tecnico.

2) Gunnar Nordahl

Attaccante possente e forte fisicamente, Gunnar Nordahl rappresenta una delle stelle più luminose del calcio degli anni Quaranta e soprattutto Cinquanta. Straordinario uomo-gol dal tiro potente e con la capacità di fare a “sportellate”, viene reputato tra i primissimi giocatori svedesi della storia. Il soprannome affibbiatogli  (“Il Pompierone”) deriva dal fatto che il campionato svedese degli anni Quaranta non era ancora professionistico e, quando nel 1945 proposero a Gunnar il tesseramento nella IFK Nòrrkoping, squadra big dell’epoca, all’attaccante proposero anche un posto da pompiere, che gli avrebbe dato il diritto alla pensione. In Svezia, fin dal 1937, Nordahl ha giocato nell’Hornefors, in terza divisione, per poi approdare nel 1940 nella massima serie in forza al Degerfors dove rimane quattro anni alternando il campo – dove segna regolarmente – alla professione di tornitore in officina. In questi anni si guadagna i gettoni per vestire la maglia della nazionale, che lo fece conoscere definitivamente al mondo in occasione delle Olimpiadi di Londra del 1948: Gunnar Nordahl è uno degli assoluti trascinatori all’oro olimpico, insieme a Gran e Liedholm, e la sua gara-copertina fu la finalissima contro la temibile Jugoslavia, che la Svezia batte per 3-1, con un suo gol in finale, che lo laureò capocannoniere del torneo, ex aequo con il danese John Hansen. Nel gennaio 1949, dopo un duello di mercato per accaparrarsi le prestazioni del centravanti svedese che vedeva coinvolta anche la Juventus degli Agnelli, il Milan lo acquistò e così nacque una delle più belle storie d’amore per i tifosi del Diavolo: Gunnar, in coppia con i connazionali Gren e Liedholm, interrompe il digiuno tricolore dei rossoneri, regalando a loro uno scudetto nel 1951 e un altro nel 1954. In sette anni di Milan diventa il più prolifico cannoniere della storia rossonera con 221 reti in 268 presenze, nonché il terzo marcatore di sempre della storia del campionato italiano, dietro solo a Silvio Piola e Francesco Totti. Gioca anche con la maglia della Roma e nonostante l’età non più verde disputa una grande prima stagione, mentre durante la seconda i problemi fisici e gli acciacchi hanno la meglio, facendo così ricoprire allo svedese il ruolo di allenatore per un breve periodo.

Gren, Nordahl, Liedholm,”Gre-No-Li”, il magico tridente svedese che ha fatto sognare la Milano rossonera.

3) Zlatan Ibrahimovic

Fisico possente e leve lunghe, forza fisica e agilità, Zlatan Ibrahimovic è stato senza dubbio lo svedese più forte degli ultimi decenni. Nato a Malmoe e svezzato calcisticamente in Olanda, nella scuola dei ragazzi terribili dell’Ajax degli Duemila – Chivu, Maxwell, Sneijder, Van Der Meyde, Van Der Vaart, oltre al veterano Litmanen -, impressiona la platea italiana e mondiale già agli Europei del 2004, quando uccella Buffon con una pregevole acrobazia di tacco che inchioda gli Azzurri sull’1-1. La Juventus mette per prima le mani su di lui e lo porta nel calcio che conta, in Serie A, dove vince due scudetti da titolare. Da giovane vezzoso con grandi lampi di classe alternati a momenti di eccessivo narcisismo sotto porta, si trasforma con il tempo in un giocatore completo e letale, grazie anche all’aiuto di Fabio Capello, che vedeva nelle potenzialità dello svedese qualcosa che lo avvicinava a Marco Van Basten, potenzialità che andavano sgrezzate e coltivate. Con il terremoto di Calciopoli, Ibrahimovic approda all’Inter, di cui sarà l’uomo copertina per tre scudetti di fila. Straordinario solista ed accentratore attorno a cui costruire una squadra, ha pagato la sua poca organicità e scarsa flessibilità a giocare in un calcio corale e in cui si suona un determinato spartito – la sua breve avventura al Barcellona di Pep Guardiola, dove in certi frangenti ha comunque fatto la differenza e segnato reti importanti, ne è un esempio – con momenti poco brillanti nelle fasi finali della Champions League dove gli è spesso mancata la grande notte da protagonista. Nei vari campionati dove ha militato invece era una “polizza”: la sua presenza è quasi sempre valsa la vittoria e uno spostamento nettissimi di equilibri del campionato a proprio favore: tra Juventus, Inter, Milan, Barcellona e PSG il rendimento nei campionati internazionali è quasi sempre stato stellare e costante. Zlatan rientra nel ristrettissimo novero dei fuoriclasse degli ultimi 15 anni un gradino sotto i due alieni Messi e Cristiano Ronaldo, ma assolutamente accostabile come caratura a mostri sacri del calibro di Iniesta, Xavi, Robben. La sua longevità e la sua tempra lo portano tuttora a fare la differenza nella Serie A odierna, ad un passo dalle quaranta primavere sulle spalle.

Zlatan Ibrahimovic, implacabile uomo-scudetto

4) Lennart Skoglund

Pannocchia che si fa apprezzare da tutto il mondo nel 1950, tanto da figurare nella formazione ideale del torneo mondiale che si disputa in Brasile, Lennart Skoglund (detto Nacka in onore al sobborgo di Stoccolma che l’ha visto nascere) è stato uno svedese anomalo. L’antesignano di tutti i Mario Corso e Dejan Savicevic che verranno era infatti un superbo fantasista mancino, amava partire dalla fascia sinistra per seminare il panico nelle difese avversarie grazie all’arma affilatissima del suo dribbling: incantatore di serpenti, era nato per regalare spettacolo e quando il mondo scopre meravigliato la sua classe, la Svezia dei dilettanti inizia a stargli stretta; ecco quindi l’Italia e in particolare Milano, ma sulla sponda opposta a quella dove stanno già scrivendo la storia gli assi vestiti in rossonero. A Milano viene accolto come una star planetaria e diventa per tutti Wandissima: superato non senza qualche fatica il periodo di ambientamento, pedaggio da pagare all’approdo in un campionato selettivo e spigoloso per gli estrosi offensivi, Skoglund inizia a sfornare magie, facendo dimenticare ai suoi tifosi (che si innamorano in men che non si dica del suo gioco eccentrico) le pause e l’inedita tendenza, per uno scandinavo, ad anteporre la giocata vezzosa all’essenzialità. Con l’Inter catenacciara ideata da Foni vince due titoli – strappati a squadre superiori – e forma con Nyers e Lorenzi un trio formidabile. Nella seconda metà del decennio la cronica discontinutà diventa preoce declino (per quanto non mancino lampi da campione anche a Genova), ma i mondiali di Svezia lo vedranno nuovamente in grande spolvero, coprotagonista della squadra che si inchina solo al Brasile dei geni Pelé e Garrincha.  Nacka, che soffriva da sempre di problemi di alcolismo, morirà di infarto a 46 anni, solo e povero, e non potrà ammirare di persona la statua eretta in suo nome nella sua città d’origine; non amo l’anedottica ma nel caso del biondo genio svedese faccio due eccezioni: Benito Lorenzi, in un’intervista che si trova su Youtube, non trattiene le lacrime quando lo nomina, e aggiunge di non poter spiegare con le parole quanto fosse bello giocare con lui; Nils Liedholm, altrettanto commosso, lo paragona invece a quel Garrincha che tanto gli somigliava nel football così come nella vita.

5) Nils Liedholm

Se l’amico fraterno Skoglund personificava l’abusata definizione di genio e sregolatezza, l‘austero Niels Liedholm era invece professionista di una serietà esemplare. Giocatore votato all’ascetismo, buon padre di famiglia, Nils sfoggiava un fisico ai limiti dell’avveniristico (la sua dedizione alla preparazione era maniacale, come ha raccontato più volte la moglie) e in campo poteva dominare il gioco con la pura intelligenza: passatore precisissimo e razionale, ripuliva la manovra e sapeva anche inserirsi nelle aree avversarie e segnare con regolarità, specie quando giocava da pura mezzala. Come il connazionale Gren, approda a Milano quando non è più giovanissimo, dopo una brillante carriera nel calcio dilettantistico svedese e dopo una medaglia d’oro olimpica, e subito diventa un tassello fondamentale nel Milan che incanta l’Italia e l’Europa all’inizio degli anni ’50. San Siro si innamora della sua classe e della pulizia del suo gioco, tanto da tributargli (secondo una nota leggenda) un applauso a seguito del primo errore commesso nel passaggio dopo mesi di perfezione assoluta. Nils sarà coprotagonista della Svezia ai mondiali di casa, a 36, dopo essersi riciclato come mediano/libero sui generis nel 1956/57, quando disputa forse la sua stagione migliore. Al contrario di Gren, Liedholm sarà un grandissimo tecnico e maestro di calcio.

6) Kurt Hamrin

I tifosi, ammirati dalla sua rapidità e agilità, da una leggerezza che lo fa volare sui pesanti difensori italiani, lo soprannominano Uccellino, e il nomignolo gli resterà appiccicato a vita. Kurt Hamrin è stato un giocatore meraviglioso, ennesimo grande prodotto del vivaio svedese degli anni ’40 e ’50. Si impone all’attenzione degli osservatori internazionali durante i mondiali di casa, quando è forse il più brillante degli svedesi e segna ben cinque reti, ma in Italia è già una stella di prima grandezza, dopo aver trascinato il Padova di Nereo Rocco a uno storico terzo posto, peraltro condizionato da alcuni errori arbitrali che il genio triestino non avrebbe mai digerito. Dopo la rassegna iridata Hamrin si trasferisce a Firenze, dove scriverà le pagine più belle della sua carriera, imponendosi come ala destra/seconda punta capace di segnare con la regolarità dei centravanti, grazie al dribbling efficace e alla grandissima rapidità di esecuzione. In maglia viola conquisterà anche la Coppa delle Coppe, unico trofeo internazionale della squadra fiorentina, da assoluto protagonista e capocannoniere. Superata la trentina torna alla corte di Nereo Rocco, che sa come valorizzare le sue classe e rapidità, e vive una seconda giovinezza, risultando ancora una volta decisivo per un trionfo europeo: saranno infatti memorabili i suoi due gol che regaleranno al Milan la Coppa delle Coppe nel 1968, così come la rete decisiva con cui stenderà il Manchester United di Charlton e Best nel 1969. Piccola curiosità: Hamrin è tuttora il secondo miglior marcatore straniero di sempre del nostro campionato.

7) Michael Laudrup

Talento danese dalla classe purissima e dal tocco prelibato, Michael Laudrup è stato uno dei più fulgidi talenti calcistici della Scandinavia. Maestro nell’ultimo passaggio e nella visione di gioco, specializzato nel trovare corridoi impossibili sospendendo il tempo per una frazione di secondo, come caratteristiche può essere definito un “Iniesta ante litteram”, senza però avere quasi mai la cattiveria e la freddezza dello spagnolo nei momenti cruciali. In Italia l’abbiamo conosciuto nella Juventus, dove arrivò nel 1983. Per questioni regolamentari inerenti al numero massimo di stranieri tesserati, i bianconeri lo girano alla Lazio, dove l’ambientamento non è dei migliori e, nonostante l’indubbia classe del danese, arriva persino una retrocessione. Complice l’addio di Boniek e il suo approdo alla Roma, la Juventus arruola in pianta stabile Laudrup. La sua gara più bella del periodo juventino fu senza dubbio la finale di Coppa Intercontinentale 1985, dove mostrò lampi di classe ed un’intesa con Michel Platini da far strabuzzare gli occhi a tutti gli amanti del calcio. Dopo 4 anni, lascia Torino per Barcellona, dove avviene la sua maturazione definitiva. L’allenatore-guru Johann Cruijff stravede per Michel, esaltando al meglio le sue qualità nel suo magico Dream Team. Arrivarono i titoli, ma soprattutto i riconoscimenti individuali: per ben due volte (1991 e 1993) viene eletto miglior giocatore straniero della Liga. L’arrivo di Romario nel 1993 gli fa perdere sempre più posto nelle gerarchie, così l’anno dopo il danese veste clamorosamente la maglia delle Merengues, gli acerrimi rivali di Madrid, dove vince subito da protagonista l’ennesimo campionato, mentre la seconda stagione sarà più in ombra. I suoi ultimi atti da giocatore sono un’esperienza in Giappone ed un’ultima stagione vittoriosa all’Ajax, senza dimenticare il mondiale di Francia ’98 con la Danimarca, dove diede un ottimo contributo da veterano e giocatore di esperienza. A causa di incomprensioni con il ct Richard Nielsen, perde il treno della gloria degli Europei 1992, che verranno vinti dal fratello Brian.

8) Peter Schmeichel

Portierone danese considerato tra i migliori estremi difensori di sempre, icona del Manchester United e della nazionale con cui a sorpresa si laurea nel 1992 campione d’Europa. La sua carriera nella massima serie danese inizia nello Hvidore per poi proseguire nel Brondby IF, con cui raggiunge una semifinale di Coppa UEFA nel 1991, persa contro la Roma. Sir Alex Ferguson lo nota e lo porta con sé nei Red Devils, dove difenderà la porta per sette stagioni, culminando così la sua avventura mancuniana con la rocambolesca finale di Champions League del 1999, coronamento del treble e dell’intera sua carriera. Se il suo tramonto calcistico lo vede vestire le maglie di Sporting Lisbona, Aston Villa e Manchester City, il suo apogeo è invece il trionfo in Nazionale agli Europei in Svezia del 1992. Sontuoso nella terza gara contro la Francia di Papin – autentico spareggio dopo il pareggio contro l’Inghilterra e la sconfitta con la Svezia – e ancora più incredibile nelle due gare finali contro Olanda e Germania: contro gli Orange oppone una strenua resistenza per 120 minuti e fa piangere Marco Van Basten, parandogli il rigore nella lotteria finale – Marco la reputerà una delle più cocenti delusioni della carriera -; nella finalissima invece compie numerosi grandi interventi (uno bellissimo su Klinsmann) e a piangere saranno i tedeschi, che perderanno per 2-0. Schmeichel verrà inserito nella squadra ideale del torneo, a coronamento di un torneo maiuscolo. Le parole di Ryan Giggs sono un emblema della stima dei compagni verso il portiere danese: “Molti portieri ti fanno vincere la partita, e Peter ce ne ha fatte vincere più di chiunque altro”.

9) Allan Simonsen

Pallone d’oro 1977, ala destra vecchio stampo di classe e velocità – quelle che con il dribbling e i tocchi cercano di arrivare sul fondo per pennellare traversoni per le punte – e protagonista sul finire degli anni Settanta di un dualismo con il “gemello” Keegan, il talento danese si afferma come uno dei migliori giocatori scandinavi di sempre. Si afferma come grande protagonista con le maglie del Borussia Monchengladbach in Germania e del Barcellona in Spagna ed è un giocatore con un particolare feeling con le finali di Coppe europee. Nel 1975, insieme al bomber Heynckes, trascina il Borussia alla vittoria della Coppa UEFA, siglando una doppietta nella gara di ritorno. Nel 1977, anno di grazia del danese e premiato dalla giuria di France Football con il pallone d’oro, sigla una pregevolissima rete nella finale contro i Reds del Liverpool ma non basterà per alzare la coppa più ambita. L’Europa esalta le sue qualità calcistiche, condite sempre da un ottimo numero di gol, che lo rendono un’ala prolifica: nel 1979 porta a casa un’altra Coppa UEFA con ben 8 reti, di cui una decisiva nella finale contro la Stella Rossa. Con i blaugrana in tre anni non riuscirà mai a vincere il campionato, ma otterrà comunque la soddisfazione di un trofeo, con un gol nella finale vittoriosa di Coppa delle Coppe 1982 nel Camp Nou contro i belgi dello Standard Liegi: Simonsen sigla il gol del pari sul finire nel primo tempo e poi batte la punizione dal quale scaturisce il gol del sorpasso di Quini.

Allan Simonsen ha il privilegio di aver segnato in 4 finali di coppe europee (due Coppe UEFA, una Coppa dei Campioni e una Coppa delle Coppe)

10) Preben Elkjaer-Larsen

Superbo centravanti che ha indossato a lungo anche le maglie numero dieci e numero undici, giocatore votato soprattutto alle ripartenze, tanto da guadagnarsi il soprannome di Cavallo Pazzo, il danese Preben Elkjær Larsen merita di figurare tra i massimi calciatori scandinavi di ogni epoca tanto quanto i fuoriclasse svedesi sopra descritti.  Testa matta come e più di molti compatrioti (Il Pazzo di Lokeren), Larsen era giocatore che faceva leva sulla straordinaria forza fisica e sulla velocità, armi che gli consentiranno prima di imporsi nel campionato danese come bomber prolifico, quindi di  gettare scompiglio nei robusti reparti difensivi italiani degli anni ’80.  Negli occhi dei tifosi italiani luccicano ancora le sue poderose progressioni, durante le quali poteva fare sfoggio di ottime doti tecniche e di capacità dribbling degne di un’ala vera, e i gol con cui ha regalato al Verona uno scudetto impronosticabile e tuttora celebrato come un vero e proprio miracolo. Il superbo rendimento offerto anche nelle competizioni internazionali, in particolare agli Europei del 1984, gli consentirà di figurare per due stagioni consecutive sul podio del pallone d’oro, nel primo caso alle spalle di Platini e Tigana e la seconda volta alle spalle del solo Roi Michel

Articolo a cura di TOMMASO CIUTI e FRANCESCO BUFFOLI

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